56. Il passato di Elphitephoros

DUNCAN

Il giorno seguente ci svegliammo all'alba. C'erano ancora molte cose da definire, se volevamo essere pronti per il mattino seguente.

Per prima cosa, dovevamo selezionare i componenti del nostro neonato stormo da guerra.

Radunai tutti i candidati nel cortile del Bazar Cetoniano.

Innanzitutto, feci riprovare quelli tra i nostri che mi erano sembrati più meritevoli. Stavolta però io non salii a bordo, ma provai a comporli in veri equipaggi. Con le barche lasciate dalle Idrometre, che nel frattempo avevamo recuperato e ormeggiato al Bazar, disponemmo una serie di casse e barili al largo, quindi chiesi agli aspiranti piloti di colpirne il maggior numero possibile in un unico passaggio. Poi li disposi in squadre da tre e ordinai loro di inseguirsi a vicenda, per vedere se riuscivano a mettere in atto almeno le più basilari manovre evasive.

Al termine di quella sorta di esame, mi sentii di confermare soltanto Enola e Niyol. La giovane era una discreta tiratrice, mentre lui dimostrava una certa affinità per l'aria. Probabilmente essere una coppia anche nella vita faceva sì che avessero una buona intesa.

Poi fu la volta dei pirati. Molti di loro si lamentarono che le Zanzare erano brutte, e dichiararono di non essere disposti a cambiare velivolo prima ancora di eseguire il test; ad ogni modo, nessuno tra quelli selezionati da Capitan Velluto riuscì a resistere alla tentazione di provare un nuovo modello.

Assistemmo ad uno spettacolo di ben altra risma: in meno di un minuto, le uniche cose che galleggiavano sul mare erano detriti e frammenti, e nessuno riusciva a seguire la scia di un altro aereo per più di qualche secondo.

Non forzai nessuno tra i bucanieri: accettai solo chi si era davvero innamorato del nuovo mezzo, e non provai nemmeno a insistere con chi, nonostante tutto, preferiva restare con il proprio apparecchio. I comandi potevano essere leggermente diversi, e a noi servivano piloti perfettamente a loro agio, se volevamo sperare di avere qualche speranza contro i Fuchi da guerra.

Era ormai quasi mezzogiorno quando finii di assegnare tutte le squadre e congedai gli uomini, dando il permesso a chi lo desiderava di continuare ad allenarsi. Fino a quel momento ero stato troppo occupato per accorgermi che il sole non si era ancora fatto vedere: il cielo era un'unica massa plumbea, come se qualcuno vi avesse steso sopra un immenso tappeto grigio scuro.

Richiamai vicino a me il fido Takoda, che non si allontanava mai tanto da rischiare di non udire la mia voce, e gli domandai: «credi che pioverà?»
Lui rovesciò la testa all'indietro e annusò l'aria, socchiudendo gli occhi.
Una volta di più, mi ritrovai a invidiare il suo rapporto genuino con la natura, che il mio popolo aveva perso di pari passo con l'avanzare del progresso tecnologico.
«Il vento è umido. La sabbia non si solleva, e gli acari non cantano.» osservò. «È quasi certo che pioverà prima di sera.» decretò infine.

La mia mente cominciò a galoppare, mentre vagliavo ogni implicazione e possibilità.

Il piano che avevamo concordato prevedeva che il grosso del nostro esercito partisse nel pomeriggio con tutti i mezzi di terra disponibili, con l'obiettivo di raggiungere l'Alveare nottetempo e mettere in atto un attacco a sorpresa il mattino seguente.
Una volta conquistato l'ascensore, una parte della nostra forza d'invasione avrebbe percorso corridoi e accessi secondari per raggiungere gli alloggi reali e liberare la Regina.

L'idea che avevo concepito in origine, però, era ben diversa, ma ero stato costretto a scartarla per mancanza di tempo. Tuttavia, la pioggia rischiava di rimettere tutto in discussione.

Le gocce d'acqua più grandi potevano rovesciare perfino un veicolo grosso come un Atta, e i mezzi su ruote non potevano procedere nel fango. Alle Api non sarebbe andata molto meglio: con l'inerzia che accumulava, ogni goccia diventava un proiettile che poteva fare a brandelli qualsiasi apparecchio. Come se non bastasse, l'umidità, accumulandosi sulle membrane alari, le appesantiva, facendole afflosciare e rendendole inadatte a sostenere il volo.

Il maltempo era il più grande nemico dell'aviazione, l'unico contro cui non si poteva combattere.

