65. Ponte di comando

DUNCAN

Quando mi fu chiaro che non si trattava di un malfunzionamento momentaneo, e che l'ascensore non sarebbe ripartito, cominciai febbrilmente a tastare ogni Granello quadrato della cabina, alla ricerca di un via d'uscita. Maledetti ingegneri! Dovevano per forza usare l'elettricità, non potevano accontentarsi di una scala e una porta!

Immerso nell'oscurità più totale, me la presi anche con chi, progettando il Pungiglione, non aveva pensato a dotarlo anche di una torcia.

In realtà, l'unico da biasimare ero io, che mi ero gettato a testa bassa in quel piano ideato sul momento, senza valutare con calma ogni implicazione e, quel che era peggio, trascinandomi dietro anche i miei amici.
Non ero poi migliorato quanto credevo dal giorno dell'air show, quando avevo stanato il nemico senza riflettere sul fatto di essere disarmato.

Sul soffitto, qualcosa cedette sotto le mie dita: uno dei pannelli si muoveva! Alzandomi in punta di piedi, lo feci scorrere con i polpastrelli fino a scoprire un pertugio grande a sufficienza da consentirmi di passare. Con un salto, mi aggrappai al bordo e mi issai a forza di braccia.
Una debole luce filtrava dalle porte scorrevoli; per i miei occhi, ormai abituati alle tenebre, era più che sufficiente. Mi arrampicai lungo il cavo a cui era appesa la cabina quindi, raggiunta l'altezza giusta, rimasi sospeso tra la corda e il bordo del pavimento, appoggiandomi con un piede a quest'ultimo.

Richiamato il Pungiglione, infilai di taglio la lama nella fessura fra le ante e feci forza con entrambe le mani, ruotandolo per aprire uno spiraglio, sperando che non si spezzasse. Dopo qualche sforzo, i battenti cedettero di colpo, liberando uno spazio sufficiente a consentirmi di infilarci le dita. Li spalancai e feci irruzione sul ponte di comando.

Il tutto si era svolto nel più totale silenzio, e nessuno si era accorto di me: potei così concedermi il lusso di analizzare per un attimo l'ambiente con lo sguardo, prima di passare all'azione.

C'erano cinque consolle, occupate da altrettante persone: in posizione più avanzata il pilota e il copilota, alle loro spalle l'addetto al radar e quello a radio e telecomunicazioni, e un po' defilato un quinto di cui, così su due piedi, non ero in grado di indovinare la mansione. Dal lato della sala opposto ai piloti, stava quella che sembrava una grossa scrivania di metallo, zeppa di schermi e indicatori luminosi: il posto di comando.
Immaginai che vi fosse assiso Winthrop, anche se da dove mi trovavo, a causa dell'angolazione, riuscivo a vedere soltanto una piccola porzione del mobile, su cui era posato un vassoio d'argento con una teiera fumante e una tazza finemente cesellate, che probabilmente appartenevano alla regina. Provai un moto di fastidio nel constatare come lui considerasse i beni della Corona già di sua proprietà.

Recuperai la cerbottana di Inigo, che avevo infilato nei pantaloni, dietro la schiena, e tolsi la sicura. Sei colpi per sei bersagli: se me la giocavo bene, sarebbe finito tutto molto in fretta. Escluso il generale supremo, tutti erano ben visibili dalla mia posizione e, soprattutto, si trovavano entro la gittata.

Tolsi la sicura, mirai al pilota e premetti il grilletto; quasi non si era ancora udito lo schiocco della freccetta che partiva, che già il secondo dardo stava partendo. Gli ultimi due soldati avevano appena cominciato a voltarsi per scoprire l'origine di quel rumore sospetto, quando li freddai entrambi.

Balzai in avanti per trovare un angolo adeguato, puntai la cerbottana e sparai.

Winthrop sgranò gli occhi per lo stupore, ma non successe nulla: nella foga del momento, avevo già consumato tutti i proiettili. Con un moto di stizza, scaraventai a terra l'arma ormai inutile, impugnai il Pungiglione e feci fuoco, vuotando il caricatore. La mia incertezza era durata soltanto un istante, che però era stato sufficiente a quella vecchia volpe per riaversi dalla sorpresa.

Rapido come una saetta, agguantò il vassoio e lo usò come scudo, intercettando i puntali, che vi si incastonarono dentro.
Quindi me lo lanciò addosso, con un gesto degno di un atleta consumato.
Roteando su se stesso, il disco metallico puntò la mia faccia. Feci appena in tempo a ripararmi dietro lo spallaccio a forma di bolla, abbassandomi leggermente e deviandolo con uno scatto del braccio destro. Non avevo ancora riguadagnato la posizione eretta, che già il generale supremo mi era addosso, il Pungiglione attivato e con la lama estroflessa.

