02. FIAT IUSTITIA, RUAT CAELUM

Difficilmente il capitano avrebbe potuto dimenticare lo sguardo lucente di Galanár nella luce di quel mattino, né l'espressione innocua con cui aveva dispensato quella notizia del tutto inaspettata. Sbatté le palpebre, ancora confuso: gli Elfi?

Non avevano mai avuto rapporti con le genti che dimoravano a Est, almeno da quando Maldor aveva sposato la sua regina. Un matrimonio mal digerito dagli Arconti, che avrebbero preferito vedere sul trono una fanciulla proveniente dai territori degli Uomini, ma addirittura condannato dal re di Laurëlindon, che aveva disconosciuto la sua stessa figlia.

"Sono stati gli Elfi a chiedere il tuo aiuto?", azzardò.

Galanár sfoderò un sorriso divertito.

"No. Sono io che graziosamente ho deciso di concederglielo".

Mellodîn, però, non sembrava affatto in vena di condividere la leggerezza di quella risposta.

"Spero che tu stia scherzando", sbottò, mostrando il suo disappunto.

L'altro si volse verso il tavolo e indicò le mappe che lo ingombravano.

"Ti sembra forse uno scherzo, questo?"

Il capitano, a quel punto, cominciò ad agitarsi. Con un brusco gesto della mano, fece sparire tutti gli scudieri che avevano disposto le carte. Non voleva avere nessuno intorno.

"Abbiamo combattuto per due anni contro i Troll che attaccavano i confini della Lega, ma quella era una guerra giusta, per difendere i regni vassalli che noi abbiamo giurato di proteggere in cambio della loro fedeltà. Una volta sconfitti, abbiamo finalmente avuto la pace che tutti desideravano, la pace che tuo padre ha impiegato trent'anni a costruire!", esclamò con foga. "E tu adesso mi mandi a chiamare perché vuoi portarci di nuovo in battaglia? Per aiutare un popolo che ci ha sempre ignorati?"

Il principe rinunciò al suo stupore iniziale e abbozzò una smorfia che sembrava voler scacciare quelle considerazioni.

"Proprio per questo non potranno ignorarci ancora per molto".

"Cos'hai in mente, Galanár?"

"Qualche mese fa ho mandato un ambasciatore presso mio nonno, il re di Laurëlindon. Ho domandato il motivo per cui io non figuro nella linea di discendenza al trono".

Mellodîn sbottò in una risata nervosa.

"Questo è abbastanza ovvio: la corona non si trasmette per linea femminile".

"Non è così", fu la replica secca e precisa. "Non nei regni degli Elfi. Questa non è mai stata una regola nella loro storia".

Il capitano tacque di colpo. Il contorno vago delle sue idee aveva assunto una triste nitidezza, e si era fatto troppo definito e scuro per continuare a fissarlo.

"Cos'altro hai fatto?"

Galanár esitò, come se stesse pesando le parole prima di pronunciarle.

La luce che entrava prepotente dalle strette feritoie della sala sembrava destinata solo a lui, come una lancia che si indirizza dritta al proprio bersaglio. Era splendente di sicurezza, di giovinezza, di tracotanza. Era il principe da leggenda che tutti avrebbero seguito nella buona e nella cattiva sorte, nel trionfo e nella disgrazia. Mellodîn lo sapeva bene perché lo aveva già visto accadere, così tremava interiormente in attesa di quella risposta capace di cambiare il destino di molti.

"Ho chiesto il trono di Laurëlindon", disse deciso. "Quando sarà il momento, è ovvio".

Erano esattamente le parole che temeva di dover ascoltare. Commentarle gli parve del tutto inutile.

"La risposta del re?"

"Egli ha rifiutato", scandì con sottile intenzione il principe.

"E allora perché corriamo a dargli il nostro aiuto dopo un simile affronto?"

