63. Dall'interno
DUNCAN
Scendemmo tutti.
Visto dall'esterno, il nostro mezzo di trasporto faceva impressione: tappezzato di fori di proiettile e ammaccature, era davvero malridotto.
«Che ci facciamo qui?» chiese Takoda.
«Visto che non riusciamo a danneggiare questa macchina infernale dall'esterno, cercheremo di metterla fuori combattimento dall'interno.» La mia voce rimbombò nell'immenso ambiente in cui ci trovavamo. L'hangar era deserto, e mi ritrovai a sperare che il nostro ingresso fosse passato inosservato.
I miei compagni mi guardarono con curiosità, ma nessuno mosse obiezioni.
Ci irrigidimmo quando un altro velivolo fece il proprio ingresso rombando, ma si trattava di una Vespa, e non fui molto sorpreso quando a smontarne fu proprio Capitan Velluto.
«Che ci fai qui? Avevo dato ordini ben diversi!»
Lei si strinse nelle spalle. «Gli ordini mi vanno stretti: sono pur sempre un pirata. E comunque, vi serve qualcuno che stia di guardia ai mezzi, altrimenti perderete la vostra unica via di fuga.»
«E se i Fuchi dovessero rientrare?»
«Qualcosa mi inventerò. Ma ora muovetevi, non perdete tempo in modo stupido!»
Non avrei voluto dargliela vinta, ma aveva ragione: non c'era tempo da perdere. Non avevo una idea precisa di dove ci trovassimo, ma ero certo che non mancava molto per arrivare a tiro del Formicaio.
Tutti ci armammo: Havard brandì la sua immensa ascia, Takoda impugnò una cerbottana di Inigo per mano, e io attivai il Pungiglione; inoltre avevo a mia volta una cerbottana infilata nei pantaloni, dietro la schiena. Ci scambiammo un'occhiata carica di sottintesi, quindi sbloccai il portello che dava accesso all'interno e feci loro strada.
«Finalmente un ambiente che mi è più consono!» gioì l'Onisco, grato di non essere più recluso in una angusta cabina di pilotaggio. «Ma come faremo a sapere dove andare?»
«Non sarai uno di quelli che si vergogna a chiedere indicazioni, vero?» lo canzonò l'Idrometra.
Quasi non aveva finito di dirlo che, affrontando una curva dell'ampio corridoio, per poco non ci scontrammo con un'Ape.
«Fermo!» Intimai, mentre tutti e tre gli puntavamo contro le armi.
L'uomo alzò le mani balbettando frasi inintelligibili, terrorizzato.
La sua divisa lo identificava come un tecnico anziché un soldato: proprio quello di cui avevo bisogno. Avrebbe dovuto essere privo dell'orgoglio militare che ben conoscevo, e di conseguenza, speravo, più facile da intimidire.
«Dicci subito qual è la via più breve per raggiungere il ponte di comando!» ordinai, cercando di assumere un tono imperioso.
Sabotare i motori era un trucco che funzionava solo nei film: di certo, il percorso che portava alla sala macchine era sorvegliato, e comunque difficilmente si sarebbe trattato di una cosa semplice come tagliare un cavo.
Forse, però, potevamo ambire a dirottare l'aereo.
«Vi prego... Io non so... Non posso!» obiettò quello, con un filo di voce.
Rivolsi un cenno alla mia guardia del corpo e quella, capendomi al volo, fece un passo in avanti, strinse in una morsa la maglietta del malcapitato all'altezza del collo, e lo sollevò con un braccio solo, facendo lo stesso sforzo che sarebbe servito a me per reggere un cucciolo di acaro per la collottola.
«Mettimi giù!» strillò il malcapitato, in tono stridulo e acuto, scalciando selvaggiamente.
«Hai cinque secondi per dirgli ciò che vuole sapere.» disse Håvard «Dopo di che mi metterò a spezzarti ogni osso del corpo finché non ubbidisci... A cominciare dalle dita delle mani.» concluse, stringendo al contempo l'indice della sua vittima nella mano libera.
Se Håvard non fosse già stato abbastanza terribile con la sua imponenza, lo sguardo assassino che stava riservando alla sua vittima sarebbe stato sufficiente.
«Sicuro di riuscire ad arrivare fino a cinque tutto da solo? Se vuoi, ti aiuto...» scherzò Takoda.
«Quando avrò finito con lui, toccherà a te.» Lo gelò il guerriero, senza degnarlo nemmeno di un'occhiata.
