Il disegno
La notte era calata come un manto scuro su quella parte di litorale. Aveva portato con sé una brezza calda e leggera che soffiava dal mare in rapidi sbuffi, come i sussurri di un'amante. C'erano ancora voci che venivano dal ristorante dietro di lui, grida attutite dai pini che proteggevano la costruzione in una corazza di legno slabbrato e aghi pungenti.
Ray scendeva dalla scogliera, serpeggiando fra le grosse rocce rese livide dalla poca luce del tramonto. Cercava di raggiungere una scala poco più giù, incassata fra due pareti verticali di arenaria biancastra. Bisognava però prendere quella via tortuosa per arrivarci e, se non si faceva abbastanza attenzione, le probabilità di scivolare e rompersi qualcosa erano molto alte.
Non che a lui importasse molto in realtà, scendeva e basta. La mente ritorta in pieghe di vita passata, grinze che non riusciva a stirare. Si guardò le mani richiamato da un pizzicore dei polpastrelli: sangue viscoso e rosso acceso gli dipingeva la pelle in leggeri schizzi. Doveva essersi tagliato in qualche modo su quelle rocce irte di punte acuminate ma non se ne curò, gli era già successo altre volte in fin dei conti.
Un giorno Francine aveva dovuto portarlo in ospedale dove gli avevano dato ben dieci punti di sutura. Un lungo taglio sulla caviglia, roba da temerari. Peccato che lui stesse scendendo come un equilibrista fra quelle rocce, cercando invano di portare sani e salvi alla spiaggia borse, borsettine e ombrelloni, mentre Francine lo seguiva trattenendosi alle sporgenze calcaree rese bollenti dal sole estivo.
Ricordava ancora il dolore lancinante, quel tipo di dolore che colpisce improvvisamente come una martellata tirata per sbaglio su un dito. La pelle si era lacerata e in men che non si dica la sofferenza si era sparsa dalla gamba fino al resto del corpo. Mai aveva provato tanto dolore in vita sua. O forse sì, qualche anno dopo però, e in quel caso non si era esattamente sparso nel corpo quanto più concentrato nel cuore. A cercare di confrontare i due eventi nei suoi ricordi, non sapeva se era stato il dolore per la ferita alla gamba o quello provocato in seguito da Francine a fare più male. Erano stati entrambi improvvisi e entrambi estremamente dolorosi, ora che ci pensava. Ma doveva dimenticarsene, tutto ciò faceva parte del passato e del passato rimangono cicatrici asciutte e nulla più.
Superò l'ultimo tratto di roccia mentre il cielo all'orizzonte virava da un grigio acciaio a un celeste marcato. La striscia pallida di giallo, dove il sole si era tuffato oltre l'orizzonte, si assottigliò ancora di più prendendo lo spessore di un capello. Poi riuscì a scorgere il mare finalmente: si apriva in una distesa enorme e incontrastata, scossa da venature come quelle dei pini che si era lasciato alle spalle qualche minuto prima. Aveva un colore grigio ferro, antracite quasi, per quanto era scuro. Ora che le sue orecchie si erano abituate al silenzio, poteva finalmente udire anche il suono leggero della risacca che si infrangeva sulla spiaggetta nascosta al di sotto della scogliera. La conoscevano solo lui, Francine e qualche altro avventore che avevano incrociato negli anni precedenti. Era un buon posto, la sabbia era soffice e leggera quasi quanto la farina e l'acqua, poi, era trasparente come un cristallo. Permetteva di vedere il fondo fino a due o anche tre metri di profondità.
Francine non si era allontanata mai così tanto. Lei rimaneva a prendere il sole sulla spiaggia per quasi tutto il giorno. Gli rivolgeva un leggero sguardo d'assenso quando le diceva che stava per allontanarsi a dare un'occhiata ai pesci. Gli occhi sempre nascosti dietro quelle lenti scure di quegli stupidi occhiali marroni che le piacevano tanto. Eppure, perfino sotto quei vetri colorati di nero riusciva a vederla. Quell'occhiata stanca, seccata, come di un sentimento celato che veniva allo scoperto solo per un secondo, per poi scomparire di nuovo nei recessi di quegli occhi annoiati. Ed era spesso stato così, ogni volta che le parlava.
