10 - Non aprite quella porta


La Panda di Pollice ha un odore stantio di muschio e sigaro cubano, ma qui dentro mi sento al sicuro. I due subwoofer alloggiati nel bagagliaio mi fanno vibrare i glutei e mi rimandano indietro nel tempo, a quando eravamo neopatentati e ci esaltavamo da matti per il solo fatto di lasciare gli scooter nei garage in favore di un mezzo comodo e caldo, con la musica che ci rimbombava intorno.

A differenza di allora però, non ho voglia di scendere. Niente feste, pub o birrerie. Vorrei solo restarmene tranquillo, ma so già che Pollice mi porterà in centro per farmi ambientare gradualmente e sotto sua sorveglianza, come se fossi una specie protetta da reinserire nel suo habitat dopo un periodo di cattività. 

Però qualcosa non quadra, perché non sto affatto tornando libero, ma sto rientrando nella mia prigione. 

«Che ne dici di fare visita a zi' Peppe?» domanda, cogliendomi di sorpresa.

Il suo piano dunque è farmi incontrare una persona non ostile in modo da semplificarmi il cammino. Geniale!

«Sì, andiamo!» dico.

Alzo il volume dell'autoradio e canticchio Poison di Alice Cooper, in sintonia con la voce graffiante che esce dai diffusori.

In un tempo troppo breve per me, che tutto avrei fatto tranne che lasciare la mia zona di comfort all'interno di quest'abitacolo, arriviamo nei pressi del centro storico di Villagaia e Pollice accosta  sul ciglio della strada.

«Sei pronto?» mi chiede.

«Sì, certo» mento.

Smontiamo dall'auto. Anche se è presto perché devoti e festaioli invadano il paese per la serata finale della festa di Sant'Ignazio, ci sono già alcune vetture parcheggiate. 

Percorriamo un breve tratto di salita e raggiungiamo l'ultima casa indipendente che sorge prima che il paesaggio si tramuti in un agglomerato urbano.

Ci fermiamo sotto la tettoia che ripara il cancello pedonale e Pollice pigia sul citofono incassato in una colonnina di pietra. Sentiamo un trillo che farebbe accorrere alla porta anche l'inquilino delle abitazioni vicine, per quant'è forte. 

Non risponde nessuno, ma il cancello si apre.

Ci inoltriamo per il vialetto scalcinato che termina nell'ingresso principale e ci fermiamo di fronte a un portone di legno scolorito dalla maniglia mezza divelta. Invece dello spioncino c'è un buchetto otturato con un pezzo di cartone. 

La porta si spalanca e inonda di luce un atrio cupo e polveroso. Zi' Peppe si fa trovare lì, su una sedia a rotelle. Si sbraccia, sventolando una busta da lettera.

«Siete qui per la missiva?» ci chiede.

«No, Peppe, siamo passati per salutarti. Guarda un po' chi c'è: Giacomo. Te lo ricordi?» dice Pollice.

Zi' Peppe strizza gli occhi e fa forza sui braccioli per drizzare il busto.

«Andiamo allora, che abbiamo da discutere. Bisogna avvertire mio nipote che sto partendo. È necessario recapitargli questa lettera, prima possibile, così saprà come rintracciarmi.»

Compie un mezzo giro su se stesso con la carrozzella e ci fa segno di seguirlo. 

Blocco Pollice e chiudo le dita di una mano a becco d'uccello, per fare quel gesto che sta a significare 'che cavolo succede?'.

«Tranquillo, è da un po' che fa così» bisbiglia Pollice, esagerando il labiale per farsi capire.

Peppe lavora di braccia sulle ruote della sedia a rotelle fino in soggiorno, dove lo raggiungiamo, titubanti.

«Accomodatevi, la questione è seria» dice e ci indica un divano a due posti.

Io e Pollice ci mettiamo a sedere, ma i cuscini nascondono un telaio sfondato, così precipitiamo in una cassa cava e veniamo avvolti da una nuvola di polvere.

«Allora, come butta, zio?» domanda Pollice mantenendo un contegno encomiabile, mentre io  tossisco e mi picchio le mani addosso per ripulirmi i vestiti. «Lo sai che Giacomo è stato a Londra?»

Zi' Peppe non lo calcola di striscio. Si rigira quella busta da lettera tra le mani, si gratta la testa, si passa la mano sulla bocca. È agitato, come se avesse chissà quali preoccupazioni. 

«Mio nipote non lo sa del processo. Dicono che sono colpevole, ma io sono innocente e nessun magistrato vuole vedermi. Decidono le mie sorti senza che possa presentare la mia memoria difensiva, perché vogliono condannarmi a morte. Devo andarmene, e voi dovete consegnargli questa, a mio nipote» dice e sventola ancora la busta.

Pollice fa muro parando le mani in avanti come per invitarlo alla calma e ribatte: «Va bene, ma nessuno vuole condannarti. Tu non hai fatto mica niente di male».

