58. In un modo o nell'altro
HUDSON
La terrazza del secondo anello, all'Alveare, offriva una vista forse meno spettacolare di quelle ai livelli superiori. Tuttavia, essendo sovrastata dal resto della struttura, era l'unica a mantenersi asciutta anche con il peggior maltempo.
Un tuono particolarmente forte fece vibrare la portafinestra, rimasta socchiusa. Con un grugnito, il tenente Hudson si svegliò, si inginocchiò e diede di stomaco.
Provò una ad una le quattro bottiglie sparpagliate intorno a sé, ma erano tutte vuote. Si alzò quindi barcollando e mosse qualche passo incerto verso il parapetto, ma dovette fermarsi per vomitare di nuovo.
«Che vita inutile.» mugugnò con la voce impastata, appoggiandosi di peso alla balaustra.
Stava ancora diluviando. Le gocce di pioggia gli passavano davanti, riflettendo la luce che arrivava dal corridoio, e si tuffavano nel vuoto a gran velocità, una dopo l'altra.
Le guardò affascinato per un po', in silenzio.
"Se fossi anche io una gocciolina, avrei un'esistenza breve." rifletté. "Una corsa verso il basso, e poi sarebbe tutto finito. Niente rimorsi, niente sensi di colpa..."
Si sporse oltre la ringhiera: il buio era talmente fitto, che sembrava di trovarsi in cima a un pozzo senza fondo.
«È un bel salto da qui, eh?»
Credeva di essere solo e, suo malgrado, quella voce inaspettata lo fece sobbalzare. Socchiuse gli occhi per cercare di mettere a fuoco la sagoma in controluce, ma fu colto da un capogiro così violento da rischiare di perdere l'equilibrio. Si strinse al corrimano con forza e scosse la testa, nel vano tentativo di schiarirsi le idee.
Il sergente O'Brian gli si mise accanto, appoggiandosi con i gomiti al bordo.
«Ero certo di trovarti qui.»
«Mi cercavi?» gracchiò il tenente, con la voce talmente roca che lui stesso stentò a riconoscerla.
L'altro si strinse nelle spalle. «Non esattamente. Ero sveglio, e ho pensato che magari lo eri anche tu.»
Senza aggiungere altro, gli porse una fiaschetta.
Hudson la prese, la stappò e tracannò alcune grandi sorsate, grato di quella gentilezza.
Poi sputò tossicchiando, disgustato. «Che diavolo è?»
«Un tonico antisbronza. Ricetta della nonna.»
«Fatti gli affari tuoi.» sbottò, irritato, mentre gli rendeva il contenitore in malo modo.
«Sai, è da parecchio tempo che me ne sto sempre per conto mio. A farmi i miei affari.»
«E dovevi smettere... proprio oggi!» obiettò il superiore, senza poter trattenere un fragoroso rutto nel bel mezzo della frase, forse dovuto alla medicina.
«Reputo la maggior parte degli ufficiali un branco di idioti senza cervello.» proseguì l'altro, ignorandolo. «Mentre preferisco non dare mai troppa confidenza ai miei allievi. Voglio che rimanga il giusto confine tra loro e l'insegnante.»
Rimasero in silenzio per un po'. Vedendo che il suo ospite non sembrava intenzionato a intervenire, O'Brian riprese: «In queste settimane, tu sei diventato la cosa più simile a un amico che io abbia avuto da molto tempo.»
«Buon per te.» Il tonico stava facendo effetto, al punto che ora il tenente stava valutando se azzardare un altro goccio. Gli pareva di riuscire già a ragionare in modo più chiaro.
«Credo dipenda dal fatto che ci assomigliamo molto.» proseguì il suo compagno.
«Cioè, anche io sono un pedante rompiscatole logorroico?»
«Anche tu stai cercando il modo di fare ammenda.»
«Smettila di fare lo strizzacervelli dilettante. Lasciami in pace!» Fece per andarsene, ma si mosse troppo in fretta e perse l'equilibrio: sarebbe senz'altro caduto, se il sergente non l'avesse sostenuto.
«Vieni, ti accompagno ai tuoi alloggi.»
«Stammi bene a sentire: noi non siamo amiconi. Chiaro? Io sono tuo superiore, e ti ordino di lasciarmi!»
