19 - Non per gloria, ma per amore
Oggi ho strappato dal calendario il foglio del mese di ottobre, ma le serate non sono ancora fredde e la passeggiata che sto facendo in solitaria, in centro, tutto sommato è piacevole. Mi fermo davanti a uno spazio per le affissioni pubblicitarie e, con immensa soddisfazione, vedo il primo segno concreto dell'autunno: il manifesto della festa del vino. Sullo sfondo ci sono grappoli d'uva accostati a una bottiglia della cantina Feliziani. In alto, a caratteri enormi, c'è scritto Festa del vino novello, 32 ͣ edizione, mentre in basso c'è l'elenco degli eventi previsti per i due giorni di festeggiamenti. Il nome 'Adam Green' si nota a malapena, inserito tra l'esibizione della banda popolare e lo spettacolo pirotecnico del sabato sera, ma basta spostare gli occhi su un altro pannello per trovare un poster di questo ragazzo dall'espressione trasognata, immerso in una nube fumosa che lo rende ancora più misterioso di quanto già non sia per gli abitanti di Villagaia.
L'orgoglio mi fa gonfiare il petto, di fronte alla prova del mio successo. Tutto sta andando persino meglio di quanto avrei immaginato: sono stato designato interprete ufficiale della band e ci sono riuscito senza neanche aver lottato per farmi assegnare questo compito che senz'altro mi permetterà di coprire le panzane che ho raccontato. Certo, se Aladino alle scuole superiori avesse imparato almeno le basi della lingua inglese, non sarebbe stato possibile. Non mi avrebbe mai ceduto un incarico così importante, ma per fortuna non riesce nemmeno a tradurre le parole più comuni. Tra i membri della Proloco sono l'unico che mastica l'inglese e lo sapevo dall'inizio che avrebbero avuto bisogno di me.
«Nessun problema, a disposizione» mi scappa ad alta voce e sghignazzo. Ammicco alla vecchietta che mi ha sorpreso a parlare da solo e che si è fermata a osservarmi tenendosi in piedi solo grazie all'aiuto di un bastone.
Aspetto che se ne vada, ma lei resta lì, come una vigilante che tiene d'occhio qualcuno di sospetto. Allora me ne vado io, che è meglio.
Dalla tasca dei miei jeans parte God save the Queen dei Sex Pistols. Prendo il cellulare e trovo sul display un numero sconosciuto. Sarà un promotore telefonico, immagino, ma sono così felice che rispondo lo stesso e persino in maniera cortese.
«Giacomo?» dice una voce femminile che non è spedita come quella di chi chiama per vendere qualcosa. È tremula, familiare.
Mentre rispondo un «Sì» flebile, come se a dirlo più forte potessi infrangere qualcosa, la possibilità che sia davvero lei, mi sento leggero come un palloncino riempito di elio. Fa' che sia lei.
«Sono Giulia.»
Sì! Per la pietra portante del dorsale Appenninico, sì!
«Giulia? Ah, sì. Giulia, ciao» dico, cercando di modularmi su una frequenza bassa, da uomo che non deve chiedere mai, ma la cosa non mi riesce tanto bene e mi accorgo di aver usato il tono con cui un debitore risponderebbe a un esattore di Equitalia.
«Disturbo mica?»
«No, no, scherzi? Non me lo aspettavo che potessi essere tu, che sorpresa!» Ora invece sembro uno che ha appena vinto la lotteria nazionale. Stupido, stupido, stupido. Mi premo le dita sugli occhi.
«Volevo dirti che ho ascoltato alcuni brani di questo Adam Green e mi è piaciuto un botto! Non lo conoscevo e non so come ha fatto a sfuggirmi una roba del genere. Sono così contenta che hai scoperto che è cugino di zi' Peppe e che hai avuto l'idea di invitarlo a cantare a Villagaia. Ah, se ti stessi chiedendo come faccio ad avere il tuo numero, l'ho chiesto a Pollice. Ci tenevo a dirti queste cose e...»
Resto in sospeso, con una insolita fame di ossigeno.
«...speravo di fare una chiacchierata con te a quattr'occhi, se ti va» conclude.
Non si accorre al primo schiocco di dita, mai! Le ragazze devono credere che hai degli impegni, che hai bisogno di organizzarti.
Guardo l'orologio, sono le sette e trenta del pomeriggio.
«Tra un'ora ti può andare bene?»