«No!» urla zi' Peppe facendoci sobbalzare.

«No che non ho fatto niente, sono innocente, innocente!» sbraita. «Ma loro non ci credono e non vogliono che mio nipote sappia della pena che stanno per infliggermi.»

Ci fissa come se fossimo due fidati commilitoni e ci allunga la lettera. Io sono basito e pure spaventato, ma Pollice decide di assecondarlo e fa per prendere la busta. 

Zi' Peppe ritrae la mano.

«Io non so se posso fidarmi. Non posso fidarmi più di nessuno. Perfino i miei parenti mi hanno dato sempre dispiaceri. Io sono solo. E voi, voi invece, chi siete?»

«Pollice» dice Pollice.

«Gia-giacomo» balbetto io.

«Di noi puoi fidarti» continua Pollice e mi volge uno sguardo che lascia intendere sia consapevole di non avere avuto una buona idea a venire qui.

Tutto mi sta vorticando intorno e il mio mal di vivere sta peggiorando.

Giungo i palmi delle mani e me le schiaccio tra le cosce intimidito. D'un tratto, sentiamo dei passi lenti e lievi, come se qualcuno si fosse introdotto in casa con cautela.

Una donna robusta, sui cinquanta, si affaccia in soggiorno con in braccio un grosso sacchetto di carta da cui spuntano delle pesche.

«Ah, Pollice, sei tu? Mi hai fatto prendere un colpo. Ho trovato la porta aperta e ho pensato chissà cosa» dice e fa un grosso sospiro di sollievo, portandosi una mano al petto.

Delle ciocche biondo cenere, sfuggite alla pinza per capelli con cui ha raccolto la sua chioma crespa, le oscillano davanti al volto mentre scuote energicamente la testa.

«Ciao Irina, scusa, non volevo farti spaventare. Giacomo è appena tornato da Londra e pensavamo che a zi' Peppe avrebbe fatto piacere rivederlo. Vi presento: Giacomo lei è Irina, lavora per il Comune e si occupa degli anziani con esigenze speciali. Irina, lui è Giacomo.»

Faccio leva sul bracciolo per estrarre il mio fondoschiena dal divano-trappola e mi alzo in piedi.

Lei poggia le pesche su un tavolo.

«Ti ha riconosciuto?» mi domanda.

«Non mi pare» rispondo, dispiaciuto.

«Capisco. Che vuoi farci, la sua memoria è un po' andata.» 

Zi' Peppe fissa un punto davanti a sé e recita con convinzione:

«Giudicare veramente può solo la parte in causa, ma come parte in causa non può giudicare. Quindi nel mondo non esiste possibilità di giudizio, ma solo il suo barlume.» 

Irina, con la punta delle dita, si stacca dal petto la camicetta intrisa di sudore.

«Però si ricorda tutti gli aforismi di Kafka. Mi sa che ne avete appena sentito uno» dice.

Sorride e si rivolge a Peppe:

«Non è vero, zi', che sai tutto di Kafka?»

«Domandiamolo a mio nipote!» dice lui.

«Ma davvero ha un nipote?» bisbiglio a Pollice.

«Non lo so» mi risponde. «È da un po' che parla di un nipote che vive in America e che non ha mai potuto conoscere. Ma Peppe è sempre stato stravagante. Non si può prendere per oro colato nemmeno quello che raccontava prima della malattia, figurarsi quello che racconta adesso. Comunque, stando a ciò che ha detto in giro, dovrebbe trattarsi del nipote di una sua cugina, emigrata molti anni fa, non di un nipote suo. Ma nessuno sa se è vero oppure no. Lui poi non si ricorda alcun nome, quindi non è possibile fare una ricerca. L'unica cosa certa è che, fino a qualche tempo fa, questa storia la sparava di tanto in tanto. Adesso invece ci è andato in fissa.»

Negli ultimi minuti Pollice deve essersi rassegnato all'infermità mentale di zi' Peppe, perché ora parla di lui a voce alta, come se non fosse presente e come farebbe davanti a un bambino troppo piccolo per capire ciò che si dice di lui.

«Devo preparare la cena, scusatemi. Vado di là in cucina, ma voi trattenetevi pure quanto volete» dice Irina.

Ci saremmo trattenuti di più, forse, se zi' Peppe fosse stato lucido, ma vederlo in questo stato è troppo penoso.

«Grazie, Irina, ma si è fatto tardi. Ce ne andiamo via, vero Pollice?»

Pollice si issa svelto dal mucchio di cuscini in cui se ne è rimasto sprofondato finora, come se gli avessi offerto un'occasione d'oro per portare i nostri culi fuori di lì, prima che il povero zi' Peppe si ricordi della lettera da recapitare a suo nipote e che ce la appioppi. 

Zitti e cauti, ce la filiamo.

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