04. AUDACIA EMENDO FORTUNAM
Con una marcia forzata di sei giorni, Galanár riuscì a ricongiungersi alla sua avanguardia. Una volta radunati gli uomini al confine di Calemar, il principe li divise nuovamente. Alla testa del grosso del suo esercito penetrò nell'Ambit a nord, sferrando feroci attacchi. Il secondo contingente, invece, discese a Turfalas, aggredendo i Troll da sud e chiudendoli in una morsa. Se anche qualche tribù fosse sfuggita alla stretta di quella tenaglia, riparando nel regno di Laurëlindon, non avrebbe di certo ricevuto una calorosa accoglienza da parte degli avamposti elfici che pattugliavano i confini del regno.
Da sempre nomadi e reietti, i Troll erano temuti e allontanati dagli abitanti dei territori limitrofi. Gli Elfi li consideravano una razza inferiore. Per molto tempo li avevano utilizzati come schiavi nella costruzione delle complesse architetture delle loro città, ma poi li avevano rilasciati, convinti che fossero troppo poco intelligenti persino per eseguire quei lavori. Il loro aspetto non era stato d'aiuto nemmeno con le genti che popolavano il fronte opposto delle montagne. Il viso allungato, la pelle scura, le folte capigliature intrecciate con ossa, l'andatura sgraziata e dinoccolata li facevano apparire come una versione degradata degli Uomini. Tuttavia la tradizione di quelle tribù era antica e si perdeva nella leggenda. Possedevano una loro forma del sapere, che si tramandava nei canti degli sciamani, negli scritti incomprensibili degli stregoni, nei balli rituali e sanguinari dei guerrieri.
Galanár, però, non sembrava nutrire alcun interesse nei confronti di queste informazioni. Più la sua campagna militare proseguiva, più diveniva chiaro quale fosse il suo vero intento: non intendeva più respingere le tribù dei Troll per difendere i confini della Lega. Desiderava annientarli, cancellando definitivamente una minaccia che troppo a lungo si era rigenerata nel tempo. Una volta riuscito nel suo intento, l'esercito si sarebbe ritrovato, riunito, al di là delle aspre montagne dell'Ambit, direttamente nelle terre degli Elfi.
A quel punto avrebbero intrapreso il cammino verso il valico di nord-est, in direzione del regno di Foroddir, retto a quel tempo dal fratello minore di sua madre, Anárion. Era lì che infuriavano gli scontri, lungo i confini impervi di Gonthalion, ma per quella parte del piano avrebbero avuto tempo. In quel momento, l'unica preoccupazione del generale erano le manovre da intraprendere nell'immediato contro i Troll: serrare i ranghi, attaccare senza sosta al nord e infine resistere. Resistere fino al momento in cui fosse giunto il contingente dal sud.
Galanár non aveva mai pensato che quella campagna sarebbe stata breve. Conosceva il suo avversario, perché lo aveva già affrontato e sconfitto, e sapeva che la prima volta avevano impiegato due anni per raggiungere il loro obiettivo. Ciò che più temeva non erano i nomadi guerrieri, né le loro barbare strategie di guerra. Il suo vero nemico era la montagna.
I Troll controllavano ogni valico e ogni insenatura. Qualsiasi anfratto o canalone poteva trasformarsi in una pericolosa arma offensiva e in un ostacolo alla sua gloriosa cavalcata.
Le preoccupazioni di Galanár si rivelarono fondate: dopo quasi un anno di avanzata verso l'interno, nonostante il riavvicinamento dei due bracci dell'esercito, la resistenza nemica restava asserragliata nel cuore dell'Ambit, dentro le pieghe della montagna, dove il braccio di Galanár non riusciva a stanarla.
Gli ultimi agguati si erano rivelati infruttuosi e l'esercito era accampato da settimane nel luogo più agevole che erano stati in grado di rintracciare durante le lunghe perlustrazioni: una landa ampia, al termine della quale si stendeva una sparuta boscaglia. Non c'erano corsi d'acqua in quella zona brulla e bruciata dal sole, ma la vegetazione forniva almeno la magra consolazione di qualche raro pezzo di selvaggina. Non somigliava per nulla alle verdi distese di Calemar che si erano lasciati alle spalle da mesi, né alle floride foreste che li attendevano a Laurëlindon. Il sottobosco era inesistente e stoppie giallastre occupavano lo spazio tra i radi alberi che si ostinavano a resistere a quella natura inospitale. Gli uomini si aggiravano stanchi per l'accampamento, annoiati dal giornaliero ripetersi delle operazioni di manutenzione delle armi e di cura dei cavalli. Ogni gesto era appesantito dall'inesorabile sensazione che fosse vano.