Ora i suoi occhi si posarono sul primo gradino della scala di roccia che scendeva ripida e pericolosa verso il mare. Mosse un passo e incominciò a scendere, aggrappandosi al passamano corroso dalla ruggine. Sulle mani le scaglie ferrose gli rimasero aggrappate come parassiti in cerca di sangue. Non se ne curò, non aveva molta importanza per lui. Francine, invece, avrebbe fatto una smorfia di disgusto e gli avrebbe chiesto di tenerle la mano, ma stavolta lei non era con lui, era lassù, da qualche parte nel ristorante, a brindare col suo sposo forse o a ballare con una vecchia zia dimenticata e invitata solo per cortesia.
Francine. Quella che se n'era andata. Quella che: "Mi dispiace Ray ma ho un altro, scusa". Quella che lo aveva lasciato di punto in bianco senza dargli una grossa spiegazione. Quella che lo aveva tradito fin dai primi mesi insieme, ma lui era stato troppo stupido per capirlo. Quella che aveva avuto interesse solo nelle sue conoscenze universitarie per farle passare gli esami più ostici. Sì, quella Francine. Quella che gli aveva detto: "Baciami sulla guancia perché mi si rovina il rossetto". Sì, proprio lei, quella che gli aveva fatto prendere dieci dannatissimi punti per scarrozzargli in giro borse e borsettine varie giù per la scogliera che ora aveva proprio alle spalle.
Mise un piede sulla spiaggia. Non ricordava di aver tolto le scarpe eppure il contatto con la sabbia fredda lo fece rinsavire, distogliendolo dai suoi pensieri. La sensazione era piacevole. Sentiva i granelli affondargli fra gli interstizi dei piedi, sentiva il freddo del terreno in netto contrasto con la brezza calda e alitata che soffiava dal largo verso l'entroterra.
Contrasti, pensò. Il mondo era fatto di contrasti. C'era però chi riusciva a volgerli a proprio favore. Francine era una di quelle, almeno lui credeva che lo fosse. Pensò allo sposo, un certo Richard. I capelli ricci e neri che scendevano in boccoli sulla faccia bianco latte. Un contrasto netto. Quello lo aveva guardato con un sorriso tirato quando Francine li aveva presentati qualche ora prima, durante la cerimonia in cattedrale.
-Questo è Ray.- gli aveva detto, non solo con quella certa altezzosità che la contraddistingueva, ma con un tono leggermente diverso, sottointeso, come se volesse far intendere qualcosa.
"Perciò Richard sapeva." Questo era stato il primo pensiero di Ray. Questo era stato ciò che gli era passato per la mente in quel nanosecondo, mentre lo sposo allungava la mano pallida e bianca come quella di un cadavere. Lui sapeva.
"Questo è quello di cui mi sono approfittato per tre anni Richie", "Questo è quello che mi ha fatto passare tutti gli esami all'università, caro Richie. Suo padre è il rettore!", "Questo è quello che mi sono scopata con disgusto solo tre volte Richie e gliel'ho anche detto!", "Questo è..."
-Ray.- aveva risposto allo sposo, e quello gli aveva stretto la mano con delicatezza, quasi con mollezza a dire la verità. Sembrava di stringere le estroflessioni di un polpo morto, immobile e in un certo qual modo disgustoso. Il contrasto con i suoi muscoli che si intravedevano oltre la camicia era qualcosa di ironico e allo stesso tempo deprimente. Un contrasto, anche quello, che lei aveva saputo volgere a suo favore.
Ray era passato oltre, lasciando spazio alla sfilza di invitati dietro di sè, sulla faccia un ghigno che non si era trasformato in una risata isterica solo per qualche volontà divina. Lui sapeva, lei glielo aveva detto. Pensava si fosse risparmiata almeno lui, il suo dannatissimo marito, ma non Francine, avrebbe dovuto aspettarselo. Lui sapeva.
