27. Afidi

ASHLIE

Il giorno successivo all'attacco, l'addestramento riprese come se niente fosse; anzi, forse pure con maggior foga. Ci svegliarono alle cinque del mattino e, dopo una rapida colazione, ci portarono a marciare nella foresta, per aumentare la nostra resistenza.

Ci fu un momento di tensione quando l'istruttore notò alcune figure lungo un sentiero che correva parallelo al nostro percorso. Col cuore che batteva a mille, seguendo le sue indicazioni ci disponemmo a ventaglio e convergemmo sugli sconosciuti, accerchiandoli.

A un suo comando, saltammo fuori dai cespugli gridando come ossessi, armi in pugno.

Ci aspettavamo di trovarci a tu per tu con delle spie delle Api, ma in realtà si trattava di nostri compaesani. Erano in quattro, abbigliati con vesti lacere e rattoppate. Due di loro erano mie vecchie conoscenze: pastori di afidi.

Quando la loro identità fu evidente, Tossina andò su tutte le furie, al punto che più di qualcuno temette che li avrebbe feriti anche se erano amici.

Terrorizzati, essi esibirono dal loro dispositivo personale i lasciapassare firmati, che li autorizzavano a transitare nella zona interdetta ai civili.
«Queste sono solo parole!» sbraitò il mio superiore. «È vietato a chiunque uscire dalla recinzione senza una adeguata scorta, non lo sapevate?»
Gli uomini si guardarono l'un l'altro con espressione eloquente.
«Tornate immediatamente al Formicaio, e chiedete al comando centrale di predisporre un giusto seguito per voi!» ordinò l'istruttore.

Il capo dei pastori si tolse il cappello sgualcito e, torcendolo tra le mani, si rivolse al militare con voce esitante: «potente generale, le bestie devono essere munte e governate, altrimenti soffriranno e potrebbero non produrre più. Esse non sanno che c'è una guerra, né hanno colpa alcuna in tutto ciò.»
«Non sono un generale.» borbottò Tossina per risposta, ma già sembrava piuttosto ammansito.
«Organizzare una scorta, in questo momento, richiederebbe certamente altro tempo, e sia per noi che per gli animali sarebbe un disastro. Forse qualcuno dei tuoi valorosi soldati potrebbe accompagnarci?»
L'istruttore soppesò a lungo quella possibilità tra sé e sé, quindi annuì gravemente. «Perché no? Mi sembra ragionevole.» concluse infine.

Ci fece mettere in riga e percorse un paio di volte l'intera lunghezza da un lato all'altro.
«Allora... Logan, Milton e... Ash, mi pare che tu abbia già esperienza, no? Andate con i pastori e restate con loro. Tenete gli occhi bene aperti per ogni movimento del nemico e riferite immediatamente ogni stranezza. Tutto chiaro?»

Mi unii al coro di "Chiaro, signore!" quindi, senza altre parole, ci mettemmo in marcia, allontanandoci dalla colonna.

***

Fare ritorno ai pascoli fu davvero piacevole.

Una volta giunti a destinazione, i miei due commilitoni si erano messi in disparte, entrambi con gli archi pronti e apparentemente vigili. Io però sapevo bene che la verità era che non avevano voglia di mischiarsi ai pastori, che avevano fama di essere dei sempliciotti puzzolenti e ignoranti.

Io invece amavo prendermi cura degli animali, e fui lieta di aiutarli, sebbene nessuno me l'avesse chiesto. Il diversivo mi permise di distrarre la mente e, per qualche ora, riuscii perfino a scordarmi della guerra. Scoprii che un agnellino, che zoppicava vistosamente, aveva una spina incastrata sotto una zampa: quando lo liberai, mi leccò la faccia, contento.

Mezzogiorno era passato da un pezzo quando i pastori si sedettero in fila sulla cima di un dolce pendio, invitandomi a unirmi a loro.
«Alcuni tronchi del recinto a Ovest si sono marciti e vanno sostituiti.»
«Tom, non parliamo di lavoro mentre si mangia, dai!»
«Soprattutto oggi che abbiamo ospiti.»
«Hai fame, Ash?» mi chiese Lucas, uno dei due che avevo conosciuto la volta precedente.
Annuii. Lo stomaco brontolava ma, al pensiero della scatoletta di razioni militari che avevo nello zaino, sentivo l'appetito venir meno.

