07. VENATIONIS TEMPŬS

La notte dopo la battaglia ci fu una grande festa nell'accampamento. Faceva freddo a quelle altitudini e le scorte erano quasi esaurite. Gli uomini erano stanchi, molti feriti e in parecchi avevano perso nell'assalto amici o congiunti, ma Galanár aveva amministrato con parsimonia le riserve di vino e, durante il giorno, aveva inviato dei giovani palafrenieri a caccia di selvaggina. Così al calar del sole, dopo aver dato sepoltura ai corpi dei caduti, medicato le lesioni e cercato il giusto riposo, i soldati accesero grandi fuochi senza più timore di essere scorti dai nemici, e le carni arrostite accompagnarono brindisi gioiosi e canzoni.

Galanár camminava tranquillo in mezzo ai suoi soldati. Nessun purosangue con cui calpestare i corpi dei nemici, nessuna brillante insegna del comando sul petto. Riparato dal freddo da un comune mantello di lana grezza, indossava dei semplici calzoni, una camicia e alti stivali di cuoio scuro. Solo Ariendil restava affibbiata alla cinta stretta al suo fianco, con la dragona che ondeggiava finalmente slacciata.

Aveva appena lasciato la tenda di Mellodîn, dove aveva trascorso gran parte del pomeriggio a narrare al capitano gli ultimi avvenimenti della battaglia. Si fermava volentieri a parlare con i suoi uomini. Scambiava con loro qualche parola e accettava di partecipare ai brindisi attorno ai fuochi. Man mano che la sua mente cominciava a essere sgombra dai pensieri di guerra, all'ebbrezza del sangue si sostituiva l'ebbrezza del vino, che rinnovava altri desideri. Dopo l'incidente occorso al suo amico, si era lanciato nella mischia con cieco furore. Non aveva più pensato a lei. In un solo istante, quel suo vagare tra i falò e i canti dei soldati cominciò ad assumere un significato nuovo: aveva il sapore aspro e invitante di una battuta di caccia.

Era senza dubbio un gioco allettante, ma dove trovarla? C'erano uomini e tende ovunque, non sarebbe stata una impresa facile. Tuttavia, soffermandosi su quel ricordo concitato, rammentò un dettaglio al quale, in un primo momento, non aveva prestato grande attenzione: quando era corsa al suo fianco, quella donna si era scoperta il capo. I capelli neri, lucidi e lisci, avevano la stessa natura setosa dei suoi. Ancor di più, le lunghe orecchie a punta erano segno inconfondibile della sua razza. Non era una donna, era un'elfa.

Il suo esercito era composto, salvo qualche eccezione, da soldati provenienti dai sei regni della Lega. Quando si era proposto come campione di Laurëlindon nella campagna contro i Nani, però, aveva accolto tutti gli elfi decisi a combattere con lui quella battaglia. All'inizio solo in pochi si erano uniti alle sue truppe, vista la diffidenza che da sempre quel popolo nutriva verso gli uomini. Con il proseguire della campagna, tuttavia, molti si erano presentati al principe offrendo i propri servigi. Erano soprattutto arcieri, maghi e guaritori, perché queste erano le arti in cui il popolo elfico eccelleva. Era comunque un buon indizio per il principe perché gli elfi, pur obbedendo agli ordini dei loro diversi capitani quando erano sul campo, non avevano familiarizzato con i propri pari nell'esercito e, durante le soste, continuavano a riunirsi in tende separate. Questa loro pratica restringeva notevolmente il suo terreno di caccia.

Silanna sgattaiolò leggera fuori dal padiglione. Voleva passare la notte lontana dagli alloggi, nella boscaglia che proteggeva il fianco dell'accampamento. Sapeva che la sua infrazione agli ordini dei superiori era stata notata. Era assai probabile che quella sera il capitano Kolridge, che comandava la Schiera dei Guaritori, l'avrebbe convocata per rispondere della sua insubordinazione. L'idea di dover fornire delle spiegazioni a quell'umano la tediava enormemente. Nessuno al mondo avrebbe potuto comprendere i motivi del suo gesto. Lei, di ragioni, ne aveva tante, anche se erano tutte inconfessabili e precedevano di gran lunga il momento in cui era giunta nell'Ambit per mettere le proprie arti al servizio del principe Galanár.

Udì un rumore alla sua destra e si acquattò rapida dietro una tenda, lontana dalle luci che illuminavano lo spiazzo. Due arcieri le sfilarono davanti, scherzando allegramente sul numero di nemici infilzati dai loro dardi. Non la notarono e si allontanarono. Silanna si alzò dal suo nascondiglio e si mosse cauta nell'ombra, accarezzando la stoffa pesante del tendone. Doveva solo attraversare gli ultimi padiglioni, quindi il bosco si sarebbe aperto per farle da culla in quella notte.

Proprio quando pensava di essere riuscita nel suo intento, una sagoma d'uomo si disegnò in mezzo al suo cammino. L'elfa ebbe un sobbalzo e trattenne il fiato, mentre la figura le andava incontro e la fermava, afferrandola per un braccio.