O'Brian lo ignorò, e continuò a sorreggerlo mentre attraversavano l'uscio, lasciandosi alle spalle il temporale.
Appena furono nel corridoio, l'altro se lo scrollò malamente di dosso.
«Da qui proseguo da solo.» concluse, appoggiandosi alla parete con una mano.
«Permettimi un consiglio. Il dolore che provi non ha una soluzione nel breve periodo. Cerca di non prendere scorciatoie.»
«E cosa vorrebbe dire? Caspita, l'ultima cosa che mi serve in questo momento, è un maledetto enigma!»
«D'accordo, proverò a semplificare il concetto. Non fare niente di stupido. Per favore.»
***
Si svegliò con la sgradevole sensazione d'essersi appena coricato.
Aprì gli occhi: fuori era ancora buio pesto, ma il suo subconscio aveva registrato qualcosa per cui valeva la pena di interrompere il sonno.
Si tirò a sedere. La testa gli doleva come se qualcuno vi avesse infilato dentro un enorme spillo, e ad ogni più piccolo movimento lo facesse ruotare dentro il suo cranio.
O il preparato che O'Brian gli aveva offerto non aveva funzionato affatto, o preferiva non immaginare come sarebbe stato, senza.
Ciondolò fino alla finestra, e la spalancò. L'aria fresca lo fece subito sentire meglio, riducendo il senso di nausea. Sbatté gli occhi un paio di volte, prima di riuscire a mettere a fuoco la causa del suo risveglio: aveva smesso di piovere.
Il cielo era ancora pezzato di nuvoloni grigi, ma già diverse stelle erano riuscite a fare capolino.
Diede un'occhiata all'orologio da polso: le tre e mezza. Aveva dormito poco più di due ore, realizzò sconfortato.
Di lì a poco, di certo il generale supremo l'avrebbe mandato a chiamare, per sovrintendere agli ultimi preparativi prima del decollo.
Con un sospiro, andò a farsi una doccia.
Nel bene o nel male, le prossime ore sarebbero state decisive.
***
Nel grande hangar del Calabrone ferveva l'attività. L'immenso macchinario occupava quasi per intero lo spazio dell'ultimo anello, l'unico a comunicare direttamente con le Lande Rocciose.
Un tempo, quel locale era adibito a magazzino per attrezzature e ricambi, inoltre ospitava gli impianti che, dai grandi silos, trasferivano ovunque ce ne fosse bisogno il combustibile ottenuto dal nettare raffinato. I serbatoi erano per tre quarti interrati, e i fondatori li avevano posizionati lassù in cima per tenerli al sicuro. Nessun mezzo nemico, infatti, avrebbe potuto avvicinarsi senza essere individuato per tempo, e gli unici abitanti di quei territori in gran parte inesplorati, le Forbicine, costituivano un popolo alquanto primitivo, che non nutriva alcun interesse per il prezioso liquido, né poteva rappresentare un pericolo.
Ciononostante Winthrop, da giovane, aveva fatto del suo meglio per sterminarlo.
Hudson era rimasto molto colpito da come il dittatore fosse riuscito a portare avanti il suo progetto nel più assoluto riserbo: gli ingegneri avevano creato una sorta di corridoio separato per le tubature e gli sbocchi all'esterno, vietando l'accesso al resto del locale.
Eppure, il mostruoso aereo era proprio lì, sopra alle teste di tutti, e alla regina sarebbe bastato ordinare a qualcuno di aprirle la porta, per scoprirlo.
Quando l'aveva fatto notare al comandante in capo, questi era scoppiato a ridere.
«Sapete come si dice: se vuoi nascondere qualcosa, tienila bene in vista!» aveva esclamato, baldanzoso. «Nessuno immaginerebbe mai che qualcosa di illecito venga realizzato proprio all'interno dell'Alveare! Le attività al suolo, al contrario, sono minuziosamente monitorate.»
Ogni dieci minuti, da un altoparlante gracchiava una voce che scandiva il tempo mancante al decollo, ricordando che non si trattava di un'esercitazione. Il velivolo era pronto da giorni, ma i tecnici si affannavano lo stesso con tutta una serie di controlli, mentre i piloti sovrintendevano al caricamento dei propri Fuchi: usciti in volo dai propri ricoveri meno di un'ora prima, essi erano atterrati sul terreno antistante e ora, con le ali ripiegate all'indietro, venivano trainati con esasperante lentezza nel ventre di quella bestia metallica.