Non avevo idea di quanto fosse potente il Calabrone: per quanto ne sapevo, poteva anche essere immune a queste problematiche. Ciò di cui ero sicuro, però, era che Winthrop non era uno stupido, e nemmeno un pazzo. Non avrebbe mai rischiato di lanciare un attacco dal grande valore propagandistico come quello, senza poter disporre della versatilità dei suoi fuchi.
Tuttavia, noi avevamo molto più di lui da rimettere in quella situazione: una volta sgombro, il cielo sarebbe stato immediatamente percorribile, mentre il fango non si asciugava all'istante.

«Mi sta venendo un'idea folle.» comunicai al mio compagno. Era un azzardo, certo, ma se la pioggia durava abbastanza lungo...
«La follia è imprevedibile. Una mossa inattesa potrebbe sorprendere il nemico.» osservò Takoda.
Gli sorrisi grato, ma in quel momento non cercavo appoggio incondizionato: avevo bisogno di qualcuno che smontasse la mia tattica, che mi aiutasse a individuarne tutti i punti deboli, in modo da poter fare una valutazione tra rischi e benefici.
«Ti va di provare a parlarmene?» Mi incoraggiò.
«Lo farò strada facendo.» tagliai corto.
Non mancava molto alla partenza delle truppe di terra: se volevamo ridiscutere il piano, dovevamo farlo il prima possibile. «Forza, dobbiamo...» mi bloccai a metà.

Elphitephoros ci stava venendo incontro e, dal modo in cui si sbracciava, era evidente che voleva parlarci.
«Vuoi che mi fermi io a sentire di cosa ha bisogno?» Si offrì l'Idrometra.
Scossi la testa. Anche se nutrivo profonda fiducia in lui, non volevo rischiare di perdere inutilmente tempo facendo correre messaggeri avanti e indietro, nel caso avesse avuto necessità di consultarsi con me.
Avevamo scelto, infatti, di non utilizzare la radio né il teledialogatore per paura delle intercettazioni, ma ora che anche i minuti contavano mi sembrava di star pagando cara quella decisione.

«Corri al quartier generale e convoca un consiglio di guerra d'emergenza. Ti raggiungerò appena posso.» Takoda fece un cenno d'assenso con la testa e si dileguò; io mi feci incontro al commerciante.
«È così ci siamo, eh?» Sospirò, appena fu a portata di voce, sforzandosi di riprendere fiato.
«Già.»
«Ho rischiato molto, appoggiandovi. Se la vostra impresa fallisce, sarò rovinato.»
«Lo saresti stato in ogni caso.» osservai.
«Forse.»
«Che c'è, stai rimpiangendo le tue scelte?»
«È solo che... Se le cose vanno male, non avrò nessuna garanzia.»

Lo fissai per un attimo, studiando la sua espressione.
Cosa voleva che gli dicessi? Cosa si aspettava da quella conversazione?

«Lo capisco, ma non posso darti garanzie; non potrò risarcirti, se sarò morto. Hai fatto una scommessa, un investimento ad alto rischio. Adesso è tardi per tirarsi indietro.»
«Lo so, hai ragione.»
«E poi, se le cose vanno male puoi sempre tornartene a casa, giusto?» Lo provocai.
Studiai la sua reazione, ma lui non fece una piega. «Magari potessi!»

Cosa c'era sotto? Ero forse io che, a causa della guerra, stavo diventando talmente diffidente da sembrare paranoico?

«Sai, sono andato di persona a Favo.» interloquii, dandogli l'impressione di voler cambiare argomento.
«Me l'hanno detto.» lo vidi illuminarsi. «Che splendida dimostrazione di coraggio! Non per niente ti soprannominano "il Temerario"!»
«C'erano delle navi, ancorate ai moli dell'isola. Gente senza scrupoli, disposta a fare affari con i pirati, pur di guadagnare.»
«Sporchi sciacalli!» inveì lui.
Alcune non le conoscevo, ma uno era senza dubbio un brigantino Cetoniano.» vidi per la prima volta scalfirsi la sua maschera imperturbabile, quindi proseguii: «Non ne capisco granché di navigazione, ma sono abbastanza sicuro che, se riescono a raggiungere Favo, per i tuoi concittadini non dovrebbe essere un grosso problema arrivare fino a qui.»
«Sei proprio sicuro che venisse da Cetonia? Magari è stato venduto... o rubato!»

«Non è questo il punto.» lo fissai dritto negli occhi. «Potevi andartene in qualsiasi momento. Magari non subito, con le tasche vuote e un futuro incerto. Ma da un certo punto in avanti, la tua ricchezza sarebbe stata più che sufficiente per comprarti un passaggio, e anche per convincere i bucanieri a guardare da un'altra parte, mentre passavi. Mi sbaglio?»

«Il problema è che...» iniziò Elphitephoros, ma poi si bloccò, rimanendo a bocca spalancata.