L'aggressività nei confronti di quello che sembrava un suo compagno fu ciò che convinse del tutto il nostro prigioniero a collaborare.
«Dovete salire le scale fino al ponte C, poi seguite il corridoio principale fino alla fine.» spiegò, tutto d'un fiato. «Non potete sbagliarvi. L'unico modo per accedere alla plancia è con l'ascensore che troverete lì, però è sorvegliato...»
«Di questo non devi preoccuparti.» Gli assicurai, quindi aggiunsi, rivolto al suo aguzzino: «mettilo fuori combattimento, ma senza ucciderlo.»
Håvard lo depositò dolcemente a terra, quindi gli assestò un violento pugno in fronte, e il poveretto si afflosciò a terra come se qualcuno gli avesse sciolto le ossa; mi augurai che davvero l'avesse solo tramortito: anche se si era trattenuto, la sua mano era come il maglio di un fabbro.
Ci trovavamo in un luogo costruito dalle Api, quindi tutto era indicato in modo chiaro, e non era possibile sbagliarsi. Un cartello indicava il boccaporto che dava accesso alle scale; nonostante la maestosità del progetto, queste ultime risultarono essere anguste e claustrofobiche. Ogni pianerottolo era contraddistinto da una lettera, quindi nemmeno trovare il ponte C fu un problema.
Quando imboccammo il corridoio principale, però, ci rendemmo conto che non sarebbe stato possibile raggiungere di soppiatto il nostro obiettivo, dato che non c'erano né curve, né angoli, né altro modo di nascondersi.
Winthrop non era disposto a correre rischi, a quanto pareva: a presidiare l'unica via d'accesso al cervello dell'immensa macchina c'erano una quindicina di soldati.
Riuscimmo ad aprire la porta di un vano per la manutenzione, e a sbirciarli di là dietro senza metterli in allarme. Tuttavia, tra noi e loro c'erano ancora almeno una decina di steli di corridoio dritto e scoperto: coglierli di sorpresa era impensabile, a meno che non si addormentassero tutti.
«Proposte?»
«La prima cosa che faranno, vedendoci arrivare, sarà dare l'allarme e bloccare l'ascensore. Per come la vedo io, tu devi correre come una freccia, mentre noi li teniamo occupati.»
«Per una volta, mi tocca ammettere che il cespuglio rosso ha ragione.» intervenne Håvard prima che potessi ribattere. «Mi dispiace che tu debba affrontare da solo la sala di comando ma, se ce la giochiamo bene, dovresti avere l'effetto sorpresa dalla tua.»
«Non posso lasciarvi affrontare tutti quei nemici da soli!» protestai.
«Hai delle idee migliori da proporre?»
«Usiamo le nuove armi!»
Takoda scosse la testa. «Håvard non è capace, e comunque le cerbottane di Inigo hanno una gittata limitata: le guardie ci vedranno, e non otterremo comunque lo stesso effetto diversivo di una carica selvaggia.»
«Senza contare che una carica selvaggia è molto più onorevole.» osservò l'Onisco, con la chiara convinzione che quell'argomento ponesse fine alla conversazione.
Alla fine dovetti cedere: in effetti, mi sembrava il piano migliore che avevamo, senza contare che ogni istante che passava, rischiavamo che qualcuno ci notasse comunque.
Dopo esserci augurati buona fortuna, ci lanciammo in avanti.
Håvard si mise in testa, e noi gli tenemmo dietro, in fila indiana, nella speranza che la sua stazza mascherasse il nostro numero.
I sorveglianti non si aspettavano nessuna aggressione, erano annoiati e distratti: il Polline ci sorrise, e riuscimmo a coprire più di metà della distanza che ci separava, prima che si accorgessero di noi.
Quando cominciarono a gridare indicandoci, l'Onisco lanciò un fragoroso e terrificante urlo di guerra e accelerò, abbassando la testa e tenendo la sua immensa arma di traverso davanti a sé. Travolse i nemici più avanzati come fossero stati birilli, quindi si sollevò, fece roteare l'ascia sopra la testa e l'abbatté, ferendo tre nemici in un unico movimento.
Takoda si fermò un paio di passi più indietro, le armi spianate, ma senza sapere come prendere di mira i nemici senza rischiare di colpire anche l'alleato, ora impegnato in un furibondo corpo a corpo.
Io sfrecciai lungo la parete dell'ampio corridoio, accanto a quella carneficina, correndo come mai avevo fatto prima d'allora.
