8 - La mamma e altre sciagure
La notte era gentile con me quando ero a Londra. Era una soffice culla che mi rigenerava dopo le fatiche quotidiane. Ma oggi, invece, è un velo su cui si imprimono i momenti più bui della giornata e della mia intera vita. Questo velo mi si adagia sulle membra, e mi rigiro nel letto, impossibilitato a togliermelo di dosso. È un velo pesante, che mi soffoca, e non posso fare altro che sopportare, insonne, il suo peso schiacciante finché non avrà inizio un nuovo giorno.
Giulia, Aladino, musica indie, la mia Londra, la mia arte. Mettere un macigno su tutto questo per ricominciare da chissà dove. Vorrei trovare conforto nell'oblio, ma non riesco nemmeno ad addormentarmi.
Quando vedo filtrare il mattino dalle persiane, nulla è cambiato, né fuori né dentro di me. Persino la sfortuna mi è ancora accanto, incarnata nel gallo dei vicini che strepita per il levare del sole, proprio quando iniziavo ad avere un po' di sonno. Se non fossi contrario alla violenza, soprattutto sugli animali, lo prenderei a sberle per insegnarli l'educazione.
Scendo in cucina e l'odore di biscotti caldi mi regala la prima bella sensazione della giornata. Ma io sono allergico al grano e quindi sono sconsolato quando mi siedo a tavola, fino a che mia madre mi dice che ha provato a fare delle ciambelline con la farina di riso. Ne inzuppo una nel latte caldo e quando la tiro su mi trovo tra le dita solo un pezzetto minuscolo di frolla, perché il resto si è spappolato e disperso nella tazza.
Lo metto in bocca e per non farla dispiacere cerco di raccogliere il resto col cucchiaio. La poltiglia immonda che ho sotto il naso mi dà il voltastomaco, ma cerco di fingermi felice, anche quando ne ingurgito il primo boccone. Ho pena di me stesso e mi vengono le lacrime, ma fingo che siano di gioia. Mamma non ha mai adoperato la farina di riso prima d'ora e dev'essere difficile per lei ottenere risultati che non siano troppo briciolosi. Le do un bacio su una guancia e mi ritiro in camera. Non ho ancora disfatto i bagagli, ma l'unica cosa che desidero in questo momento è mettermi di fronte a una tela vergine per scaricarci sopra le mie emozioni.
Gli scatoloni con dentro le mie attrezzature artistiche sono ammaccati. Spero che all'interno sia tutto a posto. Ne apro uno chiedendomi quali e quanti maltrattamenti abbia subìto durante il trasporto tramite corriere internazionale. Ma quando ci guardo dentro il contenuto mi sembra integro. Spargo sul pavimento barattoli e tubetti, pennelli e matite, colori a cera, colori a tempera e quant'altro. Mi sento euforico e pronto per un attacco d'arte.
Corro ad aprire l'armadio, dove mi pare di aver lasciato delle tele già intelaiate. Ne trovo tre, meticolosamente rivestite da sacchetti di cellophane per evitare che si impolverassero durante la mia assenza. Ne sfilo una e l'adagio sul letto, poi apro un altro cartone, dalla forma allungata. Ne tiro fuori un cavalletto smontato. Lo monto e ci piazzo sopra la tela. Prendo un grosso respiro e faccio tre passi indietro per rimirarla dalla distanza che di solito mi aiuta a trasporre il mio mondo interiore su quel piano bianco.
Qualcosa però si inceppa: il mio proiettore interno non funziona e la tela continua ad essere solo una nuda landa. Vuota come me in questo momento. Decido di buttare qualche tratto di matita a caso, sicuro che così si scatenerà quel processo creativo che si alimenta strada facendo e finisce col divenire un flusso inarrestabile di idee ed emozione.
Ma non stavolta, stavolta non accade nulla. Mi lascio cadere sul pavimento e mi sdraio supino tra i colori. Allargo le braccia e le gambe e ci inizio a formare dei semicerchi, simulando una specie di volo.
Spazzo via i tubetti, i barattoli e i pastelli che sono intorno a me e disegno sul pavimento uno spazio a forma di stella, raccogliendo coi vestiti la polvere depositata sul gres. Chiudo gli occhi e tutto tace. È un silenzio che mi lacera e l'unico modo che ho per restare in vita è romperlo. Un urlo rauco mi si sprigiona dal petto e lo spingo fuori con tutte le mie forze. Come atto liberatorio mi sembra che funzioni e allora urlo un'altra volta, più forte, più a lungo.