Alzò un gamba quando sentì una fitta trapassargli la pianta del piede a contatto con la sabbia fresca. Sui granelli si era formato un piccolo grumo scuro, una minuscola palla di sabbia come quella che i bambini usano tirarsi fra loro per divertimento. Solo che questa era in miniatura, grande quanto un chicco d'uva o poco meno. Mentre la osservava, si staccò e cadde nella sabbia aprendosi e fratturandosi. Dalla pianta del piede un goccia di un liquido scuro la seguì: le rocce taglienti dovevano avergli ferito anche quella parte di corpo, oltre che le mani. Non se ne curò, non aveva importanza adesso. Sospirò invece e, ignorando il pizzicore sotto il tallone, si diresse verso il mare ora quasi totalmente buio. Aveva perso tutto il suo colore e riluceva nel bagliore delle poche stelle che erano spuntate a trapuntare il cielo. Rifulgeva di nero, un enorme nastro scuro e ombroso poggiato sull'orizzonte a tagliare in modo netto il panorama.
Ray avanzò in silenzio, potendo ascoltare finalmente il sussurro soffocato delle onde che si infrangevano sulla battigia. La risacca somigliava al respiro stanco e flebile di un animale in attesa. Non si vedeva ancora, come non si vedeva il moto delle onde in quel buio, ma si sentiva. Ray percepiva la brezza calda che soffiava dal largo come un respiro affannoso tra fauci invisibili e ne sentiva il caldo appiccicoso sulla pelle e sotto i vestiti. Si dimenticò perfino del leggero dolore al piede in quel momento, si dimenticò delle abrasioni sulle dita e del sangue che aveva sulle mani e sugli abiti. C'era solo il mare, lì, davanti a lui, poggiato sull'orizzonte come un'enorme bestia pronta a ghermirlo con artigli d'acqua gelida e nera. Ma lui era stato già ghermito una volta. La bestia lo aveva spolpato per risputarlo fra i vivi lasciandolo privo del cuore, il muscolo forse più importante di tutti. E la bestia aveva riso subito dopo, additandolo e gorgheggiando come se fosse tutto uno scherzo.
Una smorfia amara gli apparve sul volto mentre le labbra pronunciavano soffiando: "Francine". A lei doveva essere sembrato tutto uno scherzo, un bello scherzo, uno di quelli che la faceva ridere a crepapelle. Ma aveva mai riso in sua presenza? Ora che se lo chiedeva, non ne era certo. Sicuramente aveva urlato, più e più volte. Fino a qualche minuto prima gli aveva urlato in volto, quale migliore addio?
Scosse la testa e avanzò ancora, finché le onde che si infrangevano sul bagnasciuga gli lambirono le dita dei piedi. La ferita bruciò a contatto col sale, ma a Ray non importò, rimase a gambe divaricate con lo sguardo basso verso l'acqua scura tempestata di riflessi. Adesso la vedeva chiaramente la risacca. Non assomigliava affatto ad una bestia ora che i suoi occhi si erano abituati alla luce sempre più scarsa. Ma è così in fin dei conti, tutto sembra spaventoso da lontano. E' da vicino che si colgono i particolari buffi e divertenti, è da vicino che le cose fanno meno paura, perché si ha la possibilità di affrontarle.
Anche Francine, quel giorno in cattedrale, gli aveva fatto paura da lontano. Quel suo lungo vestito bianco e quella crocchia di capelli biondi sulla testa lo avevano destabilizzato per qualche secondo. Eppure, quando si era avvicinato per presentarsi allo sposo, il suo cuore si era calmato, la faccia si era distesa in un sorriso, le membra si erano rilassate. Era la solita Francine. La solita meschina Francine.
Un urlo arrivò da lontano a interrompere i suoi pensieri, dal ristorante sopra la scogliera, in contrasto con la brezza che soffiava dal lato opposto. Lo sentì scendere sulle scalinate, capitombolare sulla sabbia e finire nelle sue orecchie in strani echi. Non se ne curò, non gli importava. Si tolse la camicia invece, e si accorse che doveva averla sporcata tutta quanta col suo sangue perché nel buio tetro della notte non rifulgeva più bianca ma era chiazzata di opaco in molti punti. La lasciò cadere sulla sabbia e il movimento del busto gli procurò un dolore allo stomaco. Vi ci poggiò una mano sopra: doveva essere stato il vino o quel cocktail da quattro soldi che avevano servito per aperitivo. Fece una smorfia e, con ancora indosso i pantaloni, entrò in acqua.