L'ascensore distava solo pochi passi dalla battaglia, e il pulsante era illuminato, segno che la cabina si trovava già a quel piano. Lo raggiunsi, premetti il bottone, e guardai le porte aprirsi: nessun campanello, nessuna musichetta; solo la composta, silenziosa efficienza tipica di ogni oggetto costruito dal mio popolo.
Indugiai sull'ingresso, scrutando i miei amici ancora una volta.
Rimasi sorpreso ancora una volta dai movimenti di Håvard: vedendolo così spropositatamente grosso, si era portati a pensare che fosse anche lento. Invece passava da un avversario ad un altro con la grazia di un danzatore, manovrando quel pesante pezzo di metallo come se fosse stato un fuscello.
Le Api cercavano di tenersi a distanza di sicurezza e attaccarlo sfruttando la punta delle loro spade, ma l'Onisco infrangeva la loro guardia e si riavvicinava. Quando anche una di loro riusciva a colpirlo, l'arma scivolava sull'armatura, senza fare danni.
Takoda aveva appoggiato un ginocchio a terra, alcuni passi più indietro, e di tanto in tanto, quando era certo di avere una buona visuale, sparava un colpo. La vittima si irrigidiva per un istante lì dove si trovava, quindi crollava a terra con un tonfo sordo.
Entrai nella cabina. Stavo per ordinare la salita all'ascensore, quando notai l'ufficiale in comando che arretrava e, impugnato il suo Pungiglione, lo impostava in modalità di tiro.
Prima che avessi il tempo di fare qualcosa, prese di mira il mastodontico guerriero.
Il primo proiettile lo raggiunse al centro del petto, ma perfino da quella distanza mi accorsi subito che la formidabile corazza aveva assorbito gran parte dell'urto, causandogli al massimo un bel livido. Ebbe però l'effetto di farlo fermare, guardandosi intorno alla ricerca di quella minaccia mentre, con una mano, sfiorava il corpo estraneo rimasto incastonato nell'armatura.
Il secondo sparo lo colse alla base del collo, proprio alla congiunzione tra il pettorale e l'elmo.
Håvard vacillò, fece qualche passo indietro barcollando, quindi cadde a sedere, con un fragore che rimbombò per tutto il corridoio.
«Noooo!» Gridai, con quanto fiato avevo in corpo.
L'ufficiale si volse, mi vide e, riprendendosi dalla sorpresa con una rapidità degna di nota, puntò l'arma su di me. Ebbi giusto il tempo di gettarmi a terra, all'angolo della cabina, che gli ultimi due puntali del Pungiglione si conficcarono profondamente nella parete di fondo.
Accucciandomi, premetti l'unico tasto presente, e le porte cominciarono a chiudersi.
«Fermo!» Intimò il comandante, correndo nel tentativo di bloccarle.
L'ultima cosa che riuscii a vedere, fu Takoda che avanzava con passo deciso, sparando in tutte le direzioni.
L'ascensore si mise in moto e prese velocità, quindi si arrestò così di botto da farmi perdere l'equilibrio, e le luci si spensero. In quel momento potevo solo fare illazioni su quello che stava succedendo.
In seguito, Takoda mi avrebbe raccontato che, mentre lui finiva sia i proiettili che gli avversari, l'ufficiale aveva inserito un codice di blocco sulla pulsantiera, mettendo fuori uso il meccanismo. Lui, però, non gli aveva dato la possibilità anche di attivare l'allarme: liberatosi delle cerbottane, aveva impugnato i suoi coltelli, aveva affrontato il nemico e l'aveva sconfitto.
Ma c'era anche dell'altro, che in quel momento non potevo sapere.
Nel poco tempo che trascorsi in quella buia e angusta cabina a pianificare le mie mosse, Håvard esalò l'ultimo respiro.
L'uomo che aveva votato la sua esistenza alla mia protezione morì in uno scontro di poco conto, nel corridoio di un aereo, anziché nella battaglia campale dei suoi sogni.
E io non ebbi nemmeno la possibilità di dirgli addio.
SPAZIO AUTORE
E due.
Quanto mi odiate?
Una guerra in cui non muore nessuno, purtroppo, non è credibile.
Il nostro vichingo era una vera e propria macchina da guerra, e l'unico modo per abbatterlo è decisamente "poco onorevole", come direbbe lui.
A volte, il destino è crudele e si accanisce sulle persone: il guerriero Onisco è scampato alle bestie feroci, solo per finire la sua corsa a bordo del Calabrone.
Ma il suo sacrificio non è stato inutile: Duncan è riuscito a entrare nell'ascensore...
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