33. La cerbottana di Inigo (seconda parte)
DUNCAN
Mentre facevamo spese a scrocco ero attraversato da un variegato mix di emozioni.
Ero euforico per lo scampato pericolo ed eccitato per il proseguimento dell'avventura: ormai la missione mi aveva catturato e, nonostante il perdurare dei miei scetticismi, mi ci stavo gettando anima e corpo. Tuttavia, non riuscivo a sentirmi del tutto soddisfatto: finora, nessuno ci aveva appoggiato appieno, ed ero tristemente consapevole di quanto le briciole che ci avevano concesso fossero del tutto inadeguate ad affrontare la minaccia incombente.
Il sindaco era stato di parola: al sicuro nella tasca del giaccone custodivo i documenti che mi autorizzavano a ritirare i quattro Scorpioni. In fondo non potevo certo biasimarlo se, dopo aver subìto un attacco a sorpresa, non se l'era sentita di privarsi di uomini validi.
Facemmo scorta di provviste e acqua, e trovammo addirittura delle batterie che, a detta di Takoda, erano compatibili con i nostri veicoli.
Quindi chiesi di poter vedere un armaiolo: avevo intenzione di tenere il Pungiglione, ma mi serviva qualche puntale di ricambio.
«Ti porterò dal vecchio Inigo.» esclamò il Maresciallo che, dopo aver ricevuto l'ordine di accompagnarci, non faceva più nessuno sforzo per nascondere la sua simpatia nei nostri confronti. «...di gran lunga il migliore di tutta l'immensità!»
Mentre ci incamminavano, le sirene ripresero a lanciare il loro lugubre ululato. Avevamo deciso di spostarci a piedi, considerato il caos che regnava nelle strade, e in quel momento ci trovavamo alla periferia della città, dove aveva sede il rigattiere che ci aveva fornito gli accumulatori.
Stavo riflettendo su come mi sembrasse strano che le Api attaccassero due volte a così breve distanza di tempo, quando vedemmo cosa aveva fatto scattare l'allarme. Nelle distese di campi a foraggio antistanti la nostra posizione, era apparsa una Scolopendra.
Non era la prima volta che ne vedevo una: talvolta, quegli animali feroci s'intrufolavano nei quartieri poveri ai piedi dell'Alveare, specialmente di notte, e sbranavano qualche persona prima di sparire di nuovo nel folto della foresta o di essere abbattuti. Gli esemplari che osavano abbandonare il rifugio offerto dalle piante, però, erano relativamente di piccole dimensioni.
L'essere che stavamo guardando, invece, era immenso. Era lungo non meno di sette steli; il corpo anguilliforme, sostenuto da una miriade di lunghe zampe coriacee come tronchi d'albero, era grosso il doppio della fusoliera di un Fuco. La schiena era corazzata da placche chitinose il cui spessore doveva eguagliare la lunghezza dell'avambraccio di un uomo.
Il mostro tastò il terreno con le antenne, quindi ruggì: un suono stranamente acuto e sibilante che mi si riverberò nello stomaco. Inarcando la schiena, cominciò a scavare con le tre paia di zampe più prossime al capo.
«Fiutano gli acari da carne attraverso i condotti di aerazione.» spiegò il nostro accompagnatore. «Il mese scorso, una giovane femmina è riuscita a raggiungerli; ne ha divorati otto e poi, in preda all'estasi del sangue, ne ha uccise altre due dozzine, prima che riuscissimo a fermarla.»
Il trillo dei fischietti che già mi stava diventando familiare riecheggiò insieme alle grida dei poliziotti che intimavano di liberare la strada. Mi aspettavo di veder entrare in azione gli Scorpioni, sperando così di poterli osservare all'opera; invece a farsi largo nella vegetazione furono una specie di moto elettriche, che puntarono di gran carriera verso il mostro.
Ognuno di questi mezzi aveva due persone a bordo.
Vedendoli arrivare, la bestia si interruppe per un momento e sferzò l'aria con le antenne, quindi riprese lo scavo: evidentemente, il richiamo delle prede imprigionate sottoterra era troppo forte.
I poliziotti presero a sfrecciare davanti al muso della fiera finché questa, infastidita, si impennò ruggendo. Con sprezzo del pericolo, i piloti le corsero incontro, mentre i passeggeri le gettavano qualcosa addosso.