L'uomo trasse di tasca un fagottino fatto con un canovaccio rosso e bianco, e lo svolse con attenzione, come fosse un tesoro prezioso. Conteneva una strana massa giallognola e apparentemente spumosa, dalla quale staccò un generoso pezzo, che mi porse con un sorriso.

Lo presi tra le mani, stupendomi di quanto fosse pesante. L'annusai, dubbiosa: sapeva di fieno appena tagliato, muschio e fiori. Il profumo era così buono e intenso che quasi mi fece girare la testa. Rincuorata, diedi un morso.

In tutta la mia vita, non avevo mai assaggiato nulla di così saporito.

Avevo quasi sempre mangiato più per necessità che per piacere: le razioni che la Direzione passava ai dipendenti erano solo leggermente meglio di quelle militari. In ogni pasto i nutrienti erano perfettamente bilanciati, ma quel cibo odorava di piedi non lavati e sapeva di frutta troppo matura.
Avevo avuto la fortuna di assaggiare il vero cibo, da mio zio: le verdure e la frutta coltivata da lui stesso mi avevano portato ad odiare ancora di più lo schifoso cibo sintetico destinato alle Formiche.

Ma niente mi aveva preparato a quella leccornìa. Mentre masticavo, scariche elettriche di puro piacere si sprigionavano lungo tutta la spina dorsale, facendomi venire la pelle d'oca. Chiusi gli occhi, in estasi, assaporando appieno ogni sensazione.

Nel mio vocabolario non c'erano parole per descrivere quel sapore. Era dolce ma con una punta di piccante; una volta deglutito lasciava un persistente retrogusto aromatico in bocca.

«Che cos'è?» chiesi, col fiato corto come dopo una corsa.
«Formaggio di melata d'afide» mi spiegò Lucas.
«Dovremmo consegnarlo tutto alla Sovrintendenza» s'intromise Tom. «Ma qualcosa "avanza" sempre!» concluse, facendomi l'occhiolino.
«La Direzione dovrebbe occuparsi di ridistribuire equamente tutto.» Spiegò Lucas. «Ma non lo fa. La roba buona se la spartiscono nelle alte sfere, e a noi restano solo gli avanzi!»
«Già.» convenni io. Solo qualche giorno prima mi sarei indignata, lanciandomi in qualche filippica sull'ingiustizia del sistema. Ma nel posto dentro di me in cui avevo sempre trovato la rabbia, ora sentivo solo una stanca tristezza rassegnata.
Forse faceva parte del diventare adulti, riflettei.

«"Già", "già". Voi giovani non sapete dire altro!» sbottò il più anziano dei quattro. «È solo colpa vostra, se ci troviamo in questa situazione. Della vostra passiva accettazione di tutto ciò che arriva dalla Direzione, come se fosse un dogma divino sussurrato dal Polline in persona!»
«Abbassa la voce, Doug, ti prego. Se ci sentissero fare questi discorsi...» cercò di blandirlo un compagno, ma ottenne solo l'effetto inverso.
«Sentire? Magari! Anzi, dovrebbero ascoltare!» sbraitò, calcando l'accento sull'ultima parola. «Ragionare sulle mie parole, e darsi una svegliata!»

Qualcosa si riscosse dentro di me. Lo affrontai: «Come puoi dare la colpa a noi? Siete stati voi, e le generazioni precedenti alla vostra, a dar vita a questo sistema malato! Siete stati voi a metterlo in moto, e noi ora non riusciamo a fermarlo!»

Doug si fece andare il formaggio di traverso per la sorpresa. Tossì e sputazzò, quindi si sollevò in piedi, squadrandomi dall'alto in basso con aria torva. Era massiccio, con torace e spalle ampie. Il cranio, calvo, riluceva lucido di sudore. Il naso piatto e largo aveva le narici dilatate per l'emozione.

«Guarda, ragazzina!» sbraitò. Quindi si genuflesse e sollevò il pantalone, facendo scorrere la stoffa lungo la gamba. Al posto dello stinco, una placca metallica luccicò sotto il sole. «Io ho partecipato alle proteste dei Fiori Nascenti. Ero uno degli organizzatori! E cosa ci ho guadagnato? Il manganello elettrico con cui mi hanno colpito è rimasto incastrato nei pantaloni, e mi ha fritto la gamba. All'ospedale, quando hanno saputo che ero uno dei manifestanti, anziché curarmi mi hanno messo questo!» Batté con la mano sul corpo estraneo che aveva in vece dell'arto, producendo un suono acuto che mi ghiacciò il sangue nelle vene. «Quando sono uscito, il mio nome era stato cancellato da qualsiasi lista. Non potevo più partecipare a nessun concorso, né proseguire gli studi, né intraprendere una professione. L'unica via che mi era rimasta erano gli afidi!»

