57. Sotto una pioggia battente (Terza parte)

ASHLIE 

Per fortuna, nessuna goccia ci colpì in pieno, e riuscimmo a guadagnare la dubbia protezione di un balcone.

«E adesso? Non possiamo mica bussare alla finestra e chiedere di Jacinta!» Protestò il Maresciallo.
«Oh! Ma voi due siete una fabbrica di idee geniali!» Esclamai, ridacchiando. E, prima che qualcuno potesse impedirmelo, battei tre colpi in rapida successione sul vetro.

Una corpulenta donna di mezza età venne ad aprire quasi subito, interrompendo il fastidioso coro di proteste che avevo suscitato nei miei compagni.
Se fu sorpresa di trovarsi di fronte due Formiche, non lo diede a vedere.

«Che ci fate qui a quest'ora? Il locale è chiuso!» ci informò, infastidita.

«Siamo amici di Jacinta, abbiamo bisogno di parlare con lei.» Spiegai, cercando di apparire determinata senza però allarmarla.
«Le ragazze stanno riposando. E comunque, non è concesso ricevere visite nella casa.» ritorse l'altra, apprestandosi al contempo a richiudere l'anta.
«È un'emergenza» Insistetti, cercando di impedirglielo. «La prego, non glielo chiederei se non fosse davvero importante!»
Vedendola esitare, soggiunsi: «Le prometto che saremo silenziosi e rapidissimi!»

La sconosciuta serrò del tutto l'imposta, si spostò alla portafinestra accanto e la spalancò, ma, prima di invitarmi a entrare, mi sventolò sotto il naso un dito intimidatorio e si raccomandò: «cinque minuti, non di più!»

La ringraziai con tutto l'entusiasmo di cui ero capace.

Quando i miei due accompagnatori fecero per seguirmi, però, la donna li fermò, posando una mano aperta sul petto di Tossina e sentenziando, in un tono che non ammetteva repliche: «Niente uomini!»
«Ma...» Tentò il Maresciallo.

Per tutta risposta, la donna gli sbatté l'uscio in faccia e lo sprangò.

Non ero certa che l'informatrice sarebbe stata disposta a trattare con una sconosciuta: avevamo sempre ritenuto indispensabile la presenza del capo dei nostri Ragni, che era il suo principale riferimento.

Tuttavia, guardando in faccia la mia attuale interlocutrice, mi resi conto che non era disposta a fare altre concessioni.
Avrei dovuto cavarmela da sola.

***

L'ambiente in cui venni introdotta era un'unica stanza a pianta quadrata. La maggior parte dello spazio era occupato da un'accozzaglia di sedie, tavolini, divani e poltrone, di stili tra loro lontani.
Alla mia destra c'era l'ingresso principale, mentre il lato opposto a quello in cui mi trovavo ospitava un palco di legno. Poco distante dall'entrata c'era un'ampia scalinata che conduceva ai piani superiori. Un ballatoio correva su tre lati del grande edificio, le balaustre erano lucide e ornate da lampadine ora spente, che io immaginai di molti colori. Qui si affacciava una serie di porte, tutte diverse tra loro per colore e decorazioni. Con un moto di ribrezzo, compresi che quello doveva essere lo stratagemma adottato per far sì che i clienti potessero individuare la camera della propria ospite.

La mia guida mi condusse fino a una porta verde sbiadito, impreziosita da fregi dorati raffiguranti animali mitologici avvinghiati in improbabili amplessi. Nel vedere l'illustrazione di un gigantesco Spider, una creatura dal corpo tozzo e peloso, dotata di otto zampe e otto occhi, che circuiva un minuscolo Ant, sentii lo stomaco rivoltarsi.

Anche se ero certa della risposta, mi sorpresi a domandarmi se Duncan avesse mai frequentato un luogo come quello.

Prima di lasciarmi, la mia guida mi ammonì nuovamente: «cinque minuti!», quindi si precipitò giù per le scale, impaziente di tornare a tenere d'occhio i miei compagni.

Dopo aver bussato due volte senza ottenere risposta, entrai, richiudendo l'uscio alle mie spalle.

La minuscola camera sembrava arredata da un cieco: il copriletto era arancione e rosso, l'armadio giallo acceso, i muri verdi e le pesanti tende viola scuro. Sopra a un comò bianco, consumato dal tempo e dai parassiti, faceva bella mostra di sé un grosso specchio, adornato da una cornice tutta fregi e fronzoli di colore rosa acceso, pacchiana perfino ai miei occhi, che poco si intendevano di arte.

La ragazza stava seduta a gambe incrociate sul letto, che aveva disseminato di fotografie, grafici e ritagli di giornale. Era bellissima: la carnagione e i tratti del volto la identificavano subito come appartenente all'etnia dei Ragni, cosa che forse spiegava perché si fosse messa in contatto proprio con quel popolo. Perfino da quella posizione rilassata, si poteva percepire che il suo corpo era perfettamente proporzionato; inoltre aveva la pelle più liscia che avessi mai visto. Una voluminosa cascata di riccioli castano scuro le adombrava in parte il volto, tutto preso dall'attività che stava svolgendo. Aveva zigomi e mento pronunciato, labbra sottili, e due grandi occhi color nocciola.