Galanár si tormentava nella sua tenda, mentre la sua volontà illanguidiva assieme alla luce grigiastra e amara che spadroneggiava in quella pianura. La totale assenza di azione era l'unica malattia di cui si fosse mai ammalato il generale. Detestava l'immobilità, ancor più quando era generata dalla sua impossibilità di trovare una soluzione, e il pensiero della prossima mossa da fare sembrava il suo unico tarlo. Di giorno, di notte, si arrovellava intorno a quella questione, e malediceva il sole, la luna, la stirpe malaugurata dei Troll raminghi e la natura ostile che gli impediva di scovarli.
D'un tratto la quiete dell'alba e il suo ragionare furono disturbati da uno scalpiccio disordinato, seguito da un nervoso scambio di battute. Riconobbe la voce alterata di uno dei suoi scudieri, un breve alterco tra due o tre uomini, al quale pose immediatamente fine presentandosi sulla soglia con uno sguardo contrariato. Tutti tacquero di colpo e indietreggiarono vedendolo apparire, ma uno degli esploratori, ancora coperto di polvere, si fece avanti e si inginocchiò di fronte a lui.
"Generale, abbiamo avvistato il campo!", esclamò.
A quelle parole, il viso di Galanár si illuminò.
"Toglietegli i mantelli e date loro acqua e pane bianco. Poi correte ad avvisare il capitano Mellodîn e il maestro Aegis, che ci raggiungano qui immediatamente", ordinò allo scudiero.
Il comando dei balestrieri e degli arcieri era interamente in mano a Mellodîn, mentre Aegis era, a quel tempo, l'elfo a capo della schiera di incantatori al seguito dell'esercito. Quando i due entrarono nella tenda del generale, lo trovarono già chino sulle carte, attorniato dagli esploratori che gli indicavano il luogo in cui avevano scorto un grosso accampamento di guerrieri Troll, e i numeri, e le distanze.
Gli rivolsero un rispettoso saluto, ma il principe, intento a studiare la mappa, non li guardò nemmeno. Fece solo uno strano segno sul foglio, passando il dito attraverso una stretta gola che, scavata nella roccia millenaria, conduceva per un sentiero irto e aspro proprio alle spalle dell'accampamento nemico.
"Qui!", esclamò, e sollevò lo sguardo su Mellodîn, interrogando la sua esperienza.
Il capitano guardò il percorso indicato con attenzione.
"Potrebbe funzionare", disse. "Ma i Troll hanno arcieri nascosti ovunque. Quella gola sarà di certo controllata. Se dovessero avvistarci mentre ancora attraversiamo il canalone e sbarrarci la strada, sarebbe un massacro".
"Potremmo costruire uno scudo di invisibilità che ci nasconda agli occhi del nemico", intervenne Aegis.
"Sì, potremmo", assentì il capitano. "Ma nondimeno la manovra dovrà essere più che rapida. Lo scudo non può essere rinnovato per molto tempo e l'esercito è grande. Temo che l'incantesimo cadrà prima che tutti siano passati oltre il valico, e questo metterebbe in pericolo l'intera operazione".
Aegis annuì, ma Galanár fece una risata e li guardò entrambi con un guizzo furtivo nelle iridi azzurre, quasi li stesse sfidando a indovinare i suoi veri piani.
"Lo scudo funzionerà, miei signori, e non dovremo temere di essere scorti prima di aver passato la strettoia, perché noi non agiremo nel modo che state immaginando".
Mellodîn sollevò il sopracciglio con sospetto.
"Davvero? Pensavo che questo tentativo fosse l'unica opportunità rimastaci".
"L'unica opportunità rimastaci", ripeté Galanár con la voce che già gli risplendeva al pensiero della battaglia, "è tentare un attacco notturno".
L'incantatore sgranò gli occhi, ma non osò esternare il suo stupore in altro modo. Mellodîn, invece, lo fissò perplesso.
"Un attacco notturno?"
"Se avremo successo, sbaraglieremo definitivamente l'estrema resistenza dei Troll!", esclamò il principe, sicuro di sé. "Non possiamo continuare a pianificare una battaglia che non ci concederanno mai. I loro arcieri hanno decimato soldati e cavalli con le loro dannate frecce avvelenate. Ci hanno tolto più uomini così che nel combattimento frontale".
Mellodîn acconsentì con un gesto del capo.
"Quindi cosa hai deciso di fare?"
Galanár lesse un'espressione di intendimento che si faceva strada sul viso del suo capitano e continuò esultante.
