3. Briefing

DUNCAN

Non so se il discorso dell'istruttore capo aveva lo scopo di incitarci, spaventarci o renderci semplicemente più consapevoli di che cosa ci aspettava in quel giorno speciale.

Sta di fatto che poche volte in vita mia mi ero annoiato tanto. A un certo punto ebbi la tentazione di spararmi a un piede... Così, semplicemente per far succedere qualcosa.

Il docente volle ripetere tutte le manovre che stavamo provando ormai da settimane, soffermandosi su percorso e posizione di ogni singolo velivolo. Per prima cosa, gli equipaggi formati da due cadetti e un istruttore ciascuno avrebbero condotto uno sciame di otto Fuchi, in completo assetto da battaglia, in alcuni esempi delle nostre più classiche formazioni e tecniche, fino a sorvolare, a bassissima quota, il campo sottostante il nostro Alveare. Quindi, sarebbero atterrati verticalmente, con millimetrica precisione, in aree appositamente predisposte proprio in mezzo al pubblico. Poi saremmo decollati noi, la pattuglia acrobatica, su una versione modificata di Fuco, monoposto.

Io naturalmente ero il solista, anche se non il capitano (un ruolo che tradizionalmente veniva ricoperto da un istruttore). Le reclute che non erano state selezionate, avrebbero partecipato solo alla sfilata a piedi e alla successiva cerimonia di conferimento dei gradi.

Quando finalmente fummo congedati, con l'ordine di recarci ognuno alle proprie posizioni, mi sentii rinascere. Uscendo lasciai indugiare per un attimo lo sguardo sulla mia figura riflessa su una vetrata del corridoio. Non mi consideravo una persona vanitosa, ma ero davvero soddisfatto del mio aspetto. Anzi, ne ero quasi affascinato. 

La divisa era indossata in modo impeccabile, la blusa gialla era priva di pieghe e la fila di bottoni neri, chiusi su una striscia di tessuto dello stesso colore, era tanto lucida da sembrare un ologramma. Sui pantaloni a bande verticali gialle e nere non c'era nemmeno un capello fuori posto, mentre gli stivali, anch'essi neri, sembravano appena usciti dalla fureria... E in effetti era proprio così: ero riuscito a corrompere uno degli inservienti. Feci una smorfia solo nel guardare le odiate spalline bianche, segno distintivo delle reclute. Mi consolai pensando che erano ormai le ultime ore: la sera stessa avrei potuto fregiarmi di quelle a strisce gialle e nere, prerogativa dei piloti.

Con un nodo allo stomaco e un miscuglio di emozioni contrastanti, mi diressi a grandi passi verso l'hangar in cui i caccia acrobatici attendevano di fare il proprio ingresso in scena.

L'intera struttura era carica di aspettativa, ovunque la gente scalpicciava eccitata e si affrettava lungo i corridoi per non perdere i posti migliori. La nostra casa era abbarbicata, anzi, direi quasi incastonata nella parete di roccia che segnava il confine dell'Immensità dal lato opposto a quello del Formicaio. L'edificio era costituito da dodici anelli concentrici sovrapposti, di cui i due centrali erano quelli dal diametro maggiore e gli altri andavano via via a diminuire, creando una forma vagamente ovoidale. Circa un terzo di queste costruzioni era incuneato nella pietra, e contribuiva a creare l'illusione che l'intero Alveare vi fosse incastrato dentro.

Proprio come le Formiche, anche noi facevamo in modo di mantenere l'area sottostante la nostra abitazione sgombra dalla giungla: là, alle pendici della dorsale montuosa, avevamo installato fabbriche ed attività di vario genere, e perfino edificato un intero villaggio , occupato dalla manodopera a basso costo. Costoro, quasi tutti stranieri appartenenti alle più svariate etnie, non erano ammessi nell'Alveare.

Il montacarichi già al lavoro per trasportare l'enorme pubblico fino al campo sotto i miei piedi: da lì avrebbe potuto assistere al mio trionfo. Anche se alcuni avrebbero preferito appostarsi sulle grandi terrazze dell'edificio, infatti, lo spettacolo era studiato per essere apprezzato maggiormente da terra.

Quando raggiunsi il luogo del rendez-vous, l'atmosfera era tesa ed euforica al tempo stesso; i cadetti scherzavano tra loro per allentare la tensione. Il nostro hangar era uno dei più piccoli della base, largo appena a sufficienza per accogliere i nove veicoli che componevano la pattuglia acrobatica.

Ogni aereo era parcheggiato all'inizio di una rotaia che arrivava fino all'enorme portello, ancora chiuso. Le ruote erano bloccate da un meccanismo che poteva essere rilasciato solo dalla cabina di comando, una stanzetta di vetro posta nell'angolo più vicino all'ingresso. Accanto a quel box c'era la lavagna circondata da sedie su cui ripassavamo formazioni e manovre. Al lato opposto della stanza erano stati collocati, in fila, quattro simulatori elettronici. Sembravano delle cabine di pilotaggio senza aereo, lasciate lì come pezzi di ricambio. Sopra la saracinesca d'uscita c'era un grosso semaforo, al momento acceso sul rosso.

L'ambiente odorava di metallo e olio e, benché io sapessi che era una delle rimesse più piccole dell'Alveare, appariva comunque sconfinato: la voce rimbombava a lungo e, se non eri abbastanza vicino a chi parlava, finiva col perdersi in una eco indistinta e incomprensibile.