"Ti capisco. In effetti anche il mio primo pensiero è stato quello di muovere guerra contro gli Elfi", esclamò Galanár, ignorando quanto i suoi desideri fossero distanti dalle idee di pace dell'amico. "Ma mio padre e mia madre non l'avrebbero mai approvato. Il re pensa ancora che ogni cosa possa essere conquistata con la ragionevolezza e con la tolleranza. Io non sono d'accordo, ma non posso fare nulla senza il suo consenso".

"E la regina?"

"Ha detto solo che, dal momento che il diniego è dovuto alla diffidenza verso il mio sangue impuro, dovrei conquistare il diritto con la fiducia".

Il capitano non rispose. Si mosse piano e si avvicinò alle mappe che ingombravano il tavolo. Per alcuni istanti parve interessarsi solo a quei disegni e alle piccole croci tracciatevi sopra dal principe.

"Conquistare la fiducia non significa fare una guerra", commentò infine. "Perché, di tanti mezzi, proprio il più cruento?"

"Nostro zio, il re di Foroddir, combatte da tempo immemore la sua battaglia contro i Nani di Gonthalion, che devastano le terre a est del suo regno con le loro miniere. I due eserciti si sono scontrati molte volte, ma lui non è mai riuscito a ottenere una vittoria definitiva. Gli Elfi sono stanchi, demotivati. Io combatterò per loro. Io vincerò per loro. E quando lo avrò fatto, sarò l'eroe della loro guerra. Saranno loro stessi a offrirmi la corona".

Mellodîn scosse il capo.

"Hai mai pensato che la tua vittoria potrebbe non convincerli ugualmente? Conosci bene la loro razza. Sono altezzosi e arroganti. Sarai pure il loro eroe, ma non sarai mai il loro re. Per quanto tu possa coprirti di gloria, non ti riterranno uguale a loro".

"Ah, lo so bene. Per questo non intendo risparmiare nessuna delle mie risorse militari. Sarà una vittoria ottenuta con la forza. E se non vorranno darmi la corona per devozione, allora me la daranno per paura, perché dispiegheremo la potenza del nostro braccio armato al punto che non oseranno più contraddirmi con un'altra offesa".

Il capitano lo fissò sbalordito, mescolando angoscia e stima. Conosceva Galanár e il suo modo di agire: ciò che ai più sembrava una avventata follia, era invece un piano meditato e ben architettato. Per quanto non approvasse molti dei suoi metodi, tuttavia venerava il suo comandante perché aveva sempre posseduto la forza e la costanza di credere nel suo sogno, per quanto difficile, pazzo o assurdo potesse essere.

"Adesso è tutto chiaro, Galanár", confermò. "C'è solo un dettaglio che vorrei mi spiegassi. Il più importante".

Il principe inclinò lievemente il capo, invitandolo a proseguire.

"Il tuo esercito è composto per la maggior parte da Uomini. I Nani non sono mai stati nostri nemici, e gli Elfi non sono mai stati nostri amici".

"È giusto", assentì l'altro.

"Se queste sono le premesse, come convincerai i soldati della Lega ad andare in guerra a farsi ammazzare?"

Galanár si lasciò sfuggire un lieve sospiro.

"A questo sto cercando di porre rimedio", mormorò con un accento che a Mellodîn parve più stanco che preoccupato.

"E in che maniera, di grazia?"

"L'odio è un sentimento semplice, così facile da creare,  ancor più facile da alimentare! Se quei raminghi dei Troll, ad esempio, avessero stipulato un'alleanza con i Nani, questo li renderebbe nostri nemici. E se le razzie dei Troll ricominciassero a minacciare i regni della Lega..."

"Mi sembra una possibilità davvero remota", replicò Mellodîn, passando la mano su una cartina e sfiorando con delicatezza la sagoma della capitale.

Un riflesso di luce bianca tagliò trasversalmente Ariendil e la fece luccicare. La voce di Galanár risuonò più fredda di quell'acciaio.

"Remota, dici? Non credo. Gli attacchi ai confini sono già cominciati".

A quella notizia, il capitano sobbalzò.

