03. AVE ATQUE VALE
A pochi giorni da quella terribile discussione, Mellodîn stentava ancora a rassegnarsi al pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere. Qualunque sua perplessità fu comunque messa da parte nel momento in cui le idee del principe cominciarono a prendere forma concreta, esattamente come lui le aveva prefigurate.
I messaggeri di Calemar giunsero alla rocca di Arthalion carichi di ferali notizie: i confini della Lega erano sotto attacco, i Troll erano scesi di nuovo in guerra per conquistare quei territori. Galanár inviò un forte contingente a respingere le tribù sulle montagne e, nel giro di qualche settimana, i capitani spedirono dispacci che annunciavano il successo al proprio comandante.
Quando i primi prigionieri furono condotti nella capitale, tra le mani dei capi tribù Troll furono trovate delle missive che provavano l'esistenza di un accordo con i Nani dell'Est, che promettevano armi e supporto ai nuovi alleati. La Lega si sollevò unanime, manifestando i timori di tutti gli Uomini, e Galanár, dall'alto della rocca di Arthalion, non perse tempo a scagliare parole di fuoco sulla coalizione e sugli effetti nefasti che essa avrebbe potuto generare.
Mandò quindi i propri ambasciatori alla corte di Laurëgil, la capitale dei regni elfici, con una lettera dove riportava a re Arantar quanto scoperto su quella nuova intesa in grado di minacciare sia Uomini che Elfi. Nella stessa missiva chiedeva libero accesso per le sue truppe nelle terre silvane, al fine di sconfiggere i Troll delle montagne e successivamente i loro alleati. Metteva infine i propri servigi a disposizione del sovrano e dei suoi due figli, i suoi zii che governavano i due regni vassalli di Foroddir ed Helegdir, offrendosi come campione nella lotta contro i Nani.
La pergamena recava in calce, come da sua abitudine, la duplice firma del principe scritta nella lingua degli Uomini e degli Elfi. Forse fu proprio a causa di quel dettaglio che la risposta si fece attendere più di quanto fosse ragionevole.
Nel frattempo, Maldor promosse il figlio al rango di generale, dal momento che avrebbe guidato in battaglia contingenti provenienti da tutti i territori della Lega, che avevano aderito alla chiamata alle armi in maniera unanime. Quell'ultimo atto ufficiale cancellò qualsiasi residua illusione in Mellodîn, ammesso che gliene fosse rimasta qualcuna: la mancata replica di Laurëlindon non avrebbe posto un freno a Galanár, lo avrebbe solo obbligato a rivedere parte del suo piano. Al capitano non restava che un ultimo compito da assolvere. Il più pesante per il suo cuore, quello che aveva cercato di rinviare fino all'ultimo istante: congedarsi dai gemelli.
I due giovani principi di Arthalion erano nati dodici anni dopo Galanár ma, al contrario della fama quasi mitologica che circondava la venuta al mondo del primogenito, di quel secondo evento nessuno parlava volentieri. Solo nei villaggi gli anziani narravano ancora la storia di quella notte d'inverno perché non andasse perduta, ma a bassa voce, per timore di essere uditi. Lo stesso Mellodîn non conservava che un ricordo confuso dell'avvenimento, composto per la maggior parte da dicerie più che da fatti reali. Si mormorava, nei corridoi del palazzo, che fosse avvenuto qualcosa di infausto ma il capitano, da uomo pratico qual era, era più propenso a definirlo incomprensibile.
Quale fosse la verità, era stata dimenticata. Erano ormai trascorsi sedici anni e nessuno ne faceva più parola a corte, sebbene la differenza tra i due principi sarebbe saltata agli occhi di chiunque: uno aveva chiaramente l'aspetto di un Elfo, l'altro di un Uomo.
La regina aveva chiamato il primo Edheldûr, Elfo Oscuro, perché nonostante avesse gli occhi trasparenti come l'acqua, simili a quelli dell'Antica razza, i suoi capelli erano inspiegabilmente rossi come il fuoco. L'altro, invece, fu chiamato Aidanhîn, Figlio degli Uomini, perché gli fosse sempre ricordato a quale stirpe doveva le sue virtù.
Con il tempo, tutti si erano abituati a quella stranezza al punto da ignorarla e i due principi erano cresciuti come qualsiasi altro figlio di re.
Mellodîn, in verità, preso dagli impegni militari, non aveva mai prestato attenzione a quei due bambini, tanto più che perfino il fratello maggiore sembrava ignorarli. Era stato al ritorno dalla Seconda Campagna contro i Troll, nella pace ristabilita del regno, che il capitano si era ritrovato davanti a uno spettacolo che non avrebbe più scordato: in piedi, al centro della stanza del trono, Aidanhîn faceva roteare attorno a sé due spade con maestria ed eleganza stupefacenti, suscitando lo stupore dei presenti. Sembrava che non vedesse e non udisse nulla. Esistevano solo le sue armi, che si muovevano come un prolungamento naturale del suo essere. A occhi chiusi, si lasciava guidare dal sibilo dell'aria, mentre le braccia disegnavano arabeschi e il corpo si muoveva sicuro, come seguendo i passi di una danza.
