L'esercito intraprese la marcia quotidiana prima del tramonto. Galanár cavalcava con andatura tranquilla alla testa dei suoi soldati. Per scacciare il palese malcontento che lo accompagnava da un paio di giorni, cercava di concentrarsi su pensieri lieti: i confini delle terre dell'Est erano prossimi e, una volta varcati, non avrebbe più temuto l'oscurità. Gli alberi di Laurëlindon gli erano amici, perché gli elfi usavano illuminare con la luce argentea delle magie lunari le foreste più intricate del loro regno.
I suoi uomini erano allegri e di buon umore. Coloro che erano riusciti a recuperare le forze camminavano o cavalcavano, mentre i più gravi erano stati sistemati nelle lettighe, in fondo alla colonna. I cavalieri aprivano la fila. Li seguivano gli arcieri, i balestrieri e i fanti, quindi gli incantatori e i guaritori, che restavano più vicini ai feriti.
Il capitano Mellodîn si muoveva in modo del tutto inusuale in mezzo a tanto ordine: incurante dei commenti dei suoi sottoposti, si spostava al galoppo verso la coda della spedizione e le montagne dell'Ambit, che tutti avevano gran fretta di abbandonare. Scrutava i visi dei soldati che gli passavano accanto alla ricerca di qualcosa. Quando vide il gruppo degli incantatori, spronò il cavallo. Lasciò sfilare le figure incappucciate e raggiunse la schiera dei guaritori che, abbandonati gli abiti scuri da battaglia, procedevano indossando tuniche chiare e fresche, adatte al viaggio.
Mellodîn rallentò: in mezzo a loro l'avrebbe trovata. Seppure non ricordasse bene il suo volto, era sicuro che l'avrebbe riconosciuta e, in effetti, non gli occorsero grandi sforzi per avere successo: una figura minuta e flessuosa incedeva bizzarramente coperta da un lungo mantello di un nero fitto. Solo una ciocca bluastra sfuggiva dal suo cappuccio.
Il capitano si arrestò e smontò con fatica, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore. La figura scura ebbe uno scarto e abbandonò la marcia per accorrere al suo fianco.
"Non dovete sforzare il braccio a quel modo!", esclamò di slancio, prima di modulare la voce in un tono più pacato, come se si fosse vergognata di quella reazione istintiva. "Più tardi vi fascerò io la spalla, capitano".
Mellodîn le rivolse un sorriso compiaciuto.
"Ero certo che foste voi".
A quella frase, Silanna si irrigidì. Appena lo aveva visto arrivare, mille supposizioni e congetture avevano preso vita nella sua testa: era lì di propria iniziativa o recava messaggi dal generale? E, in quel caso, come avrebbe dovuto reagire? Prima che potesse elaborare un risposta adeguata, il capitano tirò le redini, avvicinandole l'animale.
"Il cammino è lungo, mia signora. Sono venuto a offrirvi il mio cavallo e a scortarvi per un tratto di strada".
Quell'offerta la mise ancor più in allarme: perché quel privilegio proprio a lei? La sua mente saltò subito a quella che le parve la più logica conclusione.
"Avete fatto tanta strada inutilmente, capitano. Ho già detto al generale che non desidero alcun trattamento di favore".
Quella risposta infastidita suonò del tutto incomprensibile alle orecchie di Mellodîn. A volte, però, un amo lanciato a occhi chiusi riserva la miglior pesca, e il capitano pensò di approfittare di quell'esca per risolvere almeno uno di quei dubbi che l'avevano spinto fin laggiù.
"Mi offendete, Daimonmaster, rispondendo in questo modo. È solo l'offerta di un soldato che desidera ringraziarvi per avergli salvato la vita".
Udendo quell'appellativo, Silanna sussultò. Forse avrebbe fatto meglio a prestare a quell'uomo un'attenzione maggiore di quella che gli aveva riservato fino a quel momento. Forse nascondeva qualcosa di più della banalità della sua razza. Scacciò subito quell'idea dalla mente, ma si sforzò di mostrarsi più gentile.
"Se è il vostro grazie, lo accetto volentieri".
Ignorò il braccio che lui le porgeva e, con un movimento esperto, salì a cavallo alla maniera degli uomini. Mellodîn trasalì: che razza di donna era mai quella? Prese le briglie con la mano destra e, camminandole a fianco, guidò il destriero al passo, prendendosi il tempo per osservarla.