Parai i primi tre affondi alla bell'e meglio, quindi tentai un contrattacco. Appena le nostre armi si incrociarono, Winthrop si sporse in avanti e mi colpì con una gomitata in faccia. Quando indietreggiai, spazzò l'aria con un ampio fendente che mi squarciò i vestiti all'altezza del petto, per fortuna senza ferirmi. Pensare di mettersi a pilotare un aereo con un'armatura addosso sarebbe stato folle, quindi indossavo solo dei comuni abiti civili. In quel momento, però, rimpiansi di non essermi attrezzato diversamente.

Cercai di distanziarlo, mantenendo alta la guardia.

«Io ti conosco!» osservò il mio avversario, rilassandosi un attimo. «Sei l'amico del tenente Hudson!»

Mi limitai ad annuire, mentre riflettevo su quale potesse essere la strategia migliore per batterlo.

«Pensavo fossi morto!»

«Non ancora, no.» replicai.
Avrei voluto aggiungere che ero là per fermarlo, che i giorni della sua tirannia stavano per finire, ma lui non me ne diede il tempo e cominciò a farmisi incontro a passo sostenuto.

«Un errore a cui rimedierò subito!» Concluse, attaccandomi.

Dopo un paio di scambi ero di nuovo sulla difensiva, incalzato dal nemico, e mi resi conto del madornale errore di valutazione che avevo commesso.

Gli ufficiali ricevevano il loro Pungiglione al momento della loro promozione, e da quel momento in poi vi si allenavano giornalmente.

Io invece mi ero appropriato di uno di quegli oggetti senza averne titolo, e avevo dovuto imparare a usarlo da autodidatta. Se per lo sparo e il rampino poteva forse bastare la pratica, l'arma bianca e lo spallaccio a bolla richiedevano tecniche avanzate che nessuno mi aveva insegnato. A pensarci bene, era già un miracolo che fossi riuscito a sopravvivere allo scontro con Hudson, in cui peraltro avevo avuto comunque la peggio, e mi ero salvato solo per una serie di fortuite coincidenze.

Ma il Generale Supremo giocava in un altro campionato, per così dire. Non solo il suo Pugiglione era stato modificato, con una lama più lunga e un meccanismo di espulsione più rapido. Ma lui si muoveva in un modo che non avevo mai visto, combattendo con ogni parte del corpo: se intercettavo un suo affondo, subito lui mi sorprendeva con un calcio, una ginocchiata, uno sgambetto, un pugno allo stomaco.

Non riuscivo a far altro che indietreggiare, parando l'uragano di fendenti e stoccate che si era scatenato su di me. Ad un certo punto, Winthrop deviò la mia arma con il braccio libero, e conficcò la sua, per tutta la lunghezza, nel mio fianco sinistro.

Urlai con tutto il fiato che avevo, quando il mio avversario ruotò il polso in un verso e nell'altro, allargando la ferita. Il duro acciaio squarciò i tessuti; era come se mille, minuscole bestie zannute mi stessero mangiando vivo. Arretrai, portando la mano alla ferita: un liquido denso e caldo mi imbrattò la pelle, correndomi tra le dita. Non avevo bisogno di essere un medico, per capire che non sarei stato in grado di reggermi in piedi ancora a lungo, senza adeguate cure. Premetti con forza, nella speranza di arginare almeno un po' l'emorragia.

«Pensavi davvero di poter competere con me?» mi canzonò il mio avversario. «Non sei nient'altro che una recluta boriosa. Hai appena imparato a pulirti il culo da solo, e pretendevi di sfidare me, reduce da mille scontri! Perfino il tuo degno compare non aveva alcuna possibilità, e lui almeno era addestrato.»

Stava parlando di Hudson!
Ero certo che si trattasse soltanto di una provocazione, per farmi perdere del tutto la concentrazione, ma non ero abbastanza intelligente da non cascarci.

«Non è un mio compare.» spiegai. «Mi ha tradito e abbandonato.»

«Vuoi farmi credere che non eravate d'accordo fin dall'inizio? Che gli è solo venuto un rimorso di coscienza tardivo?» ridacchiò l'altro.

Cercai di deglutire, senza riuscirci. «Cosa avete fatto?»

