64. La battaglia

ASHLIE

Duncan mi aveva fatto imparare il tragitto a memoria, ma se anche così non fosse stato, non avrei avuto comunque difficoltà: appena ci immettemmo nel corridoio principale, ci trovammo davanti un pannello che indicava la nostra posizione attuale, tutte le uscite e la strada da seguire per raggiungere i piani inferiori. Ad ogni biforcazione, c'erano cartelli che ci guidavano, e perfino le scale erano identificate da un segnale.

Secondo il nostro comandante, quasi nessuno le utilizzava, ragion per cui le avevamo preferite agli ascensori. Stando alle nostre informazioni, la regina era confinata nei propri appartamenti, al settimo livello.
Preso un profondo respiro, spalancai la porta che separava la tromba delle scale dal corridoio principale, e feci irruzione, subito imitata dai miei compagni.

Non eravamo ancora usciti tutti, però, che un nemico sbucò da un andito. Stava armeggiando con il suo dispositivo portatile, e non si accorse di noi finché non fu a meno di tre Steli. A quel punto sgranò gli occhi e spalancò la bocca. Alle mie spalle, i miei compagni imbracciarono le armi.

Il nuovo arrivato non era un soldato: indossava abiti civili e sembrava paralizzato dal terrore.

In quel momento mi sentii simile a lui: anche io ero piena di paura, anche se cercavo di far sembrare di avere la situazione sotto controllo.

«Non vogliamo farti del male.» mormorai, cercando di assumere un tono il più possibile rassicurante e, al contempo, allargando le braccia per tranquillizzare le mie truppe e tenerle a freno. «Se ci aiuti, ti prometto che poi ti lasceremo andare per la tua strada!»

Il poveretto alzò le mani in segno di resa e indietreggiò, in silenzio, camminando a ritroso fino a trovarsi quasi con le spalle al muro.

«So che potrebbe essere difficile da credere per te, ma noi siamo dalla tua parte!» proseguii.

Sempre senza dire una parola, con uno scatto repentino l'uomo stese il braccio e premette un pulsante rosso incastonato nella parete, che io non avevo notato. Gli schiocchi secchi delle nuove cerbottane rimbombarono nel corridoio, e almeno tre dardi raggiunsero il malcapitato, che si irrigidì e cadde, congelato nella posa che aveva assunto per azionare il dispositivo, come una statua spinta giù dal proprio piedistallo.

Il suono acuto e gracchiante di una sirena ci ferì le orecchie, accompagnato da una voce registrata che continuava a ripetere: "Emergenza all'anello sette! Emergenza all'anello sette!"

Mi voltai con aria colpevole, cercando Lin-Yu con lo sguardo, ma quella si strinse nelle spalle e sbraitò, cercando di farsi udire sopra quel frastuono: «Non è il momento per le recriminazioni! Dobbiamo andare avanti!»

Attraversammo correndo a perdifiato quei meandri sconosciuti, seguendo con fiducia le frecce per i "reali alloggi di Sua maestà".
Pensai che, in caso di invasione, sarebbe stato utile segnare un falso percorso per intrappolare i nemici, ma per fortuna io non ero un'Ape, e non comprendevo appieno la loro necessità di ordine. Nel Formicaio era l'opposto: era facile perdersi nei corridoi tutti uguali, o scambiare una anonima porta con un'altra, anche per chi ci era nato.

Ad ogni modo, era probabile che, per i nostri avversari, l'eventualità di un attacco che ne penetrasse le difese a tal punto dovesse essere tanto inconcepibile, da non avergli nemmeno fatto prendere in considerazione la questione.

Come il luogo in cui ero cresciuta, anche quello in cui ci trovavamo era una vera e propria metropoli al coperto, con le sue strade, i suoi negozi, le scorciatoie meno conosciute e i luoghi nascosti. Proprio da uno di questi sbucò una pattuglia: spada in mano, si lanciarono contro di noi, urlando come matti.
I nostri tiratori si portarono in prima linea, si disposero lungo due file, una delle quali in ginocchio, e cominciarono a sparare. I difensori vennero sbaragliati in un istante: la loro carica venne arrestata da una pioggia di dardi e quando, dopo un istante di smarrimento, ripiegarono in un ritirata disordinata, i nostri completarono l'opera.

Avevamo vinto quello scontro praticamente senza combattere, e con pochi rischi; osservando la massa di corpi inerti che giaceva a terra, mi resi conto che, in quel terribile momento, il modo di fare la guerra era appena cambiato per sempre.