Hudson svolse alacremente le proprie mansioni, senza mai perdere di vista il proprio bersaglio, attendendo il momento propizio. L'obiettivo, però, era sempre attorniato dai suoi generali, alcuni dei quali erano di ottimo umore e scoppiavano spesso a ridere, come se stessero per andare a fare una scampagnata, invece che a uccidere migliaia di persone.
Quando tutti i preparativi furono ultimati, capì di non poter più aspettare e, preso il coraggio a due mani, intercettò Winthrop sulla scaletta, un attimo prima che si imbarcasse.
«Ah! Il mio buon tenente!» lo salutò questi con entusiasmo. «Vi stavo tenendo d'occhio: oggi siete stato un esempio di efficienza per tutti.»
«Grazie, signor generale.» replicò lui, a disagio. «Vi stavo cercando.»
«Ebbene, mi avete trovato.»
Hudson esitò. Per non insospettire la sua vittima, non indossava il Pungiglione, ma aveva nascosto un pugnale dentro la cintura, dietro la schiena.
«Non riesco ad accettare del tutto questa missione, signore.» spiegò, portando la mano destra all'impugnatura dell'arma.
«La vostra coscienza si ribella all'idea di spegnere così tante vite umane. Lo capisco, è giusto. Anzi, persino bello. È la dimostrazione che ne possedete una.»
«Siamo ancora in tempo per fermarci.»
«È vero.» Concordò il comandante. «Ma non lo faremo.»
Hudson studiò l'espressione del suo interlocutore: era serio, ma sembrava conciliante.
Si era sforzato di dipingerlo nella sua mente come il male assoluto. Ma quella era pur sempre la persona che l'aveva affascinato, il cui grandioso progetto poteva portare stabilità e prosperità all'intero continente. In quel momento capì che il problema non era lui, ma la gente di cui si era circondato: persona abituate a dirgli sempre sì.
Forse aveva solo bisogno di qualcuno che gli indicasse la strada giusta, che con sincerità gli ricordasse che sì, poteva rivelarsi necessario l'uso della forza per convincere gli altri popoli ad accettare la guida illuminata delle Api, ma c'erano dei limiti.
«Niente giustifica un massacro come quello che stiamo per compiere. Stiamo parlando di genocidio!» tentò.
«Il nostro ruolo ci impone degli obblighi, amico mio. Se vogliamo elevare le altre tribù dalla barbarie, dobbiamo esser pronti a fare tutto ciò che è necessario.»
«Come potremo condurli alla civiltà, se saranno morti?»
«Non dimenticate che l'obiettivo finale è avere il mondo intero sotto il nostro controllo, non solo l'Immensità. Per riuscire a far questo, ci servono nuove risorse, nuove armi, più soldati... Non è qualcosa che si possa ottenere dall'oggi al domani, né senza sacrifici.»
«Di soldati. Ma quelle persone sono innocenti!»
«Nessuno lo è davvero. Tutti non siamo altro che il prodotto delle scelte che facciamo.»
Hudson guardò negli occhi il suo superiore, smarrito. Non era più così sicuro di poterlo dissuadere e, ora che aveva perso l'impeto, non era certo nemmeno di poter andare fino in fondo col suo piano originario. Accarezzò l'elsa del coltello. Ricordò il giorno in cui gli era stato proposto il sogno di un mondo retto da ordine e disciplina, in cui il popolo degli eletti sarebbe stato d'esempio e ispirazione per gli altri.
Non poteva rinunciare senza almeno un ultimo tentativo. «Lo scopo che perseguiamo è nobile e giusto, ma il metodo che abbiamo scelto per conseguirlo è sbagliato.»
L'altoparlante scandì per l'ennesima volta il tempo rimasto.
Il generale supremo cominciava a spazientirsi. «E quindi, tenente? Volete tirarvi indietro? Volete rassegnare le dimissioni?»
Sgranò gli occhi, sbalordito. Era davvero così facile? Magari non sarebbe riuscito a impedire l'attacco, ma forse poteva almeno evitare di prendervi parte.
«Le accetterebbe?» domandò.