"Lasciatemi!", esclamò con voce selvaggia, senza più timore di farsi sentire, dal momento che la fuga sembrava ormai sfumata.

L'altro non l'ascoltò. Vanificò ogni suo tentativo di divincolarsi e, con la mano libera, le scoprì il capo. I lunghi capelli neri le si sciolsero sulle spalle in un brillio di riflessi bluastri.

"Dove andate così di fretta, mia signora?", le domandò con aria impertinente.

"Non sono affari vostri", rispose lei con rabbia.

Con un ruggito, strappò il braccio dalla stretta e, con un gesto altrettanto violento, tirò via il mantello che lo nascondeva. Gli occhi azzurri di Galanár la fissarono calmi e scintillanti nel buio della notte. Silanna ebbe un moto di stupore e subito si pentì della propria reazione. Tuttavia non c'era offesa negli occhi del principe: sembrava soltanto molto divertito.

Piena di imbarazzo, abbassò lo sguardo e sussurrò le sue scuse accennando un lieve inchino. Galanár rise e lei lo spiò di sottecchi. Anche nella penombra quel viso, quel sorriso le sembrarono molto belli.

"Non vi scusate, sono stato rude. Tuttavia desidero davvero sapere dove stavate andando così di fretta".

"Mi recavo nel padiglione dei feriti, mio signore", mentì lei senza un fremito. "Volevo chiedere notizie del capitano Mellodîn".

"Allora non occorre che facciate altra strada. Il capitano sta bene, grazie al vostro rapido intervento".

Silanna non resistette più nel simulare oltre quella femminea modestia che non le si addiceva affatto. Sollevò il capo e lo guardò dritto negli occhi.

"Allora, mio signore, è meglio che io mi ritiri".

"Attendete ancora un momento... ero venuto per ringraziarvi".

Lei arrossì di piacere a quelle parole, ma cercò di nasconderlo e continuò il gioco.

"Ringraziarmi? E di cosa?"

"Di tutte le cure che avete prodigato così generosamente su di me durante la lotta".

L'elfa lo sfidò con un'occhiata maliziosa.

"Mio signore, non riconoscetemi eccessive virtù. Il vostro esercito è pieno di validi guaritori, come potete essere così sicuro che il merito sia mio?"

"Non dovreste mettere mai in dubbio la parola del vostro generale", la rimproverò lui fingendosi severo, mentre il suo volto si distendeva in un'espressione gentile.

Mise una mano sull'elsa della spada e si chinò piano verso di lei, avvicinandosi al suo viso con un movimento seducente.

"In questi anni sono stato curato da molti guaritori in battaglia, ma nessuno mi ha mai toccato come avete fatto voi. Solo una donna avrebbe potuto farlo a quel modo. Mi sbaglio, forse?"

"In mezzo alla mischia, non credevo proprio che mi avreste notata".

Lui si lasciò sfuggire una smorfia indecifrabile.

"Il mio cavallo", replicò con decisione, "non segue mai accidentalmente una strada. Egli va esattamente dove io gli ordino di andare".

Quella frase un po' la lasciò sbigottita e un po' la contrariò: aveva voluto credere che fosse stato il fato a farlo passare al suo fianco. Era un'idea che conferiva almeno un pizzico di romanticismo alla faccenda.

"D'altra parte", continuò Galanár, con tono che si era fatto di colpo rigoroso, "era impossibile non notare la vostra presenza: vi siete allontanata dallo schieramento cui eravate stata assegnata, vi siete esposta al pericolo stando troppo vicina ai cavalieri e avete lanciato incantesimi senza il mio esplicito ordine. Per farla breve, avreste potuto causare un disastro con la vostra insubordinazione. Se non foste una donna, vi avrei punito per tanta audacia".

Silanna lo squadrò con disappunto. Per quanto lo trovasse affascinante, la sua reprimenda la stava infastidendo. Mentre ancora taceva, indecisa su come rispondere, lui le prese la mano e l'attirò verso la luce che si insinuava tra due tende per guardarla meglio. In quel momento l'elfa si sentì attraversare da una miriade di sentimenti contrastanti: aveva desiderato quelle attenzioni da parte di Galanár, le aveva praticamente cercate, ma c'era qualcosa, nella sfacciata sicurezza di lui, che la rendeva insofferente e non riuscì a trattenersi dal replicare con voce aspra.

"Allora punitemi, se questa è la cosa da farsi".

Il principe, sulle prime, parve ignorare il tono piccato delle sue parole. Pensò che fossero state dette in tono di sfida a bella posta, per provocarlo, e ne rise apertamente. Guardò quegli occhi dorati, studiò il suo viso e la trovò molto desiderabile. Di colpo gli sembrò di risentire quel tocco magico che gli attraversava la schiena. Quella sensazione, così lontana dalla feroce urgenza della battaglia, risvegliò i suoi sensi. Tirò con forza la ragazza verso di sé, la bloccò con un braccio cingendole la vita e la obbligò ad aderire al suo corpo.