L'essere s'accasciò per un attimo, con un tonfo che mi fece vibrare la terra sotto i piedi, quindi scattò in avanti, mancando di un soffio una motocicletta. Poi si sollevò di nuovo, e la scena a cui avevo appena assistito si ripeté identica. Stavolta riuscii a distinguere meglio i dettagli: chi non guidava sparava dei minuscoli dardi rossi con delle cerbottane.
La parte inferiore del mostro non era protetta dalla formidabile armatura, e le freccette si conficcavano senza difficoltà nella pelle.
La Scolopendra grugnì, soffiò e ruggì ancora una volta; infine crollò lunga distesa al suolo, rigida come un pezzo di legno.
«Neurotossine paralizzanti.» spiegò orgogliosamente la nostra guida. «Solo noi Ragni ne conosciamo la formula. Uno solo di quei dardi può mettere fuori combattimento una persona all'istante.»
Ne avevo sentito parlare, naturalmente. Secondo i testi scolastici, si trattava di armi primitive e poco pericolose, efficaci solo a breve distanza. Ora però, mentre osservavo il titanico predatore che giaceva inerme sul terreno, me ne stavo facendo una diversa opinione.
«Andiamo.» ordinò il Maresciallo «Se dovete lasciare la città entro oggi, non c'è molto tempo.»
***
L'anziano Inigo era un ometto minuto, di carnagione scura. La folta chioma era completamente candida, in netto contrasto con le sopracciglia cespugliose, ancora nerissime, che gli conferivano una curiosa espressione perennemente corrucciata.
Ci accolse con uno scorbutico «Siamo chiusi, tornate tra cent'anni!» e il Maresciallo dovette far ricorso a tutta la sua diplomazia per convincerlo a servirci.
Alla fine acconsentì ad ascoltare la mia richiesta, dopo aver saputo che sarebbe stato il Municipio a rispondere delle spese.
La sua bottega era un piccolo edificio incuneato tra quattro grattacieli, a due passi dalla strada principale. L'interno era in penombra, odorava di metallo e di chiuso ed era talmente minuscolo che il nostro accompagnatore mi suggerì di entrarci da solo, mentre loro aspettavano sul marciapiede.
Rimasti soli, vagamente a disagio sotto lo sguardo indagatore del titolare, gli mostrai il Pungiglione e un proiettile. «Pensa di poter realizzare qualcosa di adatto?» chiesi.
Lui inarcò un enorme sopracciglio. «Realizzare?» ripeté, perplesso. Aveva una voce acuta e parlava con una buffa cantilena che me lo resero immediatamente simpatico. «Non ce n'è alcun bisogno: in realtà, li ho già a magazzino.»
Detto ciò, aprì un cassetto e mi diede due blister da quattro puntali ciascuno.
Notando la mia sorpresa, scoppiò a ridere. «Voi Api! Pare che tutte pensiate che i disertori non esistano. In realtà, sono parecchi quelli che hanno abbandonato la vostra tribù e si sono trasferiti qui. Per motivi incomprensibili, però, alcuni non riescono a separarsi da quello stupido affare!» esclamò, additando il dispositivo che, sulla mia spalla, aveva riassunto la forma di una bolla.
«Stupido?» ripetei, colpito.
L'altro annuì. «Non lo vorrei nemmeno se me ne regalassero uno.» dichiarò.
Quindi, soppesando sul palmo della mano il pezzo che gli avevo consegnato a mò di esempio, soggiunse: «Prova a sparare uno di questi cosi con il vento forte, e poi ne riparliamo. Credi a me, ragazzino: quando un uomo col Pungiglione incontra un uomo con la balestra, l'uomo con il Pungiglione è un uomo morto.»
Mi feriva sentir parlare a quel modo dell'arma degli ufficiali dell'aviazione, orgoglio del nostro dipartimento ricerca e sviluppo. Al tempo stesso, però, mi sentivo infantile a volerlo difendere a tutti i costi.
Di nuovo, l'anziano artigiano colse la mia espressione e mi trasse d'impaccio. «Devo comunque ammettere che l'idea di sfruttare l'aria compressa è astuta.» concesse.
«Il giorno in cui avremo le armi da fuoco trasportabili, comunque, tutte le altre diventeranno immediatamente obsolete.» considerai.
Il vecchio scosse la testa e proruppe in un sarcastico «Ah!»