La porta della camera si spalanca all'improvviso, con tanta veemenza che il pomello sbatte contro la parete e fa cascare pezzetti di vernice e intonaco.
«Giacomi'! Oddio, Giacomi'!»
Mia madre si lancia in ginocchio su di me, a cavalcioni. Mi afferra il collo della t-shirt e inizia a scuotermi cercando di rinvenirmi da quello che ai suoi occhi di genitrice potrebbe essere un gravissimo shock anafilattico, un infarto oppure una crisi epilettica. Ma anziché aiutarmi mi fa battere più volte la testa sul pavimento.
«Non è niente, ma'! Sto bene, sto bene!» urlo per fermarla prima che mi uccida.
«Maronna, Signore, Gesù mio...»
Invoca tutta la famiglia celeste e poi chiama all'appello pure qualche santo per avere più chance di ottenere un aiuto divino.
«È tutto a posto, non è successo niente!» dico e scivolo via dalla sua corpulenza, trascinandomi con la schiena sul pavimento. Mi alzo in piedi prima che le venga in mente di agguantarmi di muovo per soccorrermi.
«Ti hanno fatto male i biscotti? Hai bevuto troppo latte? Sei caduto? Hai un crampo? Che hai, eh? Eh?»
«Eh, dai! Basta, ma'! Non è successo niente.»
«Come niente? Che ti fa male? Dimmelo, Giacomo! Giacomo parla, dimmelo!»
Non la smetterà, lei potrebbe continuare a sparare diagnosi fino a dopodomani e sento di doverla fermare, prima che il pallore del suo volto non si trasformi in cianosi.
«Quello che hai detto prima, ma'.»
Schiocco le dita più volte, come stimolo a farmi tornare in mente una delle cose che ha citato.
«Un crampo, ecco! Un fottutissimo crampo» sparo.
La mamma si getta in ginocchio ai miei piedi e prende a massaggiarmi una caviglia, una a caso.
«E perché non me l'hai detto subito! Vedrai che ti passa, ti passa. Ci mettiamo una pomata e...»
«È già passato, ma', tranquilla!» dico e la prendo per un braccio per aiutarla a rialzarsi. Lei oppone resistenza e passa a massaggiare e schiaffeggiare l'altra gamba.
«Non mi fa più male ho detto, fermati!» urlo.
Le darei un calcio perché mi sta stritolando il polpaccio. La acchiappo per bene sotto le ascelle e la tiro su, fino a che non vinco la sua resistenza e riesco a metterla in piedi. Le prendo il viso e la guardo dritto negli occhi tentando di ipnotizzarla. «Ho ancora sonno. Lasciami dormire un altro po', scendo per pranzo.»
Si vede che non vuole andarsene. Conoscendola starà pensando di sdraiarsi accanto a me e vegliare il mio sonno. Ma insisto e la accompagno alla porta. Si volge un'ultima volta a guardarmi, come ci stessimo salutando per una chiamata alle armi. Le sorrido e annuisco con fermezza prima di chiudere tra di noi la porta.
Me ne torno a letto. Ho un cerchio alla testa e le membra intorpidite. Spero di essere pronto, adesso, per una dormita sacrosanta.
Quando mia madre lancia il richiamo per il pranzo, una sirena degna di un'adunata militare, mi sveglio da un sonno profondo. Stringo i pugni e me li pianto in testa, arrabbiato per essere stato strappato all'oblio che avevo raggiunto da così poco, dopo averlo cercato invano per tutta la notte. Ma la rabbia dura solo un istante, perché gli schiamazzi che sento provenire dal piano di sotto la tramutano in disperazione: dal numero di voci che si sovrappongono le une alle altre, direi che c'è un esercito giù in sala da pranzo.
Un flash mnemonico fatto di persone invadenti e masticazione selvaggia di ogni sorta di alimento a me proibito mi aggredisce e annichilisce. Come ho potuto dimenticarmi il mega pranzo di famiglia che ricorre ogni anno per la festa di Sant'Ignazio? Tutto il parentado riunito, per un totale di ventidue adulti e tre bimbi.
Non lo so, non lo so davvero se uscirò sano e salvo da tutto questo, ma la fuga oggi non è contemplata e tra poco andrò di sotto. Sì, andrò di sotto.
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