Il Sergente O'Brian ci attendeva in piedi accanto alla lavagna, con le gambe larghe e le braccia dietro la schiena. Vero asso del volo, si diceva che non fosse tuttavia riuscito a fare carriera a causa del suo carattere irascibile e della sua eccessiva franchezza. Magrissimo, sulla quarantina, insolitamente alto per un'Ape, aveva acuti occhi grigi e un pizzetto appuntito che rendeva ancora più aguzzo il profilo deciso della sua mascella. Portava i capelli brizzolati tirati indietro e un paio di ridicoli occhialetti tondi che gli scivolavano continuamente sul naso, conferendogli un'aria da personaggio dei cartoni animati.

Quando fu certo che tutti fossero presenti, fece un breve discorso sul senso di responsabilità e sullo spirito di corpo, ricordandoci come, nonostante non stessimo certo per andare in battaglia, la parata non sarebbe stata scevra di rischi: quando due aerei si sfioravano di pochi steli (*) a velocità folli, anche la più piccola leggerezza poteva essere fatale. Infine ci mise in libertà, ordinandoci di presentarci mezz'ora prima del decollo, puntuali e sobri, e assicurando che avrebbe personalmente evirato chiunque di noi non avesse rispettato entrambe quelle condizioni.

C'erano ancora un paio d'ore di attesa, e la decisione del mio superiore mi colse alla sprovvista: ero certo che i miei compagni di corso assegnati ai Fuchi le avrebbero trascorse tra simulazioni e ripassi dell'ultimo minuto sulle formazioni.
E io cosa avrei fatto, invece? Mi avventurai ancora una volta lungo il corridoio insieme a tre commilitoni. Scherzando e ridendo con loro ci divertivamo a fare gli smargiassi, sognando le acrobazie che avremmo fatto e scommettendo su chi sarebbe stato il migliore.

All'intersezione tra il corridoio dell'hangar e l'anello principale m'imbattei di nuovo in Hudson. Rispetto a quella stessa mattina, sembrava diverso: cupo, con lo sguardo basso, se ne stava appoggiato a uno stipite con un braccio, mentre l'altro penzolava pigramente, conferendogli un cipiglio assai poco militare davvero inusuale per lui. Sembrava indeciso, insicuro: la cosa mi colpì, perché era in forte contraddizione con l'immagine che avevo di lui.

Gli altri lo superarono rivolgendogli un frettoloso saluto militare, ma proprio quando stavo per fare lo stesso, egli alzò lo sguardo e mi riconobbe.

«Duncan!» esclamò.

Gli rivolsi un cenno ed un sorriso. «L'istruttore ci ha messo in libertà» spiegai, sentendomi in dovere di giustificare il mio bighellonare in giro in un momento simile.

Hudson si raddrizzò e appoggiò le mani sui fianchi. «Scelta insolita» commentò.
«Già.» mi strinsi nelle spalle «che ci fai qui?»
«Volevo...» sembrava stranamente a disagio «augurarti buona fortuna».
«Di nuovo?!?» ridacchiai. Nel vedere quanto fosse serio, però, il sorriso mi morì sulle labbra. «Cosa c'è che non va?» chiesi, abbassando il tono di voce.

Sembrò cercare a lungo le parole giuste.

«È tutto a posto» disse infine, prendendomi il braccio con la mano. Capii allora che il dilemma non era stato su cosa dire, quanto piuttosto se dirlo o meno. Nel comprendere che la scelta era caduta sul no, mi sentii catturare da un'infantile irritazione. Mio malgrado, misi il broncio come un bambino capriccioso cui sia stato negato un dolcetto.

«Meglio così!» borbottai offeso. Con un movimento brusco feci per togliermi di dosso la sua mano e proseguire verso i miei compagni.

«Duncan.» la sua stretta s'intensificò improvvisamente, facendomi male.

Rimanemmo immobili per un lungo istante a fissarci negli occhi. Tesi il bicipite per far fronte a quella morsa, senza tuttavia lasciar trapelare insofferenza. Sopra ogni cosa provavo sorpresa e curiosità: simili atteggiamenti non erano proprio da lui.

Infine Hudson mi lasciò. «Per un soldato non esiste il tempo di pace. Tieni gli occhi bene aperti: anche se è solo una parata, può succedere di tutto.»
Con queste parole sibilline, girò sui tacchi e mi piantò in asso nel corridoio.

Ero senza parole. Cosa sapeva Hudson e non voleva, o non poteva, dirmi? Cosa stava per succedere, davvero?

Gettai una fugace occhiata nella direzione presa dai miei compagni, spariti oltre l'arco del corridoio principale. Di seguirli ormai neanche a parlarne: dopo quella strana conversazione, sentivo il bisogno di riprovare il mio ruolo al simulatore e cercare di essere pronto ad ogni evenienza.

Era davvero il colmo: proprio io, che avevo sempre preso in giro gli aspiranti piloti che passavano a quel modo le ore precedenti il test! Mentre tornavo sui miei passi, cominciai a pensare a una rispostaccia con cui zittire gli inevitabili scherni dell'istruttore.

(*) Unità di misura da insetti. Uno Stelo corrisponde all'altezza media di un micro-uomo (circa 2,5 cm) . Vedi capitolo "Il sistema metrico artropodiale" in questo stesso libro per ulteriori informazioni.

SPAZIO AUTORE

E siamo già al terzo!

Vi siete addormentati? Tranquilli, presto arriverà anche l'azione!

Vi prego, se leggete, lasciate un segno del vostro passaggio!

Che ve ne pare dell'unità di misura inventata appositamente per i "Micro-uomini"? Se deciderete di proseguire con la lettura, ne troverete delle altre. È stato molto divertente inventarle. :p

L'uniforme da Ape vi convince? Siete riusciti a immaginarla? 

Aggiornamento del 25/05/2020: aggiunto descrizione dell'hangar

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