L'altro non rispose, ma sfoderò un sorriso incoraggiante.
«Devo considerarmi agli arresti fino alla fine dell'operazione?»
«Agli arresti!» rise il generale, poggiandogli la mano sinistra sulla spalla come un padre premuroso. «Non potrei mai mettere in prigione uno dei miei più stretti collaboratori!»
Hudson si rilassò, e il braccio, che fino a un attimo prima era pronto a impugnare l'arma, scivolò mollemente lungo il fianco.
Non si era sbagliato concedendo la sua fiducia a quella persona: piuttosto che ordinargli qualcosa che andava contro le sue convinzioni, era disposto a lasciarlo andare.
«Grazie, signore.» Mormorò, commosso.
Accadde tutto in un attimo.
Winthrop intensificò la stretta sulla spalla del tenente, quindi attivò il Pungiglione, richiamò la lama a scatto, e la conficcò per tutta la lunghezza nel ventre di Hudson.
Quest'ultimo spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi, portando entrambe le mani alla ferita.
Durante la campagna contro le Forbicine, il generale si era fatto modificare l'arma, in modo che il coltello fuoriuscisse automaticamente appena veniva accesa, senza bisogno di selezionarlo. A suo dire, questo gli aveva salvato la vita più di una volta, nelle missioni di guerriglia a terra.
«Nel mio esercito non esistono dimissioni, vigliacco!» sbraitò.
Il sottoposto fece per agguantare il proprio pugnale, ma il generale ruotò il polso, torcendogli le viscere col metallo affilato, e provocandogli fitte così dolorose da impedirgli di fare altro che piegarsi in due urlando.
«La pena per la diserzione è la morte.» sentenziò il carnefice.
Poggiò un piede sul busto dell'avversario, estrasse l'arma con un violento strattone, quindi lo spinse con la gamba, facendolo rotolare giù per la scaletta d'imbarco.
«Goditi il decollo... Immagino che sarà uno spettacolo, da così vicino. Bello da morire.» mormorò. Quindi scomparve all'interno dello scompartimento.
Hudson cercò di alzarsi in piedi, ma le gambe non gli rispondevano come avrebbero dovuto. Si sollevò, puntellandosi con un gomito. Sulla pancia, il sangue gli sgusciava tra le dita della mano, con la quale tentava inutilmente di tamponare l'emorragia. Sentiva le forze fluire via insieme ai suoi liquidi corporei.
Con uno scatto secco, il soffitto a volta del vasto ambiente si separò e prese ad aprirsi, rivelando il cielo ancora scuro, ma che già conteneva le prime promesse del giorno nascente.
Poi il pavimento vibrò e, con un suono basso e inquietante, un sollevatore idraulico cominciò a far salire la piattaforma su cui l'enorme aeromobile stava poggiato.
Una gru apparve accanto al mostro, issando un carico pesante: un motore grande come quattro Fuchi messi assieme. Lo posizionò esattamente nel centro dello scafo, sul dorso dell'aereo. Alcuni tecnici si affannarono per alcuni momenti intorno ad esso, quindi un braccio meccanico venne direzionato in quel punto, con il connettore di uno spesso cavo elettrico nel manipolatore.
Gli ingegneri lo collegarono al propulsore, che si attivò con un sibilo d'intensità crescente. Prima in modo quasi impercettibile, poi con sempre maggior convinzione, le mastodontiche ali membranose si spalancarono e si tesero, assumendo la posizione di volo. Erano quattro: ognuna era lunga come otto ali di Fuco messe una accanto all'altra, ed era servita da una coppia di motori, tanta era la potenza necessaria a mantenerla in movimento.
Dopo che la gru ebbe rimosso il verricello elettrico, anche i motori a combustione vennero accesi, liberando nuvolette di fumo marrone scuro nell'aria.
Hudson li ascoltò prendere rapidamente giri e generare un frastuono insopportabile. Quando vennero collegati alla trasmissione, calarono fino quasi a fermarsi, ma solo per un istante.
In un attimo, riacquistarono confidenza, man mano che le ali cominciavano a vibrare, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta.
Ci volle quasi un minuto perché tutti e otto i motori girassero in modo armonico, e le ali vibrassero all'unisono. Ma alla fine, la fortezza volante era pronta a compiere il suo volo inaugurale.