***

Attraversammo di gran carriera quel dedalo di corridoi. Dopo un po', l'allarme smise di suonare, rendendoci più facile ragionare. Quando ero convinta che fossimo ormai prossimi alla meta, ci trovammo davanti un nuovo ostacolo: un secondo gruppo di militari, più numeroso e, stavolta, equipaggiato anche con i grossi scudi rotondi.

I difensori formarono con questi ultimi un muro invalicabile, quindi avanzarono con calma.

La scena di prima si ripeté, ma stavolta le freccette si conficcarono nelle protezioni, senza provocare danno.
«Tirate alle gambe!» Consigliò Lin-Yu, notando che i piedi sporgevano da quei ripari, quando i nemici camminavano; i nostri cambiarono bersaglio, cercando di concentrare i colpi nelle giunzioni tra i pezzi dell'armatura, dove era più facile che gli aghi penetrassero in profondità. Alcuni nemici caddero, rallentando l'avanzata dei compagni, che inciampavano sui loro corpi.

«Se vogliamo che le cerbottane siano efficaci, dobbiamo rompere lo schieramento! Avanti!» Sbraitò il capo delle Farfalle, impugnando la sua spada mentre correva verso una delle brecce che si erano aperte, là dove i nostri proiettili avevano scompaginato la schiera di scudi.

La imitai, subito seguita dalle mie Formiche e da alcuni dei nostri compagni più avvezzi al corpo a corpo. Sfondammo la linea nemica in tre punti, e ingaggiammo subito un serrato corpo a corpo.

I nemici lottarono per ricostruire un fronte compatto di scudi, ben consapevoli che quella era la loro unica possibilità di vittoria. Nel farlo, però, concentrarono tutte le attenzioni su di noi, dimenticandosi dei nostri commilitoni dotati di armi a distanza, che non smisero un attimo di prenderli di mira.

Messe in grossa difficoltà, le Api tentarono dapprima di indietreggiare e infine, incalzate dai nostri, sciolsero la formazione: la battaglia degenerò quindi in una rissa disordinata e violenta, con i nostri avversari che, esasperati, cercavano di colpire i tiratori, e quelli tra noi equipaggiati per lo scontro all'arma bianca che facevano di tutto per impedirglielo.

Quella era la prima azione a cui prendevo parte, e ne ero terrorizzata: i volti dei partecipanti erano maschere orribili, su cui la guerra dipingeva smorfie irripetibili di furore, odio, paura, incredulità, dolore estremo.

I sacerdoti del culto del Polline mi avevano insegnato che esso è ovunque, permea e circonda ogni luogo e ogni momento.
Eppure, ricordo di aver pensato che, se mai erano esistiti un dove e un quando in cui il Polline non è stato presente, io mi ci trovavo proprio in mezzo.
Era come se qualche entità maligna si fosse appropriata di quanto c'era di buono in quelle persone, e l'avesse nascosto lontano.

Io mi muovevo più per istinto che per ragionamento. Anziché essere concentrata sul momento e presente a me stessa, come durante gli allenamenti, la mia mente vagava lontano, mentre il mio corpo neutralizzava meccanicamente le stoccate e contrattaccava.

Un soldato nerboruto, con i capelli spruzzati di grigio, una cicatrice che gli attraversava la faccia dallo zigomo al mento e due braccia grosse come tronchi d'albero, però, mi costrinse a riscuotermi, attaccandomi con un micidiale fendente dall'alto verso il basso, accompagnato da un urlo selvaggio. Non c'era il tempo per tentare di schivarlo, quindi lo parai nell'unico modo possibile: sollevando con entrambe le mani l'asta in orizzontale davanti a me.

Il fendente la spezzò in due, rallentando solo un poco prima di terminare la sua corsa contro il robusto pettorale di cuoio, per fortuna senza provocare danni maggiori di una fastidiosa contusione. La violenza dell'impatto mi costrinse a indietreggiare; incalzata dall'avversario, mi ritrovai presto con le spalle al muro. Il soldato spostò l'arma nella mano sinistra, quindi attaccò di nuovo. Per istinto, intercettai la lama con il moncone dell'asta che stringevo nella destra, tentando un contrattacco debole e scoordinato con l'altro braccio.
L'Ape mi bloccò il polso con la mano libera, e lo torse finché non fui costretta a lasciar cadere la mia arma per il dolore. Cercai di liberarmi con una ginocchiata, ma l'altro fu lesto a spostarsi di lato. Con uno scatto repentino riuscì ad afferrarmi la gola, quindi con il proprio corpo compresse il mio contro la parete. In preda al panico, e già senza fiato, annaspai cercando di liberarmi, ma ero come un cucciolo di acaro tra le fauci di una scolopendra, e già le forze mi venivano meno.