«La guerra ha ridotto drasticamente la mia tolleranza ai misteri.» constatai. «Perché sei rimasto per tua scelta, ma ti lamenti di non potertene andare? Ho fatto male a fidarmi di te?»

Anziché rispondermi, l'uomo girò sui tacchi, con un gran frusciare delle sue vesti variopinte. Percorsi pochi passi, però, mi invitò a seguirlo con un gesto. «Questa è una storia che si ascolta più volentieri con una tazza di tè tra le mani.»

***

A casa di Elphitephoros c'era un samovar elettrico costantemente in funzione, sempre pronto a soddisfare la sua inesauribile voglia di tè.

Rimasi in silenzio mentre, con mani esperte, il mercante versava l'acqua e vi aggiungeva la sua speciale miscela di foglie triturate e spezie varie. Infine mi porse la bevanda fumante, e si perse con lo sguardo nella propria, facendo ordine tra i ricordi.

«Non sono chi fingo di essere.» esordì, sospirando. «Ero davvero a bordo del VLR, il Vettore a Lungo Raggio che precipitò sulla tua terra dieci anni fa. Ma non ero un diplomatico, né un commerciante.» esitò. «Ero soltanto l'assistente personale dell'ambasciatore. Il suo segretario.»
«Volevi portare a termine l'incarico al posto suo, assumendotene il merito?» indagai, soffiando sulla scodella.
«No. Anzi, a dire il vero, la missione non avrebbe nemmeno dovuto svolgersi qui: il nostro obiettivo erano i territori oltre la giungla d'erba, a ovest.»

«Non c'è nulla da quella parte.» obiettai. «La foresta si estende all'infinito.»

Lui abbozzò un sorriso a mezza bocca che trovai irritante, quindi proseguì come se non avessi detto nulla. «Per secoli Cetonia ha cercato di instaurare rapporti commerciali e politici con i popoli dell'Immensità, ma alla fine ha rinunciato.»

«Ma perché mentire sulla tua identità?»

Lui si lasciò sfuggire una smorfia contrariata. «Chi avrebbe mai dato peso a un infimo burocrate di una lontana potenza straniera?» sorbì rumorosamente un abbondante sorso di infuso, quindi proseguì: «un mercante in missione diplomatica, unico superstite di un disastro aereo, suscita molto più interesse.»
«Mi manca ancora qualche tassello, però. Perché darsi tanta pena per costruire il tuo avamposto commerciale, se volevi andartene?»
«All'inizio avevo semplicemente bisogno di pagarmi il passaggio. Sapevo che i pirati commerciavano con noi, quindi provai a contattarli.»

«E...?» lo incoraggiai.

«Non accettarono garanzie, nemmeno quando gli assicurai che, dall'altra parte, c'era qualcuno disposto a coprire le spese per il mio rientro.» si alzò in piedi e si affacciò alla finestra, dal lato del mare. Dalla mia poltroncina riuscivo a intravedere le onde scintillanti che si infrangevano contro il molo, facendo ondeggiare pigramente le chiatte su cui avevamo ammassato tutta la merce.
«Avevo bisogno di accumulare ricchezze. Così cominciai con i primi scambi, i primi baratti. Mi accaparravo cianfrusaglie inutili da una tribù, magari in cambio di lavori umili o, talvolta, perfino di qualche storia o canzone.»
Si voltò e, notando la mia espressione scettica, puntualizzò: «Ho decisamente una bella voce. Ho cantato anche al Conservatorio di Cetonia, se non ti dispiace.»

«Non intendevo metterlo in dubbio.» replicai, con un vago senso di vergogna. «Perdonami. Prosegui, ti prego.»

«Ottenevo queste cose, dicevo, e li rivendevo alle altre tribù, talvolta spacciandole per oggetti caratteristici o esagerando le doti del precedente proprietario. E mi offrivo di trasportare qualsiasi cosa.» si perse di nuovo con lo sguardo oltre il mare, mentre ricordava ciò che aveva tutta l'aria di essere stato un esordio difficile.

«Per oltre due anni vissi come un ambulante. Alla fine però, notai che gli abitanti attendevano con ansia il mio arrivo, con le cose da scambiare già in mano.» sorrise. «A quel punto, i tempi erano maturi per far passare la tua gente dal baratto alla valuta. Ne inventai una tutta mia, che chiamai "Immenso" in onore del luogo in cui era nata. A ripensarci oggi, tutti si abituarono molto in fretta: fu davvero notevole il poco tempo necessario per una tale rivoluzione.»