Durante l'assalto notturno era apparsa dal nulla ed era rimasta al centro della tregenda di uomini e di colpi senza battere ciglio. Aveva curato Galanár incessantemente e il generale si era rivolto a lei senza indugi quando il troll lo aveva colpito. Eppure non l'aveva mai vista prima, né il principe l'aveva menzionata nei suoi discorsi, mentre lei aveva esordito con quella strana affermazione su Galanár. Quell'elfa era tutta un mistero per lui, ma un mistero che lo inquietava più che ammaliarlo. Concluse che il modo migliore per affrontare la faccenda fosse quello di essere schietto e diretto.
"Posso farvi una domanda?", chiese, quando furono abbastanza discosti dalla colonna da non essere uditi.
Silanna non si scompose. Continuò a stare eretta sul cavallo, fiera come una statua di ghiaccio, e acconsentì, conscia che quel viaggio non sarebbe potuto continuare nel reciproco silenzio ancora per molto.
"Avete menzionato il generale e l'espressione della vostra voce era tutt'altro che compiaciuta. Permettetemi di chiederne il motivo, perché francamente non riesco a immaginare come il nostro principe possa meritare una simile asprezza".
Lei, a quelle parole, gli strappò con forza le redini dalla mano e, tirandole a sé, fece fermare il cavallo.
"Esiste una sola parola per definire ciò che il principe ha fatto, e non è degna di essere pronunciata".
Fredda, furente e avvelenata: Mellodîn pensò a quel punto di poter immaginare cosa fosse accaduto. Stimò anche che lei doveva aver fatto parecchia resistenza, e ciò spiegava il malumore del generale. In cuor suo, se ne dispiacque: non amava il lato volubile e prepotente del carattere di Galanár, quella sua parte di cuore che pretendeva sempre ciò che bramava, ma si piegò comunque all'abitudine e tentò una strenua difesa dell'amico.
"Mi duole che vi abbia contrariata fino a questo punto. Tuttavia posso giurare che il nostro principe è un uomo nobile e di modi cortesi. Qualsiasi offesa possa avervi arrecato è solo frutto dell'intemperanza e del disordine del vino. Fareste meglio a non darvi peso e dimenticare".
Aveva parlato con sincerità, era evidente, ma quella ancestrale connivenza maschile sembrò intollerabile a Silanna. Scese da cavallo e gli si parò dinnanzi, sottile di fronte alla stazza di lui, ma spaventosa nell'ira che emanava dagli occhi dorati e dai pugni stretti sotto le lunghe maniche.
"Voi uomini, sciocchi e presuntuosi, siete davvero convinti di possedere giustificazioni per ogni capriccio? Rinchiudete le vostre principesse dentro splendidi castelli, ad aspettare che ritorniate da una guerra che amate a tal punto da volere che non finisca mai. Pretendete castità dalle vostre spose, ma non vi preoccupate di violare i vostri bottini di guerra e di cercare diletto dove più vi piace. Ma se una donna, capitano, ha scelto di stare in mezzo alla battaglia, non per questo merita minor rispetto o è meno virtuosa, e non saranno la forza o l'imposizione a guadagnarvi il suo favore! Ditelo, vi prego, al vostro principe nobile e di modi cortesi".
Mellodîn la fissò con stupore, incapace di replicare a tanta determinazione. Contro ogni ragionevolezza, ne fu conquistato.
"Glielo dirò", rispose, chinando il capo in segno di omaggio. "E mi accerterò che comprenda le vostre intenzioni. Avete la mia parola, Daimonmaster".
Lei si placò di colpo. Non si era aspettata quella risposta, né quel gesto. Il suo intuito le suggerì che c'era davvero qualcosa da scoprire su quel soldato. In più, le venne da pensare che la lealtà di quell'uomo sarebbe potuta diventare un'arma preziosa per i suoi propositi. Aveva rischiato molto parlandogli a quel modo, ma lui aveva reagito mostrandole rispetto. Ripagarlo con la stessa moneta poteva forse far breccia nel cuore del migliore amico e consigliere del futuro re.
"E voi avete la mia benedizione, capitano Mellodîn", rispose con voce addolcita.
L'uomo si rimise in sella e si portò il braccio al petto, un istante prima di spronare il cavallo per raggiungere in fretta la testa dell'esercito.
Le prime luci dell'alba sorpresero l'esercito nelle foreste di Laurëlindon. Attraversare quei boschi era un sollievo per gli uomini dopo la lunga permanenza nell'Ambit. Persino le ombre e i richiami degli animali notturni non facevano più paura.