"Voglio che prendiate i vostri migliori arcieri e gli incantatori più dotati. Una sola parte dell'esercito si muoverà, un corpo scelto di uomini che non dovrà sbagliare nulla. Dovremo essere veloci e silenziosi, non possiamo rischiare di essere avvistati prima di essere giunti al campo nemico. Aegis, i tuoi incantatori costruiranno uno scudo di invisibilità sufficiente affinché con questi uomini si attraversi la gola indisturbati. C'è un leggero avvallamento alla fine, che declina fino all'accampamento".
Mostrò loro un punto sulla carta con un gesto della mano.
"Proprio qui, secondo quello che mi hanno riferito questi uomini. Mellodîn, tu porterai avanti i tuoi arcieri e al mio ordine attaccherete. Voglio che i Troll si sveglino sotto una pioggia di frecce. Allora scenderò con la cavalleria".
Si interruppe un istante, come se di colpo un pensiero importante avesse preso stanza nella sua mente. Si voltò a fissare l'incantatore, tradendo per la prima volta una punta di preoccupazione.
"A che punto è la luna, Aegis?".
"È al terzo giorno della sua massima estensione, mio signore".
Galanár scosse il capo e imprecò.
"Dannazione, questa non ci voleva! Non posso aspettare due settimane, dobbiamo farlo stanotte o perderemo il vantaggio della sorpresa".
Mellodîn si passò una mano sugli occhi con un gesto nervoso e preoccupato.
"La notte sarà troppo chiara", disse piano.
Il principe si obbligò a non ascoltarlo. Avrebbe trovato il modo, a qualunque costo.
"Maestro Aegis, possiamo oscurare la luna?", domandò con la noncuranza di chi non rinuncia mai ai propri progetti.
L'elfo ebbe un moto di profondo stupore. Si guardò un attimo intorno, smarrito e indeciso su cosa rispondere, mentre il principe non allentava nemmeno per un istante la pressione dei suoi occhi, puntati su di lui.
"Ma... ma...", balbettò infine imbarazzato. "Oscurare la luna? Ci vuole un Daimonmaster, mio signore".
A quelle parole, Galanár si alzò di scatto, mandando per aria le mappe che aveva disteso al suo fianco.
"Non abbiamo un Daimonmaster? Non abbiamo un Daimonmaster capace di questo incantesimo nel mio esercito? E voi che ci state a fare qui?"
L'altro si schermì dalla sua ira quanto gli era possibile. Galanár era tanto amato quanto temuto dai suoi capitani, perché alla sua magnanimità facevano da contrappeso le sue proverbiali esplosioni di collera.
"Ne occorre uno che possegga l'Arcano dell'Aria, principe. Il maestro Quenthar è rimasto a corte, lo sapete bene".
Il principe condensò la propria ira in una smorfia.
"Me ne infischio della luna e della vostra incapacità, Aegis!", tagliò corto, lanciandogli uno sguardo di fuoco. "Attaccheremo stanotte. La segretezza e la sorpresa sono gli elementi essenziali. Voi sfinite pure i vostri incantatori e fate il possibile, io attaccherò quei dannati Troll con o senza la vostra magia".
Per qualche minuto nessuno osò replicare. Il maestro gli rivolse un cenno di obbedienza con il capo, ma Mellodîn sembrava ancora turbato da un pensiero inespresso.
"Quali comandi per il resto delle truppe, Galanár?", chiese infine.
"Attenderanno, pronti e in armi, all'inizio della gola. Se l'attacco andrà a buon fine e la mia sorpresa funzionerà, suonerò il corno ed essi si muoveranno verso l'accampamento per finire il lavoro".
"Quali ordini", proseguì il capitano con estrema calma, "se non dovesse arrivare il suono del corno?".
Galanár ebbe un'istintiva reazione di stupore, subito repressa: era giusto che Mellodîn impartisse un ordine persino in quella eventualità. Era giusto almeno che egli la considerasse.
"In quel caso l'ordine è di non avanzare. Dovranno restare in attesa fino all'alba, quindi tornare indietro. Se non sarà giunto alcun segnale, vorrà dire a quel punto che saremo tutti morti".
Accompagnò quelle ultime parole con un sorriso, con l'espressione serena che era solito mostrare ai suoi uomini, mentre si accingeva una volta ancora a forzare gli eventi a proprio piacimento.
NOTA DELL'AUTORE
Audacia emendo fortunam è una piccola variazione personale che ho fatto alla frase Arte emendo fortunam, ovvero Rimediare con l'arte all'avversa fortuna.
Ars, in latino, indica comunque l'abilità, il talento e l'astuzia, ma l'audacia mi sembrava più adatta per il nostro Galanár 😉
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