«Ti guarderò negli occhi mentre muori, lurida negra!» Mi soffiò in faccia il mio aguzzino, un ghigno malvagio dipinto sul volto.
Feci un ulteriore, debole tentativo di sfuggire dalle sue grinfie, ma era tutto inutile. Come ultimo gesto di sfida e disprezzo, serrai forte le palpebre: almeno, non gli avrei permesso di portare a termine il suo perverso proposito.

Mi sembrò che il frastuono della battaglia si fosse affievolito. Al di sopra di esso, al mio orecchio giunse uno schiocco umido, e qualcosa di caldo mi schizzò sul viso. Quando decisi di ricominciare a guardare, la punta metallica di una spada, ricoperta di sangue, fuoriusciva dalla gola del mio mancato assassino.

Lin-Yu fece capolino alle sue spalle, lo spinse di lato, liberando la lama con uno strattone, quindi mi poggiò una mano sulla spalla e mi scosse leggermente.

«Tutto bene?»

Tossii forte, piegata in due, ansimando nel tentativo di far affluire di nuovo l'aria ai miei polmoni vuoti. Mi girava la testa, e dovetti ricorrere all'aiuto della Farfalla per riguadagnare la posizione eretta.

«Abbiamo vinto.» Mi informò lei. «Andiamo dalla regina, prima che ne arrivino altri. Con un po' di fortuna, se il diversivo ha funzionato come speravamo, la maggior parte dei nemici dovrebbe essere concentrata all'atrio degli ascensori, e passerà del tempo prima che ci raggiunga.»

Annuii, massaggiandomi la gola. Non mi sentivo pronta a parlare e, appoggiandomi a lei, cercai di raccapezzarmi e di ritrovare la strada. Il pavimento era cosparso di corpi; molti erano solo paralizzati, ma purtroppo erano numerosi anche i cadaveri, dei quali una discreta quantità apparteneva ai nostri compagni.

Trattenni a stento un conato di vomito: anche se sapevo che sarebbe potuto succedere, vederli lì, stesi a terra, mi spezzava il cuore.

«Prendi questa.» ordinò la mia compagna, porgendomi una spada corta e riscuotendomi dai miei pensieri. Tentai di obiettare, ma lei non volle sentire ragioni.
«Finiscila. Ti avevo ben avvertito di quanto fosse assurdo e pericoloso andare in battaglia con soltanto un bastone. Ora te ne sarai resa conto anche tu, spero!»

Ricevetti l'arma dalle sue mani con vaga ritrosia, più che altro perché in quel momento mi mancavano le energie per oppormi, e la seguii, con la consapevolezza che non sarei mai riuscita a usarla.

***

"Aprire! Affondare! Chiudere!"
La voce di Tossina scandiva il ritmo dei movimenti da compiere.
Gawayn non riusciva quasi a guardarlo, preso com'era dalla battaglia, ma saperlo al suo fianco gli faceva battere il cuore, nonostante la situazione.

"Farsi da parte!"

Il loro attacco aveva scompaginato le fila nemiche. Gawayn abbandonò lo scudo lungo il corpo e si girò di fianco, mentre i suoi compagni facevano lo stesso. Dai varchi aperti, come demoni inferociti, emersero gli Onischi, che massacrarono la prima linea delle Api.
I difensori indietreggiarono terrorizzati, tentando di riattestarsi circa sei steli più indietro.

I guerrieri d'oltrerovo tornarono alle retrovie, mentre l'ordine "Falange" rimbalzava lungo le pareti dell'Alveare.

Gawayn rimise lo scudo in posizione, facendolo combaciare con i due accanto.

Anziché avanzare, l'Esercito dei Popoli Liberi si limitò a rimanere lì, guardando in cagnesco gli avversari da dietro le protezioni. Più tempo costoro esitavano, meglio era.

"Coraggio, Ash!" pensò il capo meccanico. "Sbrigati!"

***

«La prego, sergente... ci lasci andare!»
«Vogliamo fare la nostra parte!»
«Non può impedirci di partecipare!»

O'Brian assunse un'espressione feroce. «Da quando un cadetto può decidere cosa posso o non posso fare?» ruggì.
Il ragazzino ammutolì sotto quello sguardo, ma un altro, leggermente più grande, insistette: «Non possiamo restare inattivi mentre la nostra Patria è sotto attacco! Dobbiamo intervenire!»

L'asso dell'aviazione li guardò: un gruppo di giovani solo parzialmente addestrati, senza nessuna esperienza. Quanta fretta di rischiare la vita, in una guerra che non era la loro e che si sarebbe potuta evitare!
Se li avesse davvero lasciati andare, quanti di loro non avrebbero mai fatto ritorno?