«Ha provato a convincermi ad annullare l'attacco.»
Sfoggiò ancora quel sorriso da predatore che già gli avevo visto addosso, e sentii drizzarsi i capelli dietro la nuca mentre proseguiva: «Ovviamente, ho dovuto rimetterlo al suo posto, e adesso non è altro che una macchia sulla pista di decollo.»

Sentii lo stomaco annodarsi. «Come potete parlarne a questo modo? Era un vostro collaboratore!»

«Era un traditore, proprio come te.» si strinse nelle spalle, minimizzando la cosa. «Ha fatto la fine che meritava.»

Senza perdermi di vista, Winthrop si avvicinò alle grandi vetrate e guardò fuori: l'aereo aveva proseguito diritto nonostante avessi tolto di mezzo i piloti, e il Formicaio era quasi sotto di noi.
«Vediamo di finirla in fretta: ho un appuntamento al quale non posso tardare. Uno di quelli di cui si scrive nei libri di storia.»

Detto questo, si gettò su di me.

Riuscii a parare quel violento assalto con la forza della disperazione, quindi tentai un debole affondo. Il generale lo evitò senza difficoltà, quindi mi imprigionò il braccio armato tra il suo corpo e una delle consolle di controllo. Mentre ero immobilizzato a quel modo, Winthrop tentò un fendente dall'alto in basso, che riuscii a intercettare con la mano libera, afferrandogli il polso. Purtroppo, era una trappola: avevo scoperto il fianco, e il mio avversario ne approfittò, sferrandomi una violenta ginocchiata proprio sulla ferita.

Annaspai senza fiato, cercando un appiglio, mentre un dolore lancinante si propagava dalla parte offesa lungo tutto il torace, riverberando nello stomaco e nella gola. Senza lasciarmi il tempo di riprendermi, il generale sferrò un altro attacco; per fortuna, scivolò leggermente sulla macchia di sangue che si era accumulata sul pavimento, e la sua stoccata, anziché raggiungermi al ventre, mi trapassò la coscia sinistra.

Stavolta riuscii a impedire che rigirasse il coltello nelle mie carni, agitando forsennatamente la lama davanti a me. Erano movimenti caotici e scoordinati, simili a quelli che avrebbe potuto produrre un bambino che giochi con una spada di legno, ma lo costrinsero comunque a fare un passo indietro.

Quando tentai di fare lo stesso, inciampai, persi l'equilibrio e caddi lungo disteso sul pavimento. In preda al panico, cominciai a trascinarmi sulle braccia, strisciando sul fianco sano, senza ormai più alcuna dignità né speranza di poter vincere quello scontro.

Come al solito, ero stato troppo spavaldo e, anziché attenermi al piano, avevo voluto giocare a fare l'eroe.
Stavolta, forse, avrei pagato il prezzo più alto per la sconsideratezza delle mie decisioni.

«È finita.» decretò l'ufficiale. «Ora ti manderò a ricongiungerti col tuo amico.»

Non riuscivo a credere che Hudson fosse morto. Alla fine, si era schierato dalla parte giusta, opponendosi al dittatore al costo della sua stessa vita.

«Siete ancora in tempo per fermarvi...» Tentai.

Lui scoppiò a ridere. «Fermarmi? Nel momento del mio trionfo?»

Pensai di provare a prendere tempo, facendolo parlare... Ma, in realtà, io avevo tutto da perdere: ogni secondo che passava diventavo un po' più debole, mentre al Calabrone sarebbe bastato virare e centrare il Formicaio al secondo passaggio.

«Che cosa volete? Che cosa sperate di ottenere?» domandai, mentre esploravo i dintorni con lo sguardo, alla ricerca di qualcosa che potesse essermi di aiuto. Ma la sala era spoglia, e ogni attrezzatura era saldamente ancorata al pavimento. Perfino le sedie, che pur erano del classico modello da ufficio con le ruotine, erano bloccate tramite un leverismo che ne vincolava il perno centrale. Strisciai dietro una di esse in cerca di riparo.

«Cosa spero, dici? Io l'ho già ottenuto! Entro la prossima settimana mi proclamerò Imperatore dell'Immensità. Sotto il mio dominio, nascerà una nuova civiltà, in cui regneranno ordine e disciplina, e le Api avranno il posto che spetta loro, al vertice!»

«Sembra quasi che voi stesso crediate a queste stronzate. Ma questo non è un comizio elettorale, e voi state parlando di ridurre interi popoli in schiavitù, e di imporre a tutti il vostro volere con la forza!» esclamai, infervorato. «Abbiate almeno la decenza di ammettere che tutto questo serve solo a soddisfare il vostro ego, non lo fate sembrare una cosa buona!»