"Come desiderate", le sussurrò all'orecchio, con la voce scurita dal desiderio. "Vi punirò stanotte stessa, nella mia tenda".

Silanna rabbrividì a quella stretta. Avvertì il calore di quell'uomo contro il suo petto, la sua eccitazione attraverso le sue vesti, l'odore dolciastro del vino. Il cuore cominciò a batterle furioso per la paura. Avrebbe voluto sottrarsi a quella vicinanza forzata e scappare via, ma poteva fare resistenza a lui? Istintivamente, il suo corpo decise per lei e i muscoli le si tesero nel tentativo di respingerlo.

"Non desidero trattamenti di favore, generale. Se è una punizione che merito, punitemi come qualsiasi altro dei vostri soldati".

Galanár allentò lievemente la presa, ma senza rinunciare al contatto e senza scomporsi. Dopotutto, per un soldato quale lui era, l'occupazione combattuta di un territorio valeva ben più di una resa senz'armi. La guardò con un sorriso di sfida.

"Preferite sfilare con indosso la sola camicia tra un drappello di uomini schierati e ricevere una frustata da ognuno di loro? Sapete bene che questa è la punizione per chi disobbedisce agli ordini".

Lei lo fissò con occhi di brace.

"Lo preferisco", ribatté, tentando ancora una volta di divincolarsi.

"Sono io che non lo preferisco", esclamò lui, con quel tono di imperioso comando che era così abituato a utilizzare. "Non voglio vedere nemmeno un segno sulla vostra schiena".

Insinuò la mano sotto la stoffa del mantello, alla ricerca di un contatto più intimo. Silanna cominciò a respirare affannosamente, rimproverandosi di avergli offerto quella possibilità. Non era stata lei a cercare i suoi occhi? Non era ciò che aveva desiderato? E pensava davvero che il suo comportamento non avrebbe avuto alcuna spiacevole conseguenza? Eppure, in quel momento, le mani di Galanár che si muovevano da padrone sul suo corpo le sembrarono solo un'infinita e insopportabile umiliazione. Provare ad allontanarlo con la forza sarebbe stato vano, ma non poteva nemmeno scagliargli contro la sua magia. Lui era un uomo, era un principe ed era il suo generale: tre ragioni più che sufficienti per farlo sentire in diritto di prenderla a proprio piacimento. Quel pensiero la fece andare ancora più in collera, e la rabbia contro se stessa e il suo stato di donna la spinse a lottare selvaggiamente per liberarsi.

Di fronte a quella reazione, Galanár comprese che il tempo dei giochi era finito e cominciò a sentirsi tediato da quella resistenza. Aveva combattuto, aveva vinto la sua battaglia e quella notte voleva il suo premio. Il troppo vino gli stava dando alla testa e lui stava perdendo il controllo. Pensò di possederla subito, senza troppe storie, ma quella gatta selvatica graffiava e scalciava, e lui non desiderava affatto che il giorno seguente i suoi uomini lo vedessero con la faccia rigata. Si rassegnò a mollare la preda, infastidito.

"Siete parecchio strana, dovete ammetterlo!", esclamò pieno di astio. "Con tutte le attenzioni che mi avete riservato, credevo almeno di piacervi".

Silanna tirò un sospiro di sollievo nel momento in cui si sentì libera dalla sua stretta d'acciaio. Indietreggiò e si massaggiò il polso, mentre gli restituiva uno sguardo sprezzante.

"Siete in errore, signore", dichiarò, cercando di infondere alle sue parole quanta più crudeltà le fosse possibile. "Avrei fatto la stessa cosa per chiunque".

Quel tono tanto ostile lo sorprese: quella donna lo aveva respinto e osava perfino mostrare il suo disappunto così apertamente? Era riuscita a essere scostante e indisponente al punto di fargli passare ogni desiderio.

"Davvero? Lo avreste fatto per chiunque?", mormorò accigliato.

Lei si ritrasse ancora di un passo

"Per qualsiasi generale e in qualsiasi battaglia".

"Capisco", commentò Galanár gelido dopo qualche istante di terribile silenzio. "Tornate nella vostra tenda, non andate in giro di notte. E soprattutto, non scopritevi mai il capo. Non voglio che qualcuno dei miei uomini, guardandovi, possa pensare che siate davvero amabile come apparite".

Silanna si morse piano le labbra per trattenere una risposta scortese.

"E con questo, vi auguro buona notte, mia signora...?".

"Silanna", completò con un filo di voce.

"Silanna", ripeté lui, con un'inflessione di pesante ironia.

Non le rivolse nemmeno uno sguardo. Raccolse il mantello da terra e se ne andò, lasciandola nell'ombra delusa e insoddisfatta, a riflettere su quanto accaduto senza riuscire a farsene una ragione: non era così che aveva progettato quell'incontro, non era così che doveva andare. Aveva fatto, suo malgrado, un passo falso.

NOTA DELL'AUTORE

Venationis tempŭs è la stagione della caccia.

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