Ancora preda dello stupore, il capitano aveva chiesto al re l'onore di poter addestrare il giovane assieme ai suoi allievi. Maldor aveva acconsentito, a patto che quello fosse anche il desiderio del figlio. Interpellato, quel ragazzino di dodici anni appena non aveva avuto nemmeno un'esitazione. Si era fatto avanti, aveva poggiato delicatamente le lame sul pavimento di pietra e aveva risposto che avere un simile maestro era il suo più ardente desiderio. Tuttavia, il principino pose una condizione: non si sarebbe separato da Edhel, quindi Mellodîn avrebbe dovuto addestrare entrambi. E lui, suo malgrado, accettò.
Certo, non era affatto convinto della bontà di quella decisione. Nella sua posizione, solo un pazzo avrebbe rinunciato all'occasione di forgiare un talento come quello di Aidan, ma Edhel? Un elfo che combatteva in mezzo agli uomini avrebbe già destato meraviglia e non poca diffidenza. Un elfo con il carattere introverso e scontroso del giovane principe ancor più, se era possibile.
Con il passare del tempo e con sua enorme sorpresa aveva dovuto in parte ricredersi, perché il ragazzo gli aveva restituito una tale, cieca obbedienza da superare talvolta le sue stesse aspettative. Per quanto provasse un'istintiva ammirazione di fronte alla naturale abilità di Aidan, che era il suo allievo migliore, Mellodîn scoprì di amare Edhel più degli altri, perché sopperiva con lo studio, la concentrazione e l'impegno alla sua mancata inclinazione per il combattimento.
Tuttavia Edhel restava un bel problema, era impossibile non notarlo. La strana chioma rossa brillava nell'agitazione dell'esercizio di inquietanti bagliori di fiamma e la corporatura era troppo esile per resistere a lungo a un assalto sferrato con violenza. Era abile nello schivare i colpi e furbo nel prevedere la spada avversaria, ma incapace di opporsi alla brutale forza fisica.
In cuor suo, Mellodîn aveva sempre saputo che, presto o tardi, avrebbe dovuto trovare una soluzione per il futuro del giovane e alla fine l'aveva trovata. Forse sarebbe stato più corretto definirla un compromesso, ma scegliere un termine adeguato non aveva alcuna importanza dal momento che di quella faccenda non poteva fare parola con nessuno, nemmeno con Galanár. Era un segreto che lui ed Edhel avevano condiviso in quegli ultimi anni solo con un'altra persona. Perché la richiesta di un principe, anche se si trattava solo un ragazzino, era insindacabile per la lealtà del capitano.
La risposta del re degli Elfi giunse poco prima dell'arrivo della primavera, quando ancora gli alberi della jacaranda non avevano riempito di macchie pervinca le rive del lago di Arthalion. Il sole iniziava a tramontare più lentamente e quel pomeriggio il cielo era carico di luce dorata. Il ragazzo fissò il disco di fuoco e si accorse che non era stato coperto dai merli e dalle torri della rocca: aveva circa mezz'ora prima che scendesse il buio.
Si scostò un ciuffo di capelli biondi dal viso, quindi chiuse gli occhi azzurri e prese un profondo respiro. Si concentrò per annullare ogni suono della natura, ogni esistenza, ogni percezione eccetto quella del suo corpo, del suo braccio e del suo obiettivo, poi sollevò l'arco e scagliò la sua freccia. Il dardo sibilò disegnando una parabola perfetta, ma si piantò poco distante dal centro del bersaglio. Il ragazzo lo analizzò con un pizzico di disappunto, quindi prese un'altra freccia dalla faretra e la fece dondolare tra le dita, mentre cercava a occhi chiusi una maggiore concentrazione. Armò nuovamente l'arco ma non riuscì a effettuare il lancio, perché una stretta inaspettata trattenne il suo gomito destro, mentre un'altra mano gli bloccava l'avambraccio sinistro nel punto in cui era allacciata la protezione.
"Tieni il braccio più fermo prima di rilasciare", suggerì una voce profonda e familiare, vicinissima al suo orecchio. "E avvicina di più la cocca al tuo occhio".
"Mellodîn!", esclamò il ragazzo, abbassando l'arco e disarmandolo all'istante.
Udendo quel nome, un altro giovane, intento a provare un affondo con la spada pochi metri più in là, interruppe il suo gesto elegante.
"Maestro", lo salutò con rispetto, sfilandosi dal capo l'elmo di cuoio che lo proteggeva.
In quel gesto, un lungo codino di capelli rossi e lisci gli ricadde pesantemente sulle spalle.
