10. Generazioni
ASHLIE
Quando il mattino dopo raggiunsi il Formicaio, trovai che vi regnava una tensione mai vista.
L'intera struttura era circondata da ben tre cordoni di sicurezza, il primo dei quali costituito da posti di guardia immersi nella giungla che si tenevano in contatto radio tra loro.
Lo spiegamento di forze era impressionante.
Superati i controlli arrivai infine al garage da cui ero partita, con il mio Lasius drammaticamente in riserva. Non avevo ancora spento il motore, che una figura apparve alle mie spalle: Gawayn.
Cercai di scacciare dalla testa l'idea che fosse lì apposta per me: il ricordo della sua presunta gelosia, emersa nella nostra ultima conversazione, mi lasciava ancora stordita. Era il fratello che non avevo mai avuto, e non avevo nessuna intenzione di dovermi cominciare a preoccupare di vederlo con altri occhi.
«Sei tornata!» esclamò, con una voce stranamente acuta in cui si mischiavano più emozioni: sembrava contemporaneamente sollevato ed irritato.
«Non ti si può nascondere nulla, eh?» provai a sdrammatizzare, rivolgendogli un bel sorriso.
«Se avessi saputo che avevi intenzione di fermarti fuori anche per la notte...»
«Mi sono fermata dallo zio.» spiegai, collegando il tubo di rifornimento al mezzo che avevo indebitamente preso in prestito.
«Questa scusa non sarà accettata per sempre!» sbottò il mio amico. «Vedrai che presto...»
«Scusami, sono molto stanca.» lo interruppi. Non ero assolutamente in vena di una paternale, soprattutto considerato che a breve sarei stata chiamata ad un'audizione con la Commissione Disciplinare, da cui non sapevo assolutamente cosa aspettarmi. «Vorresti accompagnarmi a casa?»
Attraversammo gli ampi corridoi del Formicaio a passo svelto.
Gawayn rimase insolitamente silenzioso per quasi tutto il tragitto; non si offrì nemmeno di portarmi la sacca, cosa strana per lui.
Nei primi due livelli l'attività era febbrile: tutti sembravano impegnati in qualcosa, ed avere una dannata fretta per terminarla. Ovunque si incontravano militari in divisa che si spostavano da un posto all'altro o abbaiavano ordini.
La minuscola unità abitativa che condividevo con mia madre era al terzo livello, dove risiedeva la maggior parte dei funzionari di basso rango.
Lei era un'insegnante, e ciò era forse la principale causa del nostro disaccordo: io non riuscivo a perdonarle di inculcare la dottrina nei ragazzi, rendendoli ciechi automi succubi del sistema, mentre lei non poteva capacitarsi di aver fallito proprio con la sua unica figlia, dopo aver formato intere generazioni di giovani.
Lo sguardo che mi vidi rivolgere quando aprì la porta valeva più di mille parole.
La donna che mi aveva messo al mondo aveva i capelli ingrigiti dai pensieri e l'aspetto prostrato di chi si è spaccato la schiena ogni giorno, senza vedere i risultati dei propri sforzi.
Tutto in lei, dalle occhiaie profonde, alle spalle curve, all'insano colorito delle labbra, dava l'idea che si fosse arresa senza combattere ad un destino ineluttabile. Nemmeno sforzandomi riuscivo a ricordare l'ultima volta che l'avevo vista sorridere.
«Sei qui.» notò.
Mi limitai ad annuire e rivolgerle un cenno di saluto.
«Hai aggiunto una nuova infrazione alla tua fedina penale, Ash? Complimenti, sono orgogliosa di te.» disse, con una smorfia simile a quella che si fa dopo aver messo in bocca un frutto avariato.
«Avresti dovuto prenderti un animale domestico invece di fare un figlio: forse ti avrebbe dato più soddisfazione.» replicai, acida.
Lo schiaffo mi colse di sorpresa. Cercando di darmi un tono, sollevai il mento e la squadrai, troneggiando dalla mia altezza per metterla a disagio. Decisi che non le avrei dato la soddisfazione di massaggiarmi la guancia.
Lei scosse la testa, quindi abbassò lo sguardo. «Non so nemmeno perché lo faccio» mormorò, più a sé stessa che a me. «Ormai dovrei aver capito che non serve a nulla».
«Lo fai perché ti fa sentire meglio.» la rimbrottai, ma in realtà il suo tono sconfortato mi aveva ferito più di quanto fossi disposta ad ammettere: era la voce di chi ha perso le speranze.
Si era arresa, con me: aveva rinunciato a cambiarmi, senza aver nemmeno mai provato a capirmi.
«Posso entrare o devo cercarmi un'altra casa?» le chiesi, facendole segno di farsi da parte.
Lei si strinse nelle spalle. «Questo è solo il posto dove dormi. Non è più la tua casa, ammesso che lo sia mai stata.» Tuttavia si spostò, lasciando libero lo specchio della porta.
Alle mie spalle, Gawayn si schiarì la voce. Mi ero completamente dimenticata di lui.
«Io ora devo tornare ai miei doveri.» disse, palesemente a disagio. «Stasera però tornerò a sentire com'è andata.»
«Oh, ciao, caro!» cinguettò mia madre. Lei ovviamente lo adorava: era il figlio che avrebbe voluto. «Scusa, non ti avevo visto!»
In quel momento, due uomini della Sicurezza Interna irruppero nell'androne, spintonarono senza tanti complimenti il mio amico e mi si pararono davanti.