Tra il momento in cui ci siamo messi d'accordo e quello in cui siamo nel luogo dell'incontro, faccia a faccia a un tavolo della rosticceria storica di Villagaia, c'è stato una specie di vuoto spaziotemporale durante il quale ho provato a mettere insieme i pezzi migliori della storia della mia vita, in modo da non fare brutte figure nel momento in cui avrei dovuto parlare di me. Peccato che adesso, di fronte a una trentina di arrosticini con contorno di patate al forno, non mi ricordo nulla della parte che ho preparato. E comunque Giulia non fa altro che parlare di Adam Green e di quanto sia contenta che canterà alla festa del vino novello. Mentre addenta i bocconcini di carne e li sfila dallo spiedo con una voracità che mi spaventa, sembra che non abbia altro nella testa. È eccitata, più di me, tanto che riesco a partecipare con appena qualche monosillabo, perché l'entusiasmo le sgorga dal petto sottoforma di un inarrestabile fiume di parole. Quando ha divorato l'ultimo arrosticino, tace per qualche secondo, come a prendersi il tempo di assaporare la soddisfazione di essersi riempita la pancia.
«Ti sono tanto, ma tanto grata, per aver portato una ventata di novità» dice.
«Ma figurati!» rispondo e mi illudo che adesso possiamo parlare un po' di noi.
«Sai, ho letto su Wikipedia la biografia di Adam Green, però non c'è nulla riguardo i suoi genitori e i suoi nonni. C'è scritto solo che è pronipote di Felice Bauer. Allora ho cercato sul suo sito ufficiale e poi su tutti i social, perché ero un sacco curiosa di scoprire qualcosa in più sui parenti di zi' Peppe, ma neanche lì ho trovato nulla: né foto, né nomi.»
Fingo di essere sorpreso, anche se non lo sono neanche un po', perché una ricerca del genere l'ho già fatta io per essere sicuro che nessuno potesse smascherarmi. Non è detto nemmeno che Heinz sia davvero il nonno di Adam, perché Felice aveva anche una figlia: Ursula. Ho sparato a caso.
«Davvero non c'è nulla? Be', comunque la lettera che mi ha mostrato zi' Peppe è chiarissima» le dico.
Sì, come no. L'unica cosa che mi abbia mostrato zi' Peppe è stata la via della seta che vedeva in una crepa della parete, nel suo soggiorno.
Per fortuna Giulia cambia discorso.
«Mia sorella minore frequenta la seconda media. Sai che nella sua scuola stanno facendo in tutte le classi delle lezioni su Kafka in questi giorni?» dice.
Una patata mi va di traverso e mi metto il tovagliolo davanti alla bocca per non sputacchiarla fuori mentre tossisco.
«Ah, forte!»
«Sì, infatti. E ho saputo che anche in molti istituti superiori della provincia stanno spiegando Kafka e le sue opere, anche se non è nel programma. Pensa poi che alla libreria di mia zia, quella all'angolo vicino al salumiere, hanno richiesto almeno un centinaio di copie de La metamorfosi. È straordinario il coinvolgimento che si sta cerando intorno a questa cosa, non trovi?»
«Sì, sì, trovo anch'io» rispondo anche se adesso mi si arrampicano lungo la schiena dei piccoli brividi, indicatori della sensazione che la situazione stia sfuggendo di mano. Va bene che volevo fare il botto, ma il contrappeso di un interesse così grande è un elevato rischio di essere smascherato.
Tra di noi adesso ci sono dei piatti vuoti, bicchieri asciutti, e un improvviso silenzio, incubo di ogni primo appuntamento, ma che stavolta mi è amico perché mi permette di riportare la quiete nella mente e di concentrarmi su quello che desidero da questa serata: non la gloria, ma l'interesse di Giulia. Sono qui perché spero che si accorga di me e di quanto mi piace.
Abbasso gli occhi sul giochino scacciapensieri che sto facendo sotto al tavolo: mani intrecciate sulle gambe e pollici che si rincorrono roteando uno intorno all'altro. Il rumore di una sedia trascinata sul pavimento mi fa sollevare lo sguardo e mi ritrovo Giulia accanto, non più di fronte. Si siede sulle mie gambe e mi appoggia la testa sul collo. Vacillo, ma dopo il primo istante in cui mi sembra di perdere l'equilibrio, mi lascio andare e appoggio la fronte alla sua. Le sue mani mi si aggrappano ai fianchi e mi risalgono verso il petto mentre le nostre labbra si incontrano. Le schiudo e tutto il mondo intorno si dissolve mentre stuzzico la sua lingua e poi la succhio come se fosse un nettare dolce e raro, in grado di risanare ogni mia ferita.
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