"E tu, Edhel", proseguì il capitano con voce severa, "sprechi ancora troppa energia in quell'affondo. Ti stancherai subito, a quel modo".
L'elfo abbandonò l'arma sull'erba e li raggiunse. Il capitano osservò entrambi con soddisfazione. Erano cresciuti molto in quei quattro anni di addestramento e non avevano più l'aspetto di due ragazzini. Aidan, come un giovane frassino, era resistente ma flessuoso nei movimenti. Riusciva tanto a primeggiare nel corpo a corpo, quanto a celarsi e a saettare i suoi dardi senza essere scorto. Edhel sembrava un cerbiatto, veloce e agile nell'evitare gli ostacoli e nello schivare i colpi. Presto sarebbero stati dei giovani guerrieri pronti alla battaglia. Non poteva che esserne fiero.
"Che succede, maestro?", domandò Aidan, con il cuore in gola per quella domanda di cui sospettava e temeva la risposta.
"È giunto il momento di salutarci. Stanotte l'esercito partirà per raggiungere Calemar".
Aidan chinò il capo e sospirò.
"Così presto?"
Lo sguardo del suo gemello, al contrario, si accese di fiamma.
"Perché non ci avete avvertiti?", chiese con impeto. "Non ci portate con voi?"
Mellodîn poggiò la mano sopra la spalla del ragazzo e lo fissò con dispiacere.
"Non avere così tanta fretta di conoscere il sangue e la morte, Edhel. È una conoscenza, quella, dalla quale non si può più tornare indietro".
L'elfo trattenne il fiato: quelle parole gli avevano trasmesso uno strano brivido.
"Dunque non vi vedremo per lungo tempo", concluse con voce turbata.
Aidan, nel frattempo, sembrava essersi riscosso dallo stupore che lo aveva zittito in un primo momento.
"Che ne sarà di noi?"
"Tornerete a soggiornare stabilmente nelle vostre stanze. Vostra madre avrà bisogno della vostra presenza".
Edhel gettò uno sguardo sprezzante alla sagoma del palazzo.
"Certo, adesso che Galanár riparte...", mormorò.
Mellodîn lo zittì con un'occhiata di disapprovazione, quindi tornò a rivolgersi al suo gemello.
"Aidan, domani mattina andrai al Corpo degli arcieri. Gundech è il nuovo capitano degli arcieri e dei balestrieri di corte. Presentati a lui e mettiti ai suoi ordini. Desidero che tu segua i suoi insegnamenti con costanza e dedizione, perché questa è la tua strada".
Il giovane arciere si portò il pugno al petto e chinò il capo in segno di assenso. Nascose, in quel saluto ossequioso, gli occhi che si inumidivano di lacrime.
Il capitano fissò allora lo sguardo cupo di Edhel.
"Edhel, tu ti recherai dal Maestro Vargas Quenthar e ti metterai a sua completa disposizione".
Aidan si girò di soppiatto a studiare l'espressione del gemello. Il Maestro Vargas? Che aveva a che fare suo fratello con l'Alto Incantatore di corte? Eppure Edhel si era limitato ad assentire lievemente col capo, come se quella richiesta non fosse per lui una novità.
"E abbi cura di te stesso", aggiunse il capitano, con un cenno denso di un qualche significato che entrambi coglievano, ma che sfuggiva ad Aidan.
Edhel non disse nulla, ma fece qualcosa che stupì enormemente sia il gemello che lo stesso maestro: chinò il capo, prese di slancio la mano di Mellodîn e la baciò.
Senza aggiungere altro, l'uomo abbracciò entrambi. Non era in pena per loro che restavano. Li aveva quasi cresciuti, quei ragazzi, e poteva onestamente dire a se stesso che erano pronti ad affrontare il proprio destino, qualunque esso fosse. Soprattutto, lo rassicurava la loro profonda unione, tale che ognuno dei due avrebbe senza dubbio difeso l'altro in caso di pericolo.
No, lui era di certo più in pena per quelli che partivano.
A notte fonda soldati, carri e cavalli si misero in cammino alla volta di Calemar. Con la favorevole epistola di risposta del sovrano di Laurëlindon stretta in tasca, e con la benedizione del re e dei figli degli Uomini, Galanár iniziò quella notte la Terza Campagna contro i Troll, che sarebbe stata celebrata nei libri di storia come l'inizio della Prima Grande Guerra dei Popoli.
NOTA DELL'AUTORE
Ave atque vale è un verso di un carme di Catullo dedicato al fratello morto. Nel suo significato più generico (Salve e addio) è stato spesso usato come commiato nei confronti dei defunti o di coloro che partivano per la guerra. Molti di voi ricorderanno un uso simile di questa frase in Shadowhunters, dove i Nephilim la utilizzano per chi è morto in battaglia 😔
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