«Lei ha l'aria di averci provato.» tirai a indovinare.
Per tutta risposta, Inigo si sbottonò la camicia e mi mostrò la cicatrice di un'ustione che, dalla spalla destra, si estendeva a gran parte del torace e scendeva fino a scomparire sotto la cintura.
«Certo che l'ho fatto!» esclamò. «Legare indissolubilmente il proprio nome alla prima arma da fuoco trasportabile è il sogno di ogni armaiolo. Ma ti darò una dritta, ragazzo...» si interruppe, avvicinando il viso al mio tanto che sentii il suo fiato, che sapeva di menta e tabacco. «... non è possibile.»
«Beh, finora nessuno ci è riuscito, ma...»
«Mi ascolti? Nessuno ci è riuscito perché ci sono dei limiti fisici imprescindibili. Non si può andare al di sotto di una certa dimensione, punto e basta.»
Notai che si stava innervosendo, quindi cercai di pilotare la conversazione. «Beh, vorrà dire che dovremo accontentarci dell'aria compressa.»
«Scherzi? Se avessi i polmoni meno malandati, riuscirei a batterti perfino con una cerbottana.» gracchiò, prendendo da un banco di lavoro un dardo appena terminato, ovviamente senza veleno. «Scommetto che qualunque giovane Ragno ben allenato ha una gittata migliore di quella diavoleria! E di certo un maggiore controllo.»
Spalancai la bocca e lo fissai come un ebete più a lungo di quanto l'educazione raccomandasse.
«La mia fidanzata dice sempre che le diversità ci arricchiscono, e che dovremmo cogliere il meglio da ogni popolo per creare il nuovo mondo.» mormorai.
«Affascinante.» Commentò il vecchio, acido. «Ma se volessi sentire la propaganda, andrei ai comizi elettorali. E non ci vado mai.»
«Non capisci.» Presi il puntale da lancio del Pungiglione in una mano mentre, con l'altra, gli rubavo la freccetta. «Possiamo farlo. Possiamo prendere il meglio da entrambe le tecnologie!»
L'altro, finalmente interessato, mi rivolse uno sguardo intelligente. «Cosa hai in mente, figliolo?»
«Una cerbottana ad aria compressa. Una cerbottana automatica, che non vada ricaricata ad ogni colpo!»
Inigo mi fissava senza vedermi, immerso nei suoi pensieri.
«Si può fare?» lo incalzai.
Lui rimase in silenzio.
«Si può fare?» insistetti.
«Si può tentare.» concesse.
«Provaci per noi, ti prego. Per un futuro diverso.»
«Alla mia età, rimane ben poco futuro di cui preoccuparsi.» borbottò, distogliendo lo sguardo.
Non potevo darmi per vinto. «Allora, fallo per l'immortalità: lega il tuo nome all'arma che rivoluzionerà la guerra, come hai sempre voluto. Crea la Cerbottana di Inigo!»
L'artigiano concentrò di nuovo l'attenzione su di me e, quando vidi come scintillavano i suoi occhi, seppi di averlo convinto.
«Sai, ragazzo... non sei scemo come sembri». commentò.
SPAZIO AUTORE
La Scolopendra non è altro che un banale centopiedi. Ma sono convinto che, se fossimo piccoli come i micro-uomini protagonisti della storia, ce la faremmo sotto al solo sentire pronunciare il suo nome. Un mostro corazzato, che può inseguirci correndo sulle sue molte paia di zampe, ed è pure velenoso!
A proposito del resto, spero che il modo in cui i nostri inizialmente rischiano quasi il linciaggio dalla folla, salvo poi ottenere una promessa di aiuto da parte delle autorità, possa essere convincente.
I Ragni nella mia testa sono simili a sudamericani, quindi per loro ho cercato dei nomi spagnoleggianti: il primo che mi è venuto in mente è Inigo, come lo spadaccino della "storia fantastica". Dato che era piuttosto originale come nome, l'ho mantenuto.
Inoltre, visto che ho immaginato l'armaiolo simile al classico vecchietto del west, non ho saputo resistere alla tentazione di inserire una citazione famosa: "Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto".
È stato divertente. ;)
L'avete colta tutti?
Per chi non lo sapesse, arriva da "Per un pugno di dollari", con Clint Eastwood, di Sergio Leone. Buon mezzogiorno di fuoco a tutti! XD
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