Galanár pensava solo alla sua meta, mentre il ritmo regolare della cavalcatura lo stava facendo scivolare nel sogno. Nella sua mente vedeva già le sottili torri di Laurëgil scintillare sotto il sole, i cancelli splendenti, la strada che conduceva alla rocca costeggiata da alberi dorati. Ricordava chiaramente quella visione del passato e sapeva che, quando il vento soffiava gentile da est, i loro rami cominciavano a dondolare e tintinnare come campanelli, e le foglie cadevano leggere su coloro che procedevano verso la reggia, come una pioggia d'oro e d'alloro. Era un'emozione che aveva sempre portato nel cuore fin da bambino, quando per la prima e unica volta aveva percorso quella salita al fianco del palafreno della regina sua madre. Quello era il sogno che aveva nutrito di speranze per tutti quegli anni: tornare a Laurëgil da campione, percorrere quel sentiero di luce avvolto dalla gloria, osannato come un eroe, accolto come un re.
Quando il sole era ormai alto nel cielo e i prati brillavano di verde e di fiori, il generale ordinò all'esercito di accamparsi per il riposo e il ristoro del cibo, prima di riprendere il cammino al calar del sole. Un grido di approvazione seguì il suo comando e una volta ancora Galanár assaporò il piacere di udire il suo nome sposato all'esultanza dei suoi uomini. Si chiese per un istante se non sarebbe stato più ragionevole non affezionarsi in modo duraturo a quella sensazione, ma cancellò il turbamento con un gesto del capo.
Appena i suoi scudieri ebbero montato la tenda, vi entrò per riposare, esitando solo un istante sulla soglia.
"Andate a chiamare il capitano Mellodîn", disse, prima di scomparire nell'ombra.
Si separò da Ariendil con un gesto stanco, lasciò che il suo attendente gli slacciasse il mantello e tolse i guanti prima di abbandonarsi sulle stuoie, coprendo gli occhi con un braccio. Come avrebbe potuto riposare in quel momento, quando l'eccitazione era ancora così grande, quando anche con le palpebre chiuse vedeva splendere la luce di Laurëgil?
"Sono qui".
Quando udì quella voce, Galanár si sollevò su un gomito e per un istante fu accecato dal raggio di sole che guizzò tra la stoffa sollevata dall'amico. Distolse lo sguardo, stordito, poi tutto ripiombò nella penombra ed egli recuperò il suo inquieto equilibrio.
"Alla buon'ora", sorrise scherzoso. "Sei scomparso per tutto il viaggio stanotte. Problemi nelle retrovie?"
Mellodîn scosse il capo.
"No, nessun problema. La marcia è proseguita in maniera spedita. Gli uomini sono stanchi ma felici, e il fatto che tu li abbia condotti rapidamente entro i confini di Laurëlindon ha spento ogni insoddisfazione, se mai ce ne fosse stata qualcuna".
"Allora perché sei stato via?"
Mellodîn esitò. Una strana incertezza gli stringeva il cuore, come quando in battaglia fiutava l'arrivo imminente di un pericolo senza che esistesse alcuna ragione pratica per una simile intuizione. Non riusciva ad allontanare il pensiero del breve dialogo con quell'elfa. Di sicuro lei doveva avergli fatto qualche sortilegio, perché non avrebbe saputo trovare altra logica spiegazione a quel singolare stato d'animo. Scosse il capo e bestemmiò piano, per esorcizzare la stregoneria che lo imprigionava.
"Sono andato a cercare qualcuno. Qualcuno che dovevo ringraziare", rispose infine.
Dopo avere atteso con crescente curiosità, Galanár esplose in una sonora risata.
"Sei andato... da lei?"
Si alzò con un balzo e gli fu di fronte. Sembrava trovare la cosa estremamente divertente, al punto da non riuscire ad arginare la propria ilarità.
"Sei andato da quella donna? E cosa ne hai ottenuto in cambio del tuo grazie?"
Mellodîn, che fino a quel momento era rimasto impalato di fronte all'entrata, di colpo si mosse, si liberò del pettorale e allargò la camicia. Poi, vedendo una brocca di vino abbandonata su un rozzo tavolo, se ne servì, riempiendosi una coppa.
"Nulla, perché nulla intendevo ottenere".
"Fortuna ha voluto che non ne ottenessi di ritornare con la faccia graffiata, allora".
L'amico gli rivolse uno sguardo di rimprovero.
"Non ho fatto niente che avrebbe potuto meritarmi un simile trattamento, io!"
Il principe incassò la stoccata e perse il sorriso per un istante.
"Andiamo, Mellodîn!", esclamò. "Stavo solo scherzando".
Aveva preso a sua volta una coppa e stava passeggiando in tondo nel piccolo spazio della tenda. Parlava senza guardarlo negli occhi, muovendo la mano in quel gesto ammaliante che usava quando voleva distrarre il suo interlocutore, ma che Mellodîn trovava insopportabile quando l'interlocutore da incantare era lui.