«Isabel, lo sai che se entri nella mia stanza senza permesso ne paghi le conseguenze!» brontolò, senza sollevare lo sguardo. Quando si rese conto che né rispondevo né me ne andavo, mi dedicò infine la sua attenzione, sospirando come se le costasse molta fatica.

«Sei nuova?» domandò perplessa, inarcando un sopracciglio mentre mi squadrava da capo a piedi.
Mi affrettai a scuotere le mani. «No, non sono una...» Esitai, non sapendo bene come continuare.
«Mi manda...» Tentai allora, ma finii col bloccarmi ancora una volta, rendendomi conto che, proprio come per la donna chiamata Velluto, non conoscevo il nome della persona che volevo citare: non ero mai andata oltre il grado.

«Hai cinque secondi per spiegarti, dopodiché ti butterò fuori a calci nel sedere!»
«Sono qui con il Maresciallo dei Ragni. Abbiamo bisogno del tuo aiuto.»

Per un brevissimo istante, la giovane sgranò gli occhi, quindi riassunse la sua maschera altera e riprese a dedicarsi al suo lavoro, di qualunque cosa si trattasse.

«Non so di cosa stai parlando. E adesso, sparisci!»

Sospirai. Non sapeva se poteva fidarsi di me, e io non potevo certo biasimarla. Del resto, non ero in possesso di nessun codice o parola d'ordine per dimostrarle che non stavo cercando di incastrarla. Non me ne ero preoccupata, dato che avevamo con noi il Maresciallo. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fossi stata stupida, a non prevedere che qualcosa potesse andare storto.

Pensai che non avrebbe mai potuto fidarsi di me, se prima io non avessi fatto altrettanto con lei, quindi decisi di essere sincera.

«Siamo qui per attaccare l'Alveare, e porre fine a questa inutile guerra. Ma non possiamo farcela senza di te!» esclamai.
«Follia.» Commentò lei, guardando di nuovo verso di me. «L'Alveare è inespugnabile. Piuttosto, se qualcuno davvero volesse colpire le Api, dovrebbe preoccuparsi di un'altra minaccia.»

Immaginai che mi stesse mettendo alla prova, per verificare di quali informazioni fossi in possesso.

«Del Calabrone si occuperà la nostra aviazione.» risposi.
Jacinta mi studiò per un lungo momento, quindi chiese: «Cosa vuoi da me?»

«Devi organizzare una sommossa nei pressi dell'ascensore. Protestate per la guerra, o per gli orari di lavoro, non importa. Ma dovete essere in tanti, abbastanza da indurre la guarnigione a chiedere rinforzi e far scendere la cabina. A quel punto interverremo noi, neutralizzeremo i soldati e ci impadroniremo del montacarichi prima che qualcuno si accorga di cosa stia succedendo.»

«Siete pazzi, e il vostro piano è una pazzia. Non funzionerà mai.»

«Funzionerà.» le assicurai. «Ma soltanto se potremo contare sull'effetto sorpresa, grazie al tuo diversivo. Se i soldati scoprono che ci sono dei nemici, sigilleranno la via d'accesso, abbandonando il corpo di guardia al proprio destino. È la procedura.»
Duncan ce l'aveva spiegato.

«Chi ti dice che non lo faranno lo stesso?» Obiettò, guardandomi di traverso.
«Ci aspettiamo che intervengano per sedare la rivolta. Riteniamo che...»
«Ritenete, pensate, ipotizzate... La realtà è che si tratta solo di una bella scommessa. E la posta sono le nostre pelli!»
«Non abbiamo certezze, è vero, ma senza rischio non si ottengono risultati.» notai.
L'altra si strinse nelle spalle. «Fate rischiare qualcun altro, allora. Io mi tiro fuori.»
«Non abbiamo il tempo per cercare altri contatti! Tra poco smetterà di piovere, e senza di te...»
«E io, che cosa ci guadagno?»

La richiesta mi spiazzò: credevo che avrei avuto a che fare con un'idealista, non ero pronta a mercanteggiare.
La mia sorpresa dovette riflettersi anche sul mio viso, perché Jacinta scoppiò a ridere. «Credevi che rischiassi la pelle solo per la gloria?»

«Non posso prometterti molto.» ammisi. «Ma stiamo lottando per un mondo diverso. Per una società equa e giusta. E se ci appoggi, di sicuro...»

La giovane balzò giù dal letto con un unico movimento sinuoso, quindi mi diede le spalle, mentre cominciava a riporre dentro a una scatola di cartone tutto il materiale che stava studiando. «Smamma adesso, o chiamo la sicurezza. E non scherzo.» intimò, senza voltarsi.

Frastornata, con la testa che mi girava, cercai di restare concentrata, di non farmi prendere dallo sconforto.

Da quella conversazione poteva dipendere l'esito dell'intera missione, e io stavo sprecando la mia occasione.

Cosa potevo fare?