Riflettei sulle sue parole. Per quanto ne sapevo, le Api erano l'unico popolo ad aver coniato una propria moneta, ma essa non aveva nessun valore per gli altri: i rari scambi che avvenivano all'esterno si basavano sempre e solo sul baratto. Elphitephoros aveva saputo costruire una rete così solida che il suo denaro era riconosciuto ovunque nel continente.
Mi ricordai che, poco prima della mia partenza, avevo sentito un giovane ufficiale lamentarsi perché la prostituta che gli piaceva voleva essere pagata in Immensi, e lui non sapeva come cambiarli senza dover dare troppe spiegazioni.

«Creai il mio magazzino in un luogo remoto, affacciato sul mare. Assunsi delle persone da varie tribù, affinché si occupassero dei trasporti, mentre io cominciai a passare sempre più tempo a gestire l'impresa. Erano trascorsi ormai cinque anni dall'incidente, quando Capitan Strappagrida venne a dirmi che era pronto a organizzare il mio rientro, in cambio di tutta la merce che possedevo.»

Strappagrida? Doveva essere un predecessore di Velluto. In effetti, il suo nome era molto più "da pirata."

«Non vedevo l'ora di tornare a casa. Eppure, d'impulso, rifiutai: dopo tanta fatica, non tolleravo l'idea che loro si prendessero tutto.» si grattò il collo con tale impeto che per un attimo temetti di veder scorrere il sangue. Quindi riprese: «Realizzai solo in seguito le implicazioni di quella decisione. I pirati bombardarono il mio bazar, all'epoca del tutto indifeso, distruggendone gran parte e uccidendo alcuni dei miei dipendenti. Con i superstiti e la merce che non si era incendiata, mi rifugiai ad Aràcnia, dove assoldai il mio corpo di guardia e proposi a tutti gli ingegneri e i tecnici che incontrai di unirsi a me. Qualche mese dopo tornammo al bazar, lo ricostruimmo, lo fortificammo. Edificai il primo laboratorio, e cominciammo a lavorare su dei nuovi veicoli volanti adatti al trasporto merci, rifacendoci ai disegni dei Ditteri, i veri pionieri dell'aria.»

Ero talmente affascinato che avevo scordato l'infuso. Quel racconto stava incrementando ulteriormente la stima che avevo per quell'uomo, per ciò che aveva saputo costruire.
Ma ancora non intuivo il motivo di quella messinscena.

Lui me lo lesse in faccia.

«Arrivò il giorno in cui mi guardai attorno, e mi resi davvero conto di cosa stavo realizzando: una rete commerciale che univa tutti i popoli dell'Immensità. Ciò che Cetonia tentava di fare da secoli, senza riuscirci!»
Cominciavo a capire. «E questo ti porterà grandi onori, quando tornerai in patria.» tentai.
«Oh, puoi scommetterci!» esclamò lui di rimando, raggiante. «La gilda dei mercanti mi supplicherà in ginocchio di aggregarmi. E probabilmente verrò nominato ambasciatore.»
«Allora... il veicolo adatto a solcare il Mar Pozzanghera...»
«È davvero allo studio, naturalmente. Non posso fidarmi dei pirati.» esitò, vagamente imbarazzato. Forse anche lui pensava che ci fosse qualcosa tra me e Velluto.
Lo incoraggiai a proseguire con un gesto.

«Diciamo soltanto che per il momento non è un progetto prioritario. Quando avrò raggiunto tutti gli obiettivi che mi sono posto, potrò tornare a casa, e farmi acclamare.»
«La guerra però ha messo tutto in discussione. Ha minacciato il tuo piano, ha rischiato di mettere fine a ogni cosa.»

«Esatto. Avere l'intero continente sotto un unico regime vorrebbe dire la fine di ogni scambio commerciale, di ogni trasporto... e perfino di ogni libertà. Pensa alla mia città della scienza: qui chiunque può fare ricerca ed esperimenti sull'argomento che preferisce, senza nessun tipo di costrizioni. Se Winthrop vincesse...»
Annuii. Non c'era bisogno di finire la frase: probabilmente, il generale supremo avrebbe distrutto ogni cosa, deportato gli scienziati all'Alveare, e li avrebbe costretti a lavorare su qualche progetto militare.

«Cosa volevi dirmi di preciso, prima?» volli sapere, a quel punto. Infatti, se da un lato la chiacchierata mi aveva rivelato molto sul mio generoso sponsor, dall'altro continuavo a non capire cosa si aspettava da me.

Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so nemmeno io.» ammise. Quindi mi rivolse un sorriso. «Forse era il mio modo per dirti di mettercela tutta.»
Ridacchiai, alzandomi in piedi. «Allora sarà meglio che vada.»
Elphitephoros mi accompagnò fino alla porta ma, prima che potessi uscire, mi afferrò con forza per una spalla. «Non perdere, Duncan. C'è troppo in gioco.»

Era così teso che non seppi davvero cosa rispondere, e alla fine mi limitai a restituirgli la stretta.

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