Si sollevarono spruzzi mentre la superficie veniva tagliata da quel corpo estraneo, quasi il mare si chiedesse il perché, chiedesse il motivo del suo arrivo. Ma Ray non lo sapeva e rimase zitto, l'acqua salata che gli faceva bruciare le ferite.
Le stelle non si riflettevano più sulla cupa superficie nera, ora completamente sconquassata dalle onde che lui stesso aveva creato. Sogghignò a quel pensiero mentre camminava verso il largo: poteva cancellare le stelle. Sì, poteva farlo, ora. Passò una mano sul pelo dell'acqua, muovendo il liquido salato e facendo in modo che non riflettesse nulla se non un nero opaco increspato di venature cangianti.
Anche Francine si doveva essere sentita così. Sì, proprio lei, che aveva avuto la sua vita in pugno per tre anni. Francine che sicuramente gioiva nel sentirsi padrona di una vita, soprattutto della sua. Soprattutto se quella era la vita di Ray. Era così che doveva essersi sentita. Capace di fare il bello e il cattivo tempo, capace di nascondere le stelle. Capace di innalzarlo quando lo desiderava e capace di affondarlo quando decideva il contrario.
Ma stavolta Ray avrebbe deciso per sé. Continuò a camminare con le dita che lambivano la superficie finché l'acqua non gli arrivò al petto, poi prese un bel respiro e si lasciò affondare. Poco prima che le sue orecchie si riempissero di liquido, udì dietro di lui un urlo più nitido, vibrante nell'aria come il tintinnare del metallo e portato dalla brezza fresca di ritorno. Ma non se ne curò, c'era solo il mare ora. Il mare che lava i ricordi e che li porta a fondo in abissi scuri dove non possono essere ritrovati.
Mentre calava giù trattenendo il fiato, vide un rivolo scuro sollevarsi da sotto di sé, serpeggiante e danzante nell'acqua già buia. Si guardò allora l'addome e lo tastò con le dita che si muovevano a rilento nell'acqua. Una ferita. Lì, sullo stomaco. Netta, leggermente slabbrata verso la parte che puntava a destra. Spandeva sangue scuro nell'acqua buia e saliva, su, verso la superficie, come i ricordi che voleva dimenticare ma che vennero a galla comunque. Il mare non li portò a fondo quella volta, li fece salire in superficie. Li vide fra le spire del sangue, aggrappati a quell'ultima forma del suo essere che usciva dal corpo come a scappare. Quasi che i ricordi provassero vergogna, una pudicizia pavida che arrossava leggermente il mare.
Anche Francine era arrossita. Non di vergogna ma di rabbia. Sì, proprio rabbia. Non aveva neanche provato paura, forse quella solo alla fine. Quando le aveva sparato con la sua calibro 38, lei lo aveva solo guardato e aveva urlato. Sì, proprio urlato, ma non di sorpresa, di rabbia.
La sua faccia si era tinta di rosso, come il suo vestito una volta che il sangue lo aveva impregnato. Dalla spalla era sbocciato un fiore vermiglio che era germogliato in una enorme rosa rossa. Poi lui aveva aggiustato la mira, là, proprio sul cuore. Come un moderno cupido che al posto dell'arco dispone di una calibro 38 e due caricatori. La freccia del colpo di fulmine si era trasformata nella pallottola del colpo di pistola. E allora lei forse aveva provato paura. Sì, forse per un secondo, mentre il rossore della faccia la abbandonava e si lasciava cadere in avanti travolgendo la torta nuziale a quattro piani.
Poi tutti erano fuggiti. Aveva sentito il pavimento vibrare come se una mandria di maiali avvolti in vestiti da cerimonia ruzzolasse in cerca degli avanzi gettati dal pastore. Allora aveva sparato a Richard. Sì, proprio lui, Sir "Mani Molli" Richard. Aveva alzato quelle appendici da polpo in aria e in quel momento era sembrato più che mai un octopus che cercasse una via d'uscita dall'acquario in cui era imprigionato.