Durante una delle nostre amabili chiacchierate, Elphitephoros aveva lodato l'opera di Duncan, sostenendo di avere molto in comune con lui. "Il segreto è capire chi hai di fronte." Mi aveva detto. "Vedi, tutte le persone hanno un punto, nel profondo della loro anima, che puoi usare per smuoverle. Può essere qualcosa che amano o che odiano, qualcosa che temono o che desiderano. Ma se tu trovi quel punto, e ci infili dentro la leva giusta... allora puoi convincerle a fare qualsiasi cosa!"

Ma io non avevo idea di dove trovarlo in Jacinta, né di quale leva avrei potuto usare su di lei. Non sapevo nulla sul suo conto, e lei mi stava cacciando, quindi non mi restava altro tempo per farmi un'opinione.

Cosa avrebbe potuto farle cambiare idea?

Pensai a me. Cosa avevo detto a Duncan, quella sera? Che questo non era il mondo in cui avrei voluto veder crescere i nostri discendenti. Forse...

«Non vorresti che tua figlia possa crescere in un mondo in cui tutti abbiano le stesse possibilità?» domandai.

Jacinta s'irrigidì, e la scatola le sfuggì di mano, cadde sul pavimento e si aprì, sparpagliando il contenuto.
Con agilità sorprendente, la prostituta raccolse qualcosa dal letto, quindi si gettò su di me.
Non feci in tempo a fare nulla: il suo impeto furioso mi travolse e, mentre mi schiacciava contro la porta con tutto il suo peso, sentii qualcosa di freddo e appuntito premermi sulla gola.

«Cosa sai tu di mia figlia, bastarda!» ruggì, con voce resa roca e gutturale dall'emozione, minacciandomi con un paio di forbici.
«Non... non sapevo nemmeno che ne avessi una!» protestai. «Dicevo in via ipotetica!»
In effetti, non avrei saputo dire perché mai avessi parlato al femminile. Era come se le parole fossero uscite da sole.
«Se sai dov'è, devi dirmelo!» insistette lei, con voce rotta dall'emozione.

L'occhio mi cadde sul contenuto della cassetta, ormai disperso sul pavimento. Ed eccola, la leva di cui avevo bisogno. Perché quello era senza dubbio materiale raccolto in anni di ricerche, e ora intuivo quale fosse l'obiettivo.

«Te l'hanno portata via, non è così?»

Con un verso esasperato, una via di mezzo tra un urlo di dolore e un ringhio animalesco, Jacinta tolse l'arma dalla mia gola e la sollevò alta dietro la testa.
Ero abbastanza sicura che non mi avrebbe colpito, ciononostante cercai di anticiparla: feci un mezzo passo in avanti e la sbilanciai, infilando la mia gamba avanzata in mezzo alle sue, e facendole lo sgambetto.
Lei non cadde, ma perse l'equilibrio per un tempo sufficiente a permettermi di afferrarle il polso armato. Quando lo torsi violentemente, lei lasciò andare le forbici.

Appena la liberai si ritrasse, massaggiandosi l'estremità offesa e fissandomi con aperto astio.

«Sono stati i tuoi... datori di lavoro?» provai a sondare il terreno, con la voce più dolce di cui ero capace.
Lei scosse energicamente la testa. «No. A loro stava bene, anzi: mi avevano messo a disposizione uno sgabuzzino dove potevo lasciarla a dormire, quando lavoravo. Sapevano che avrebbero potuto usarla per ricattarmi, ma a me non importava. Mi bastava sapere che stava bene, e che eravamo insieme.»

Con movimenti lenti, mostrandole sempre le mani, recuperai l'utensile tagliente e lo posai sul vicino comò. «E dopo, cosa è successo?» la incoraggiai.
«Un giorno le Ancelle del Polline sono venute qui. Hanno detto che una creatura innocente non poteva crescere in un ambiente simile, e... me l'hanno strappata dalle braccia!» Non fece nemmeno il tentativo di trattenere le lacrime. «Da allora non l'ho più vista.»
«Ma hai una pista.» considerai, chinandomi per raccogliere un ritaglio di giornale contenente l'intervista a un'Ancella di alto grado, dal titolo "Dare un futuro a chi è nato senza".

«È l'unico motivo per cui non sono ancora scappata da questo cesso di posto.» ammise.

Mi sentii una brutta persona ad approfittare del dolore di quella sventurata, ma c'era troppo in gioco. Con un sospiro, infilai la leva e la azionai: «Fai quello di cui abbiamo bisogno, e io ti prometto che userò tutte le forze che è in mio potere muovere, per aiutarti a ritrovarla.»

Lei mi studiò a lungo, in silenzio. Infine si strinse nelle spalle, e mi porse la mano.
«Al diavolo, ci sto.»
«Sei sicura di poter radunare abbastanza gente?» mi preoccupai, ricambiando la sua stretta.
«Oh, tesoro» ridacchiò lei «Non puoi nemmeno immaginare quanta gente ci sia che non vede l'ora di prendere a cazzotti in faccia le Api, qui!»

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