«Vuoi insegnarmi la decenza, tu che strisci sul pavimento come una lumaca?» sghignazzò. «Io ho degli obiettivi ambiziosi da perseguire, che doneranno ai nostri figli un mondo che oggi non si può nemmeno immaginare! E possiedo la determinazione necessaria ad andare fino in fondo. Ma non mi aspetto che tutti possano capirlo.»
Gettò una fugace occhiata oltre le vetrate, quindi riprese: «Appena saremo pronti dichiareremo guerra anche alle altre etnie: conquisteremo Cetonia e domeremo i barbari Onischi, tanto per cominciare. E quando tutte le tribù saranno riunite sotto un'unica bandiera, non esisteranno più guerre, povertà, carestie... Tutto sarà gestito dalla guida illuminata di noi Api. Sarà meraviglioso.»

Rimasi sorpreso di come quel discorso avesse alcuni punti in comune con quelli di Ash. Tuttavia, a prescindere dal fatto che lui ci credesse davvero o che si trattasse soltanto di propaganda, stavamo comunque parlando di colui che si apprestava a togliere la vita a migliaia di persone.

«Non potete costringere con la forza le persone a seguire la vostra bandiera, dovete spronarle a farlo, dandogliene il motivo! E non potete privarle del loro diritto di...»

«Invece posso.» mi interruppe bruscamente lui. «Ho il carattere e il potere necessari. E non ho paura di fare ciò che va fatto... Come porre fine alla tua inutile esistenza!»

Sancite con queste parole la fine della nostra conversazione, il generale puntò con decisione verso di me.

Mentre discutevamo, avevo sbloccato con grande cautela il meccanismo che impediva alla sedia di muoversi, e mi ero posizionato con la gamba sana piegata dietro di essa, il piede appoggiato all'asse centrale. Cercai di mantenermi lucido e distaccato, consapevole che non avrei avuto seconde possibilità. Quando valutai che la distanza era quella giusta, spinsi la sedia con tutte le mie forze. Essa scivolò rapida sul pavimento liscio, e travolse Winthrop, cogliendolo di sorpresa proprio come avevo sperato. Il sedile lo colpì all'altezza delle ginocchia, sbilanciandolo in avanti. Perse l'equilibrio, si aggrappò allo schienale e si rimise in posizione eretta.

Durò soltanto un istante, ma io ero pronto, il braccio destro teso in avanti, quello sinistro a sorreggerlo da sotto. Feci fuoco nell'esatto momento in cui il nemico, afferrato l'ostacolo, si preparava a spingerlo da parte.

Avevo consumato tutti e quattro i puntali, ma mi restava ancora il rampino, e da quella distanza era impossibile sbagliare il tiro: l'estremità acuminata si conficcò profondamente nella gola del generale, che s'irrigidì come se avesse preso una scossa, quindi portò le mani al collo.

Azionai il verricello di recupero e al contempo diedi un violento strattone: la corda si tese e il corpo estraneo schizzò fuori dalla ferita, accompagnato da uno spruzzo di sangue.

Winthrop si portò le mani al collo e cercò di dire qualcosa, ma non riuscì a proferire null'altro che soffi e risucchi. Tremando, in preda a violente convulsioni, il militare cadde, ma quasi al rallentatore; una volta steso sul pavimento, il suo corpo continuò ad essere preda di potenti spasmi ancora per qualche istante.

Avevo vinto: avevo sconfitto il Generale Supremo, e forse così facendo avevo fermato (o almeno rallentato) la guerra.
Ma non provavo nessuna gioia, nessuna euforia, nessuna soddisfazione.

Mi sollevai in piedi a fatica, venni colto da un violento capogiro e diedi di stomaco. Quando tentai di guardare il cadavere, fui di nuovo sopraffatto dall'emozione e vomitai ancora una volta, nonostante mi sentissi vuoto come il cielo dell'alba.

Avevo causato la morte di altre persone prima di allora, probabilmente. Ma nessuna in quel modo.

Sparare a un altro aereo e osservarlo mentre precipita è molto diverso dal dover sostenere lo sguardo sconvolto e terrorizzato della tua vittima.

Barcollando, portai la mano sinistra alla spalla opposta, dietro allo spallaccio a forma di bolla, e premetti il pulsante di eiezione. La forma globulare si separò in quattro pezzi, e io sfilai il braccio, finalmente libero, e gettai il Pungiglione lontano da me.

Quel giorno giurai a me stesso che non ne avrei mai più toccato uno.

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