«È lei la signorina...» cominciò il primo.
«Non c'è tempo per questo.» sentenziò il secondo. Con modi bruschi, afferrò il mio polso destro e mi premette la mano contro un terminale portatile.
«Che modi sono questi?» sbuffò Gawayn, cercando inutilmente di riconquistare il posto accanto a me.
«Che cosa succede?» chiesi io, ostentando una freddezza che non avevo.
Lo schermo del palmare emise un "blip" e s'illuminò di verde. «Lei viene con noi.» ordinò il poliziotto che ancora mi teneva la mano.
«La sua presenza è stata richiesta al Gran Consiglio.» mi spiegò l'altro.
Sapere che la massima autorità della nostra società mi aveva convocato mi fece scorrere un brivido gelido lungo la schiena. Possibile che quel maledetto fiore fosse così importante?
Avrei voluto solo farmi una doccia e riposare per un po', in attesa di dovermi presentare alla Commissione Disciplinare.
Ma a quanto pareva quello era uno di quegli inviti che non si possono rifiutare.
***
Rinunciai quasi subito a parlare con i miei accompagnatori: quello che mi aveva così sgarbatamente scansionato la mano si limitava a grugnire, e lanciava dei tali sguardi inceneritori al suo collega quando questi tentava di rispondermi, che decisi di smettere per non farlo finire nei guai.
Attraversammo il corridoio principale dei quartieri in cui abitava mia madre.
Tutto, nel Formicaio, rifletteva il pragmatico bisogno di praticità del mio popolo. Per l'intera lunghezza del percorso le porte delle abitazioni s'affacciavano alle pareti, a intervalli costanti.
Dietro di esse si aprivano appartamenti tutti uguali, perché così funzionava: nessuna differenza nello stesso piano. Stessa pianta, stesso numero di stanze, stessi accessori. Perfino gli usci erano tutti identici, con la loro targhetta dorata che riportava nome e impiego dell'inquilino, senza nessuna decorazione o fronzolo che potesse in qualche modo dare un tocco personale.
Ogni tre ingressi la monotonia di quel motivo era interrotta da un andito secondario, usato per l'aereazione, l'accesso del personale antincendio, di soccorso o della manutenzione, o come via di esodo in caso di emergenza. Ogni granello di polvere all'interno della Colonia esisteva per uno scopo preciso o, in caso contrario, veniva rimosso.
E mentre le mie silenziose guide mi conducevano ad uno dei molteplici, efficientissimi ascensori tutti uguali tra loro, mi sorpresi a chiedermi se agli occhi del sistema io avessi una ragione d'essere.
Ero solo una ribelle visionaria fuori dagli schemi, con idee incomprensibili e comportamenti incontrollabili, inutili nel migliore dei casi e dannosi nel peggiore.
Avevo mai dato il mio contributo al benessere collettivo? Avevo intenzione di farlo?
Due operai con le tute della manutenzione incrociarono il nostro percorso, senza degnarci nemmeno di un'occhiata. Uno dei due, un ragazzo, portava un macchinario su un carrellino, mentre l'altro, più anziano, si limitava a camminargli accanto, stando attento che il carico non si ribaltasse.
«Sicuro che non si possa riparare?» stava chiedendo l'apprendista.
«Puoi scommetterci il tuo giorno di riposo!» replicò l'altro.
«E allora?»
«Allora, non serve più a nulla. Non ha più nessuna utilità.»
«Quindi, lo buttiamo?»
«Sei pazzo? Verrà smontato. I pezzi ancora buoni potranno essere usati come ricambi, mentre il resto potrà essere fuso e diventare materia prima per nuovi oggetti. Nella Colonia non si butta via niente, non ve lo insegnano, a scuola?»
I due sconosciuti entrarono in un ascensore accanto al nostro. Le guardie, invece, mi fecero entrare in un altro e il più alto in grado inserì una chiave magnetica nel tastierino di selezione: l'accesso ai piani più alti era riservato.
Guardando le porte che si chiudevano con un sibilo, pensai che agli occhi del Gran Consiglio, io non dovevo essere molto diversa da quel dispositivo di cui ignoravo perfino la funzione.
Chiusi gli occhi e li immaginai mentre mi condannavano ad essere smembrata e trasformata in fertilizzante.
Decisamente non era lo spirito giusto con cui affrontare una simile audizione.
SPAZIO AUTORE
Ciao cari lettori, come state?
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che mi sono divertito a creare il rapporto tra la ribelle Ashlie e la madre e nel cercare di motivare il loro conflitto senza essere noioso né sfociare nella banalità. Ovviamente solo voi potete dire se ci sono riuscito. ;)
Inoltre, riusciamo finalmente a dare uno sguardo dentro al Formicaio, dove ogni cosa è votata all'efficienza. Vivere in un posto simile deve essere davvero alienante, povera Ash! Per fortuna lei ha un carattere forte e preferirebbe farsi prendere a schiaffi piuttosto che uniformarsi alla massa!
Ultimamente Wattpad mi fa un macello con gli spazi e gli "a capo" quando copio/incollo il testo dal mio Word Processor :( spero sia un inconveniente momentaneo perché per togliere gli spazi, per assurdo, devo andare per forza da app! Quindi in pratica mi tocca pubblicare e poi riaccedere in modifica dal telefono XD
A rileggerci presto!
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