«Chi di voi idioti ha studiato le procedure da seguire per gli hangar, in caso di attacco?» domandò.
I ragazzi si guardarono l'un l'altro, con espressione smarrita.
O'Brian si sforzò di non sorridere. Nessuno, proprio come aveva immaginato.
Ciò significava che poteva inventare di sana pianta.

«Si dà il caso» spiegò «che la procedura preveda che, in caso di attacco, le truppe più prossime alla zona degli hangar si occupino della difesa della medesima, sigillandola e impedendone l'accesso ai nemici. Che, sorpresa, è proprio ciò che abbiamo fatto.»

Appena il segnale di allarme aveva cominciato a suonare, l'istruttore aveva bloccato tutti i portelli di accesso, per proteggere i suoi allievi.

Gli stessi che ora si guardavano l'un l'altro, perplessi.

«Volete uscire per fare la vostra parte? Voi la state già facendo, ed è una parte di primaria importanza: sorvegliare i nostri aeroplani!» continuò.
I giovani cominciarono a parlottare fitto tra loro.

«Certo, fosse dipeso da me, piuttosto che affidarvi la sorte dei nostri caccia, li avrei dati alle fiamme con le mie mani. Ma così dice la procedura, e un'Ape le segue sempre.» borbottò.
Come sempre succedeva, le sue parole riscaldarono gli animi, e accesero un vero e proprio dibattito su come dovessero fare per portare a termine l'incarico nel modo migliore, e di come la regina in persona gli sarebbe stata grata.
Ormai non pensavano più ad uscire.

"Finché stanno qui, sono al sicuro." pensò O'Brian. Quindi volse lo sguardo alla consolle, dove ancora il segnale d'allarme lampeggiava. "Duncan, non so cosa hai in mente, ma sarà meglio che ti sbrighi!"

***

L'istinto non mi aveva ingannata: ci trovavamo a pochi passi dall'appartamento reale.

Sul corridoio si affacciava una porta decorata con bassorilievi, del tutto simile a quella che avevo visto al Formicaio. Come quella, anch'essa raffigurava una figura mitologica, simbolo della civiltà delle Api: il Bee.
Affine all'Ant, esso aveva forme più allungate, e un paio di ali membranose simili a quelle dei velivoli volanti. Il corpo era stato dipinto color oro, mentre le venature delle ali erano di un blu elettrico.

Ai due lati di quell'ingresso, facevano la guardia due uomini.

Grossi e muscolosi, costoro indossavano una casacca completamente nera, con un casco dalla visiera scura. Un lungo mantello giallo gli drappeggiava la schiena, arrivando a sfiorare il pavimento. Appeso al fianco portavano uno spadone grande almeno il doppio del normale, tagliente da un solo lato e dalla forma leggermente arcuata.
Li riconobbi dalla descrizione che me ne aveva fatto Duncan: erano Pretoriapi, la guardia scelta della Regina; un corpo d'élite costituito dal meglio del meglio di quanto le truppe dell'Alveare potevano fornire.

Secondo il nostro capo, erano fedeli alla Corona e a nessun altro.

E allora, mi chiesi, come mai erano lì?

Nel frattempo, i nostri si allargarono, preparandosi ad attaccare. I difensori, impassibili, abbassarono le visiere e sfoderarono le loro enormi armi.

Il mio fidanzato mi aveva detto che i Pretoriapi erano guerrieri formidabili, alla stregua di Håvard: se era vero, rischiavamo di causare un massacro.
Forse avremmo vinto, ma a che prezzo?

Ero disposta a pagarlo?

Di nuovo, mi misi in mezzo tra i due schieramenti, allargando le braccia.

«Vi prego, non deve per forza andare così!» implorai. «Vogliamo solo parlare con la Regina!»
Lin-Yu mi tirò per un braccio. «Che stai facendo? Questo non è il momento per il dialogo! Hai visto cos'è successo prima, no?»
Mi scostai con uno strattone, feci un paio di passi verso il Pretoriape più vicino, quindi insistetti: «È davvero questione di vita o di morte. Fatemi parlare con lei!»

Lui sollevò la visiera. La sua espressione sembrava vagamente divertita, come se non stesse fronteggiando un esercito in condizioni di drammatica inferiorità numerica, ma ci fossimo appena incontrati a una bancarella.
«Immagino che tu non abbia un appuntamento, dico bene?»

Dietro di me, quello che restava della mia squadra d'assalto fremeva per passare all'azione. Se volevo avere una speranza di evitare spargimenti di sangue, dovevo risolvere in fretta.

«Ditemi una cosa.» tentai. «Voi siete fedeli alla Corona, oppure fate parte della congiura?»

I due guerrieri si guardarono l'un l'altro, quindi abbassarono le armi.

«Congiura?» chiese il primo. «Ma di che parli?»

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