"È assurdo! Quando tuo padre li ha sconfitti la prima volta, hanno impiegato decenni a risollevarsi. A così breve distanza dalla tua vittoria, non avrebbero dovuto avere il tempo di armarsi a dovere. Perché spingersi di nuovo a tanto?"

Il principe non rispose e distolse lo sguardo con un gesto così repentino da destare sospetto in chi lo conosceva tanto bene.

"Galanàr, che hai fatto?"

Cercò i suoi occhi per obbligarlo a quella risposta e il principe sembrò perdere terreno.

"Credi che esistano colpe che nemmeno l'affetto può giustificare?", domandò con un tono così oscuro che giunse come una pugnalata al petto dell'amico.

"Che hai fatto?", ringhiò l'altro, ignorandolo.

Piombò un silenzio di tomba che ingombrò la sala, servendo da cassa di risonanza per la frase che fu pronunciata.

"Con i soldi della Corona io ho comprato la coscienza dei Troll".

Seguì un movimento brusco, un istante spezzato, convulso. Mellodîn stracciò l'angolo di una pergamena, la lanciò in terra, quindi si girò per abbandonare la sala. Galanár lo trattenne per un braccio.

"Mellodîn, ti prego".

"Questa volta hai passato il segno", gli mormorò ombroso e senza neanche guardarlo, puntando ostinatamente verso l'uscita.

Il principe non si arrese, non lo faceva mai.

"Eppure sei un soldato", lo bloccò, mentre il respiro gli si agitava per la foga del momento. "Sai che è così che va, lo insegni perfino ai tuoi allievi: ogni vittoria richiede un sacrificio".

A quelle parole il capitano si girò di colpo, liberò il polso dalla stretta e lo fronteggiò.

"Sì, ma tu hai appena pagato il sacrificio di centinaia di uomini".

"Perché io non li abbandonerò, Mellodîn! Nemmeno uno di loro abbandonerò. E non cercherò di risparmiare la mia vita, ma cavalcherò in prima fila, assieme ai miei soldati! E se dovessi morire in battaglia, allora significherà che il mio sogno era sbagliato".

"È già tutto sbagliato..."

"Se tutto funzionerà nel modo che ho pensato, questa campagna sarà un trionfo. La gloria, la corona che mi spetta, il benessere e la sicurezza per tutti i popoli della Lega", sorrise il principe.

L'altro non ricambiò quel gesto.

"E cosa succederebbe se tu dovessi fallire?"

"So cosa ho messo in moto: un macchinario immenso di uomini e mezzi. In una simile circostanza, sia la sconfitta che la vittoria non possono che essere di natura grandiosa".

"Se tu dovessi fallire", proseguì il capitano, come se avesse fretta di aggirare le eleganti perifrasi dell'amico, "e la Lega dovesse cadere, sarebbe la fine del mondo degli Uomini. Un destino di schiavitù e di disgrazia, di povertà e morte. Mi auguro che tu sappia anche questo".

Il sorriso di Galanár si ritrasse. Il suo volto si ricompose in una maschera di ardita sicurezza.

"Fin troppo bene. Perciò la Lega non fallirà e Arthalion non cadrà, finché io avrò vita e respiro".

La rabbia, sul volto di Mellodîn, parve mitigarsi. Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, il principe riuscì a scorgervi quella luce familiare che conosceva fin dall'infanzia e gli parve di poter tornare a respirare.

"Non mi negare la tua presenza al mio fianco", chiese con semplicità.

Mellodîn si era già scontrato fin troppo spesso con quell'irriducibile contraddizione che scaturiva da Galanár, e di frequente aveva dovuto abdicare alla propria coscienza. Perché quello era l'aspetto del carattere del suo amico che non sarebbe mai riuscito a spiegarsi: così mirabile nel suo coraggio, così sciagurato nel suo amor di sé. Eppure, una volta ancora, capì di non avere scelta.

"Non lo farò".



NOTA DELL'AUTORE

Fiat iustitia, ruat caelum è una locuzione che si traduce letteralmente Sia fatta giustizia (e) cada il cielo, ovvero costi quel che costi, a prescindere dalle conseguenze.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top