45. L'arma finale
DUNCAN
Se come conseguenza dell'aumentato numero dei nostri seguaci speravo di vedere ottimismo, soddisfazione o anche solo apprezzamento sui volti dei presenti, ero destinato a rimanere deluso. Gli sguardi che mi venivano restituiti erano impassibili, escluso quello di Ash, che brillava, nemmeno fossi una meravigliosa stella da ammirare.
Quanto avrei voluto avere una minuscola scintilla della sua fiducia in me! In realtà, mi sentivo spaesato, totalmente inadeguato a portare a termine quel che mi si chiedeva.
Avrei preferito che fosse stata lei a parlare: del resto, l'intera Resistenza era una sua idea!
Ma ormai le carte erano state distribuite, e a me era stata data quella del comando, fintanto che nessuno avesse capito che non la meritavo.
Riassunsi le condizioni che avevo concordato con Elphitephoros, risultato del quale ero personalmente orgoglioso. Ma non ricevetti nessun segno di approvazione: solo qualche grugnito e commenti a mezza voce, proferiti con il tono di chi non si aspettava niente di meno.
«Almeno non soffriremo la fame.» commentò Douglas.
«E cosa dovremmo farcene di tutti quei civili, oltre a riempirgli la pancia?» volle sapere Tossina.
«L'idea è che, mentre i soldati si addestrano, loro si dedicheranno a tutti gli altri compiti: pulire, riordinare, pensare alla cucina e alle manutenzioni... in questo modo, le reclute potranno concentrarsi esclusivamente sulle loro mansioni.»
Crollò il silenzio, e io sentii il mio cuore accelerare i battiti. Quelli erano veterani, soldati di carriera: come potevo pretendere di avere idee migliori delle loro?
«È sensato.» concesse infine Tossina. «Abbiamo poco tempo per essere pronti, e ogni minuto che un militare impiega in compiti diversi dalla propria formazione, è perso. Sfruttiamo questo aiuto e facciamo convergere tutte le nostre forze nella preparazione delle reclute.»
Dovetti sforzarmi per non lasciar andare un sospiro di sollievo. Ash mi sorrise, e io distolsi lo sguardo per non tradire la mia insicurezza.
«Il maresciallo Felipe, di Aràcnia, ha delle importanti novità da condividere con noi.» ripresi, e mi feci leggermente da parte, lasciandogli la parola, grato per quell'attimo di respiro.
Si trattava dello stesso poliziotto che ci aveva arrestati, in città.
Lisciandosi i baffi, costui s'impossessò dell'attenzione generale.
«Come forse già saprete, Aràcnia è stata bombardata dalle Api. Il secondo attacco ha causato ingenti danni a edifici e infrastrutture. Ogni bene primario oggi scarseggia: molte zone sono senza elettricità, o senza acqua, o entrambe. Numerose gallerie sono crollate o comunque inagibili, quindi alcuni allevamenti di acari da carne dovranno essere abbandonati, e presto anche i viveri si faranno scarsi. La cosa peggiore è che i vertici della nostra società si sono dati alla macchia, e la città è in preda all'anarchia. Io ho preso il comando di chi era desideroso di conservare una parvenza di ordine, ma la situazione si è fatta subito ingestibile: la gente si azzuffa per un pezzo di pane o si è asserragliata in casa e, come avete visto, molti hanno deciso di tentare la fortuna altrove. Così, alla fine, anche noi abbiamo deciso di abbandonare Aràcnia e di unirci a voi.»
Fece una pausa ad effetto, posando lo sguardo ora su uno ora su un altro dei presenti, quasi volesse sfidarli a smentirlo. Poiché nessuno ne aveva intenzione, riprese. «Ma questa non è la cosa peggiore. Anche venendo qui, ho fatto in modo di mantenere i contatti con i nostri infiltrati all'Alveare... e c'è una grossa notizia che nessuno può permettersi di ignorare.»
Il fatto che ci fossero delle spie nell'Alveare mi era ancora difficile da accettare. Felipe mi aveva spiegato che il suo contatto principale era una giovane di una casa di piacere, nel quartiere povero che si era sviluppato intorno alle nostre fabbriche. Se già le condizioni in cui quegli sventurati erano costretti a vivere avrebbero dovuto essere motivo di vergogna per il mio popolo, il fatto che molti alti ufficiali si trastullassero con queste ragazze di ogni etnia, spesso portate a prostituirsi dagli eventi, era davvero indegno.
La donna in questione vendeva informazioni al miglior offerente per costruirsi un futuro diverso, ma il Maresciallo non sembrava avere il minimo dubbio sull'affidabilità della sua fonte.
«L'aviazione delle Api ha sviluppato una nuova macchina volante. Non ne sappiamo molto, ma pare che sia diversa da qualsiasi cosa si sia vista in cielo fino ad adesso. La chiamano "l'arma finale".»
«Il nome non è rassicurante.» commentò Takoda.
«Pare sia tanto grande da poter trasportare missili enormi. Abbastanza da distruggere una città intera.» proseguì Felipe.
«Questo cambia tutto.» mormorò Tossina.
Il Maresciallo annuì. «Dobbiamo essere pronti ad agire in qualsiasi momento. Se l'arma finale decolla, non ci sarà più un luogo in cui scappare. La scelta sarà tra sottomettersi o morire, proprio come ha scritto quel maledetto Winthrop nei suoi biglietti.»
Crollò un silenzio teso, mentre ci guardavamo l'un l'altro.