"Galanár, ti sei sempre divertito secondo il tuo capriccio e nessuno è venuto a biasimarti, né tantomeno io ho mai giudicato i tuoi passatempi".
"E non ti sembra un po' tardi cominciare adesso?"
"Il mio non è un rimprovero, ma un consiglio: continua pure a divertirti a tuo piacimento, ma evita almeno di farlo con qualcuno che fa parte del tuo esercito".
"Il mio esercito è pieno di guaritori", sbuffò Galanár, annoiato.
"Perché vuoi rischiare di perderla?", lo incalzò l'altro.
"È solo un'elfa come tante!"
"Non è un'elfa come tante! Potrebbe essere un Daimonmaster, e non far finta di non averlo pensato anche tu!", sbottò infine Mellodîn, di fronte allo sguardo sorpreso del suo generale. "Altrimenti perché ti saresti rivolto a lei, quando mi hanno ferito?"
Il principe si zittì. Fin da quando erano ragazzi, Mellodîn era sempre stato la sua coscienza. Era, quella, una forma di dipendenza che Galanár non avrebbe mai ammesso, ma dalla quale non poteva nemmeno sottrarsi: dentro di sé sapeva di aver bisogno di una coscienza. Perché tutti i suoi splendidi piani e il suo rigoroso macchinare rischiavano di essere spazzati via in ogni istante dal lato turbolento e focoso del suo carattere, come se davvero due diversi tipi di sangue combattessero guerra continua dentro il suo cuore, minacciando l'uno il dominio dell'altro. L'animo di Mellodîn, al contrario, possedeva una solidità e una integrità che lui sconosceva e cui doveva spesso fare ricorso per non perdersi in se stesso. Chinò il capo in segno di assenso. Non rideva più.
"Un Daimonmaster", sussurrò, come se solo in quel momento avesse davvero preso in considerazione quella donna che aveva tenuta stretta tra le braccia. "In effetti, anche se è un guaritore, è pur sempre un elfo. Forse, più che a Kolridge, dovremmo chiedere ad Aegis".
"Già fatto. A parte dirmi che si è unita ai guaritori di recente, con l'ultimo gruppo di elfi mercenari provenienti da Laurëlindon, Aegis non sapeva altro".
Galanár sbuffò e scosse il capo.
"Aegis è un incantatore davvero capace, ma le sue doti di capitano lasciano un po' a desiderare".
Mellodîn strinse le spalle e lo fissò con un leggero sorriso.
"Sei tu che lo hai messo a capo degli incantatori del tuo esercito".
"E non me ne pento. Chi altri avrebbe meritato questo titolo?"
Il capitano gli lanciò uno sguardo allusivo.
"Il maestro Vargas?", suggerì.
Il principe si rabbuiò e il suo sguardo si fece gelido.
"Per guidare un esercito è sufficiente un solo generale", rispose con distacco. "E io ho già dovuto tollerare la sua arroganza per tutto il tempo in cui mi ha fatto da tutore".
"Io non ho grande esperienza di incantesimi", continuò Mellodîn, deciso a riprendere il discorso che aveva iniziato, "e non posso giurare su quello che ho visto. Tuttavia sono sicuro che abbia fatto qualcosa durante la battaglia, la notte scorsa. Qualcosa di molto strano".
"Un Daimonmaster", ripeté Galanár. "Se il tuo dubbio è fondato, immagino che a questo punto sia necessario parlare con lei e vedere se quest'Elfo Scuro ci può essere di alcuna o di molta utilità".
NOTA DELL'AUTORE
Il mirto è sempre stata una pianta dal significato positivo. Nell'antica Grecia, era la prediletta dai grandi guerrieri e gli stessi soldati, quando partivano per fondare una nuova colonia, se ne cingevano il capo come segno di buon augurio.
Per la mitologia greca e romana, era la pianta sacra ad Afrodite (o Venere), quindi divenne presto simbolo d'amore, erotismo e felicità coniugale, significato che in seguito divenne d'uso comune nelle allegorie e nelle poesie.
L'alloro, come ben sapete, è la pianta che rappresenta la gloria e con cui anticamente si cingeva la fronte dei vincitori nei giochi di Delfi. Da qui alcuni dei significati principali che ne sono derivati: vittoria, fama, trionfo e onore (era anche la pianta che indicava la sapienza e il potere della divinazione, ma io mi fermo qui al primo significato).
Il mirto e l'alloro hanno rappresentato per secoli la massima aspirazione di ogni eroe, la cui impresa sarebbe stata trionfalmente compiuta se fosse riuscito a ottenere, alla fine, sia la gloria che l'amore, senza che l'uno sacrificasse l'altro.
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