Lucas lo prese per un braccio. «Ora calmati.»

«Io ho lottato, signorina!» proseguì lui, ignorandolo. Si sottrasse a quella presa gentile e mi puntò addosso un indice accusatore. «Io e i miei compagni abbiamo provato a darvi un mondo migliore. Solo che loro sono morti, negli scontri oppure in prigione, e io mi sono ritrovato senza futuro.»

Lo fissai inebetita, senza parole, mentre si rivestiva e tornava a mettersi seduto.

Per una volta nella mia vita, non sapevo cosa dire.

Fu lui a togliermi dall'impiccio, rompendo il silenzio per primo. «Però non hai tutti i torti. È colpa anche nostra se le cose stanno così.» esitò, rimuginando un attimo, prima di concludere con un sorriso amaro: «Ma noi almeno abbiamo avuto le palle per tentare. Voi vi siete rassegnati, vi siete arresi senza combattere.»

Annuii gravemente.

Finimmo di mangiare in un silenzio teso, rotto solo dagli sbuffi e dai sospiri degli afidi, poco più sotto.

«Credevo che questo non fosse il momento giusto per le mie idee balzane e divisive.» riflettei. «Che fosse quello dell'unità di fronte al pericolo, all'invasore.»
Sentivo tutti gli occhi puntati su di me.
«Ma forse è vero il contrario!» ripresi. «Forse mai come ora abbiamo la possibilità di costruire un futuro diverso. Forse proprio l'emergenza può tirar fuori il meglio da noi, e traghettarci verso un nuovo Formicaio, più equo e giusto!»

«Non puoi saperlo, se non provi.» commentò Doug.
«Tu... saresti ancora disposto a lottare per il cambiamento? Dopo tutto quello che hai passato?»

«Forse, ragazzina. Forse.» Abbozzò un sorriso sornione. «Ma fai bene attenzione: il cambiamento può essere sempre in due direzioni. Se lo si agogna, bisogna sempre specificare che lo si vuole verso il meglio.»
Si umettò le labbra, pensieroso, quindi concluse: «talvolta il Polline sa essere davvero ironico».


SPAZIO AUTORE

La Ash sottomessa e remissiva non ci piaceva proprio. Dico bene?

Serviva solo qualcuno che le desse una scossa... e per fortuna è arrivato il nostro nuovo amico, Douglas. Ora sembra intenzionata a ripartire in quarta, e chi la ferma più? :p
In questo capitolo emerge qualche limite della dittatura del Formicaio: non sempre è tutto oro ciò che luccica, e nemmeno questa popolazione così "inquadrata" sembra immune dalla corruzione e dai favoritismi. E chi ci rimette sono sempre le persone comuni!

Come vedete, inoltre, continua il nostro viaggio nell'enogastronomia dei micro-uomini. :D
La melata è associata alle api, ma in verità anche la sostanza che producono gli afidi, e di cui le formiche sono ghiotte, ha lo stesso nome.

Le formiche (quelle vere) allevano gli afidi proprio come noi facciamo con altri animali. Non solo li proteggono dai predatori, ma addirittura li spostano da una pianta all'altra per massimizzare la produzione. Infine, letteralmente li "mungono", accarezzandoli in modo che forniscano una sostanza zuccherina per la quale vanno matte, la melata appunto.

In questa avventura, il parallelo di questo interessantissimo comportamento, chiamato "trofobiosi", con la pastorizia umana era inevitabile: ho immaginato gli afidi come una via di mezzo tra mucche e capre, e ho narrato delle persone che se ne prendono cura.

Fatto questo accostamento, la melata è diventata come il latte: e che altro potevo farci se non il formaggio? XD

Potete farne un approfondimento "light", se volete, sul sito "entomologando.com": vi linko la pagina da cui ho tratto questo bella immagine.

http://www.entomologando.com/2014/09/trofobiosi-le-formiche-che-allevano-gli.html


P.S.: certo che gli afidi sò proprio brutti! XD

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