«Quante possibilità ci sono che queste informazioni siano inesatte? O peggio, che siano un falso, messo in circolazione da Winthrop stesso, apposta per confonderci e intimorirci?» volle sapere Tossina.
Felipe sembrava sicuro del fatto suo. «Questo informatore ci passa notizie da almeno tre anni, e nessuna si è mai rivelata inattendibile.»
«Ascoltate. Per quanto tutto questo sia terribile, io credo che il piano non sia cambiato.» m'intromisi.
«Avete un piano?»
«Non nei dettagli, non ancora.» balbettai, a disagio. «Quel di cui eravamo già certi, è che avremo solo un tentativo: un attacco lampo, inaspettato, con una strategia tale da far sì che il nostro numero esiguo non conti. E ora sappiamo anche un'altra cosa...»
«Cosa?»
«Che la nostra azione dovrà includere il sabotaggio di questa... "arma finale".»
La tensione era fastidiosa. Tutti avevamo ben chiaro cosa andava fatto, ma nessuno aveva ancora un'idea precisa del come.
Ma io avevo ancora una sorpresa in serbo per loro, che speravo potesse migliorare l'umore.
«Inigo!» chiamai. «Entra!»
L'armaiolo scostò il bordo della tenda e fece il proprio ingresso. Aveva un'espressione vagamente contrariata, come al solito, e portava un fagotto cilindrico tra le mani, poco più corto del braccio di un uomo.
«Questo Ragno è un artigiano di grande maestria ed esperienza.» lo presentai. «Gli ho chiesto di realizzare una mia idea, che potrebbe darci un vantaggio decisivo.»
L'ometto s'impettì, gonfiando il petto. «L'idea sarà pure dell'Ape, ma l'invenzione porterà il mio nome. Eravamo d'accordo.» puntualizzò.
Mi affrettai a confermare. «Signore e signori, ecco a voi la cerbottana di Inigo!»
Con le labbra tirate per l'emozione, il vecchietto svolse il pacchetto.
L'arma aveva un'impugnatura ergonomica, simile a quella di una balestra, ma più corta. Al centro, proprio sopra al grilletto, c'era un grosso tamburo circolare, collegato a una canna metallica.
«Può sparare sei dardi prima di dover essere ricaricato: due in più del goffo Pungiglione delle Api.» gongolò l'inventore. «E ha una precisione che quel coso può solo sognarsi. Colpisce perfettamente un bersaglio a cinque steli di distanza.»
Per dimostrare che non scherzava, Inigo stese la mano e sparò tre colpi in rapida successione. Le freccette si conficcarono profondamente in uno dei pali di sostegno della tenda.
Douglas si alzò in piedi e ne staccò una. «E cosa dovremmo farcene di questi cosi?» mormorò perplesso, pungendosi leggermente il dito sull'estremità acuminata.
«Prima della battaglia, le riempiremo con la neurotossina paralizzante dei Ragni.» spiegai.
Inigo gliela strappò di mano in malo modo. «Se fosse stata piena, a quest'ora saresti steso a terra, rigido come un pezzo di legno!» sibilò.
Anche Tossina si alzò, si complimentò con l'inventore e, con un garbo del tutto insolito per lui, gli domandò se poteva provare l'arma.
La soppesò tra le mani, ne saggiò il bilanciamento, infine sparò un colpo contro il cuscino sul quale era stato seduto fino ad un attimo prima.
Annuì in silenzio. «È quasi un'arma da fuoco in miniatura.» mormorò, assorto. Quindi mi venne incontro e, con mia grande sorpresa, mi poggiò una mano sulla spalla.
«Avevi ragione, comandante. Se riusciamo a costruirne abbastanza, questi oggetti potrebbero conferirci un vantaggio decisivo. Soprattutto se li teniamo nascosti fino all'ultimo momento.»
Mi aveva chiamato "comandante". La cosa mi aveva spiazzato a tal punto, che a stento avevo sentito ciò che era venuto dopo.
«Metterò al lavoro la fabbrica di Elphitephoros su questo progetto, domani stesso.» promisi.
La Formica restituì la cerbottana al suo proprietario. «Ora andiamo a riposare. Da domani ci sarà davvero molto lavoro da fare, ed è meglio affrontarlo dopo una notte di riposo.» suggerì.
Ebbi l'impressione che l'endorsement di Tossina avesse in qualche modo stabilizzato la mia posizione, come se ogni incertezza si fosse improvvisamente sciolta.
Per la prima volta, infatti, tutti si avviarono all'uscita sorridendo e chiacchierando tra loro, visibilmente rasserenati.
Al punto che perfino io, in quel momento, mi sentii rassicurato sul futuro della nostra impresa.
SPAZIO AUTORE
Un capitolo insolitamente breve per gli standard di Duncan, ma di recente si stava dando troppe arie, quindi è meglio così. XD
In realtà fare il capo comporta un bel carico di stress e, lungi dal sentirsi quel superuomo invincibile delle prime apparizioni, il "nostro" si sente parecchio sotto pressione. Ma direi che se la sta anche cavando abbastanza bene, no?
Inigo è riuscito nell'impensabile, e adesso i ribelli hanno un bel vantaggio. Ma le informazioni non sono rassicuranti: come potranno, questi quattro disperati, tenere testa alla famigerata "arma finale", di cui ancora non si sa il nome?
Beh, sarà meglio che si facciano venire in mente qualcosa nel giro di qualche capitolo, o le cose rischiano di mettersi molto male. :p
Alla prossima, se vorrete ^_^
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