16. Duro lavoro
ASHLIE
Nei giorni successivi il Formicaio ritrovò la sua routine.
Che si trattasse di raccogliere la linfa o di prepararsi a un'invasione, le Formiche facevano ciò che gli riusciva meglio: svolgere il compito loro assegnato.
Erano bastate un manciata di ore per far sfociare l'emozione in un ordinato impegno collettivo.
Le lezioni erano state sospese e tutti gli studenti erano stati impiegati come aiuto "qualcosa": manutentore, meccanico, cuoco, magazziniere e via discorrendo, secondo l'età e l'attitudine. Con i meno svegli erano state formate squadre addette allo scavo di trincee o al disboscamento della foresta, ritenuto necessario per aumentare la zona di piena visibilità intorno alla base.
Tutti, dai più giovani agli anziani, avevano risposto alla chiamata, impegnandosi a fare la propria parte al meglio, così come era stato inculcato loro fin da bambini.
Poiché in quel momento non ero iscritta a nessun corso né praticantato, e tantomeno avevo un lavoro, ero rimasta fuori dalle maglie della burocrazia, e nessuno mi aveva convocata.
Tuttavia, pur disapprovando lo stile di vita dei miei compatrioti, scoprii ben presto di non poter accettare di starmene con le mani in mano mentre tutti versavano sudore per il bene comune.
Così decisi di recarmi agli uffici appositamente istituiti nelle aule scolastiche rimaste vuote, per farmi assegnare un compito.
Il colloquio fu piuttosto imbarazzante, per certi versi forse più per l'intervistatrice che per me. Costei, una funzionaria all'incirca della stessa età di mia madre, che sembrava condividere con lei l'aspetto grigio ed abbattuto, non si faceva capace delle mie risposte, e ripeteva anche tre volte la stessa domanda, quasi volesse darmi la possibilità di ritrattare.
«Comprendo la titubanza nell'effettuare una scelta che influenzerà il suo futuro, signorina... Ma davvero in questo periodo non sta svolgendo nessun incarico?»
«No, come le ho già detto, mi sono presa del tempo per riflettere».
«Magari del volontariato? Qualche lavoro socialmente utile che ha omesso di menzionare, forse?» Insistette la donna, sorridendomi speranzosa.
«Direi di no, a meno che non vogliamo considerare l'assistenza a un vecchio zio». La donna annotò qualcosa sul foglio, scrutandomi con disapprovazione.
Alla fine, non riscontrando nessuna particolare propensione in me, mi assegnò alla manovalanza di base, dandomi un modulo da consegnare a uno dei capisquadra.
Trovare la persona giusta non fu affatto difficile: la maniacale ossessione delle Formiche per l'ordine si traduceva anche in forme e colori diversi per uniformi e abiti da lavoro, a seconda di mansione e grado .
Venni inclusa nella squadra posizionamento rete ed indirizzata ad un addetto al magazzino, che mi fornì la mia nuova divisa e mi presentò agli altri membri del gruppo.
Il lavoro era semplice, adatto anche a una disadattata incapace come me. Si trattava di infilare e fissare dei grossi pali dentro sedi appositamente predisposte, disseminate a intervalli regolari lungo tutta la superficie del formicaio. Queste pertiche erano ricavate dai fusti delle piante abbattute, che venivano torniti in un apposito macchinario e successivamente ricoperti con una resina speciale, che li rendeva ignifughi e ne aumentava la resistenza alle sollecitazioni meccaniche.
I grossi Atta facevano continuamente la spola tra il Formicaio e il margine della foresta, dove era stata installata la macchina.
Ognuno lavorava alacremente e senza risparmiarsi, ma l'atmosfera tutto sommato era rilassata: molti canticchiavano o fischiettavano, e mi capitò personalmente di assistere ad un momento di ilarità, quando la nostra attività disturbò una famigliola di piccoli acari selvatici che aveva fatto il nido in uno dei fori.
Se le Formiche avevano una certezza, questa era la inespugnabilità della loro casa. Nemmeno una guerra imminente riusciva a farci perdere d'animo, fintanto che potevamo rifugiarci nella nostra fortezza.
***
Scoprii con una certa sorpresa che trascorrere del tempo con i miei simili mi faceva bene.
Era innegabile come alcuni di quelli che avevo sempre creduto loro grandi difetti, ci stessero permettendo però di affrontare quella crisi nel migliore dei modi. Lavoravamo senza mai lamentarci, senza mai chiedere qualcosa di più o di diverso.
I brevi momenti di pausa che ci concedevamo mi diedero l'opportunità di scorgere il lato più umano e genuino di quelle persone. La loro beata, totale fiducia nel sistema permetteva loro di fronteggiare in completa serenità perfino quella situazione.
Le ore trascorse a spaccarmi la schiena tirando le corde dei paranchi, o a consumarmi le mani stringendo bulloni, non mi davano la possibilità di rimuginare come mio solito. Quando però a sera trascinavo le mie ossa esauste fin sul letto, i pensieri negativi mi raggiungevano, bisbigliandomi all'orecchio che ciò che avevo scambiato per spontaneità durante il giorno, in realtà era solo ingenuità, e che ciò che poteva sembrare un sistema perfetto invece non era altro che un grosso guinzaglio stretto attorno al collo di ogni abitante della Colonia.
Mi sentivo in colpa per quei pensieri, eppure non potevo fare a meno di provarli.
Ogni notte mi addormentavo maledicendomi per la mia incapacità di sentirmi parte di qualcosa. Avrei voluto poter smettere di torturare il mio cervello con domande alle quali non sapevo dare un risposta. Avrei voluto essere come gli altri, ignara e felice.
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