Il frastuono era assordante, e le oscillazioni si riverberavano sulla piattaforma, facendo tremare il povero tenente come una foglia, e causandogli una tempesta di dolore al ventre, sotto forma di fitte che si susseguivano ininterrottamente. Tentò di nuovo di alzarsi e riuscì a muovere una gamba, ma scivolò sul suo stesso sangue e ricadde pesantemente, gemendo.
Il pensiero corse all'amico fraterno, alle incomprensioni, ai momenti del recente passato che li avevano visti contrapposti: la fuga, il duello a bordo del Bombo.
Lui aveva assistito inerte mentre il suo velivolo veniva abbattuto; Duncan, al contrario, aveva rischiato la propria vita per portarlo al sicuro, anziché lasciarlo precipitare insieme a quell'aereo imbottito di esplosivo.
Lo rivide in piedi sopra a quell'autobus, intento ad aiutare le persone, incurante dei rischi, in piedi mentre le pallottole gli fischiavano intorno.
Il boato crebbe d'intensità, il Calabrone cominciò a muoversi in avanti.
Hudson si ricordò di tutte le volte in cui aveva insultato la fidanzata di Duncan.
Com'è che si chiamava? Ariel? No, Halley. Lei sognava una società in cui tutti avevano gli stessi diritti. Sciocchezze. Ingenuità. Come poteva una stupida Formica avanzare simili pretese!
E lui? Lui aveva combattuto per un mondo in cui nessuno ne avrebbe avuti, dicendosi che lo faceva per dare un futuro migliore ai popoli inferiori.
Invece li stavano solo uccidendo o rendendo schiavi.
«Ho sbagliato tutto.» mormorò, tossendo. Sentì le lacrime scivolargli lungo le guance, senza sapere se a generarle fosse il dolore fisico o quello dell'anima.
L'enorme aeroplano rullò lungo la piattaforma, prendendo velocità. Giganteschi bracci robotici avevano usato i pannelli del tetto per assemblare una sorta di scivolo, che avrebbe fatto da pista di decollo, conducendo il Calabrone oltre l'Alveare e la parete di roccia, nel cielo.
Il tenente voltò la testa, e si rese conto di essere sulla traiettoria di uno dei carrelli.
Le ruote, grandi quanto un Atta, giravano sempre più in fretta man mano che il velivolo accelerava, e puntavano su di lui come crudeli predatori.
Se anche fosse riuscito a trovare le forze di rialzarsi, in quelle condizioni non aveva nessuna possibilità di spostarsi in tempo per evitarle. Si sentiva esausto, senza più il desiderio di lottare. La vista cominciava già ad annebbiarglisi, la parte più periferica del suo campo visivo era tutta sfocata e vibrante.
Il suo più grande rammarico, si rese conto, era di non potersi scusare con l'amico.
Forse lui sarebbe riuscito a porre fine a quella follia.
«Che il Polline ti protegga, Duncan. Possa la vittoria esserti amica.» pregò ad alta voce.
Poi appoggiò la testa al pavimento, e chiuse gli occhi.
SPAZIO AUTORE
Ok, lo so che avevo promesso di sospendere questi spazi, per risparmiare tempo.
Ma non posso andar via senza spendere nemmeno una parola alla morte di Hudson.
Ve lo aspettavate?
Ce l'ho messa davvero tutta nello scrivere questo pezzo, e mi sono anche commosso un po', mentre lo facevo. Spero vi sia piaciuto.
In un romanzo di avventura che parla di guerra, era impensabile cavarsela senza nemmeno una perdita.
Fin dall'inizio, quando ho deciso di raccontare questa storia, volevo raggiungere due obiettivi: parlare di alcuni argomenti senza fare la morale (la follia della guerra, l'ambientalismo, la diversità e la tolleranza) e creare dei personaggi non troppo bidimensionali, meno infantili di quelli che costruisco di solito.
Hudson è nato così. Non è né buono, né cattivo: ha fatto delle scelte sbagliate e, nonostante i consigli di O'Brian, finisce col pagarne il prezzo più alto.
Se ho fatto le cose per bene, dovrebbe dispiacervi almeno un po' per lui.
Che il Polline abbia pietà della sua anima!
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