Ma non c'erano vie d'uscita. Non quel giorno. Francine non dava via d'uscita, o c'eri o c'eri. Con lei funzionava così e anche per Ray avrebbe funzionato così quella sera. E Richard c'era. Era là, proprio di fronte a lui, le mani tese verso il cielo come dei tentacoli tremanti. Lo aveva preso in testa, almeno credeva. Che differenza poteva fare, lo aveva colpito e in ogni caso non gli importava molto di lui.
Poi era arrivato il padre di Francine, il dottor Glenn. Grand'uomo lui, sul vero senso della parola. Un grassone immane, a differenza della figlia. Gli era venuto incontro brandendo un coltello e glielo aveva piazzato nello stomaco fino al manico. Anche lui c'era. Anche lui era lì, di fronte a Ray. Cosa avrebbe fatto Francine? Lo avrebbe usato, sì, lo avrebbe fatto se fosse stata in quella situazione.
Gli aveva appoggiato la canna della pistola sul collo e aveva sparato. Il sangue era volato un po' in ogni dove, imbrattando pavimento e pareti. Il dottor Glenn, grasso com'era, era caduto al suolo con un tonfo sordo che era riuscito a sovrastare perfino le urla degli invitati. Aveva il collo squarciato e l'aorta rovinata spargeva sangue al ritmo della musica che ancora proveniva dalla sala da ballo.
In quel momento aveva sentito il fischio di un bicchiere sorvolargli la testa e abbattersi qualche metro più avanti, portato a terra dalla forza di gravità. Schegge di vetro erano volate tutto intorno, come se fosse esplosa una granata a frammentazione, e gli avevano ferito un piede. Questo lo aveva fatto arrabbiare. Molto. E allora aveva sparato a casaccio nella folla, perché si sa, i bicchieri non si tirano a quel modo, il vetro può solo far male, dannazione! Aveva sparato nel mucchio degli ospiti che si rincorrevano per trovare l'uscita. Assomigliavano ad avventori all'entrata di qualche discoteca alla moda in un sabato sera più affollato del solito.
-Lasciami passare!- aveva urlato qualcuno.
-Aiuto!- aveva urlato un altro. Ma lui sparava, in giro per la sala, e la sua calibro 38 emanava i baci d'amore che Francine non gli aveva mai dato. Baci di piombo, scaturiti dal ferro, roventi ed efficaci, che scavavano buchi nella carne e lasciavano segni indelebili. Così come aveva fatto Francine. Così come aveva fatto lei.
Allora aveva riso a quella visione e aveva fatto qualche passo indietro come un pittore che ammira il suo dipinto più caro. Aveva allargato le braccia e aveva riso di gusto. Ora vedeva le pennellate, vedeva il suo tratto marcato e quello ancora più severo di Francine in quel dipinto, in quel disegno. Ora vedeva perché tutto era lì, tutto c'era.
E, come una pennellata, vide anche il suo sangue farsi sempre più scuro nell'acqua buia del mare in notturna. Vide il rivolo rafforzarsi e tanti altri aggiungersi al primo. Dal piede, da una spalla, dal collo, ricordò tutte le ferite che aveva rimediato una dozzina di minuti prima e sorrise mentre l'ultima riserva di ossigeno gli sfuggiva dalle narici. Perché ora c'era. Ora lui era lì e vedeva il disegno. C'era tutto. Tutto. C'erano le sirene che si illuminavano a stento sulla superficie dell'acqua ma che lui non sentiva, il blu e il rosso che si rincorrevano in cerchi fra le increspature salate. C'era lo spicchio di luna che si era alzata all'orizzonte e che spargeva una pallida luce giallastra e malata sul mare. Adesso c'era tutto.
Era ora di affondare. Avevano completato l'opera e lo avevano fatto insieme. Lei l'inizio, lui la fine. Ma adesso era conclusa ed era il momento di inabissarsi. Aprì la bocca quando tentò di ridere e l'acqua salata penetrò dentro a colmare il vuoto dei suoi polmoni.
Il sangue no però. Rimase sospeso di fronte al suo viso, immobile. Perché il tratto tracciato rimane, sono le persone che se ne vanno. E il sangue c'era, era Ray che non c'era più adesso.
N.d.a.: in capo a questo racconto trovate il reading (audiolibro) dell'opera stessa, a cura di un narratore professionista. Dategli un'occhiata se vi va. Grazie!
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