33. Accettiamo l'amore che pensiamo di meritare
Come quando io ti ho visto per la prima volta
Tra milioni di occhi la vita si nascose
Come fissare il sole in una notte
Far sparire tutti gli altri in un secondo come niente
Dopo un lungo inverno accettammo l'amore
Che meritiamo di pensare o pensiamo di meritare
Per questo a volte ci facciamo così male
Tiziano Ferro, Incanto
Niente riduzione d'orario ma neppure trattamento da ultima ruota del carro, ergo posso rimanere seduta alla mia postazione e portarmi avanti.
Butto giù due bozze di articolo sulla presunta liason tra il contino Sant'Orsola ed Emma Malaguti con una retrospettiva sui rapporti familiari e accenni alle opere di Elizabeth Jane, madre della ragazza, che pare essersi ispirata proprio alle vicissitudini familiari di parenti e amici per scriverle.
A proposito, contatto il diretto interessato:
A: Stasera tu ed Emma Malaguti fareste meglio a presenziare alla presentazione del nuovo libro di sua madre, in Galleria, alle 18
A: Non accetto un no come risposta
A: A meno che tu non mi voglia sulla coscienza
S: Te lo meriteresti dopo averci bidonato, ieri
A: Ho avuto le mie ragioni, un giorno magari te le spiego
A: E tu a che gioco stai giocando
A: Perché non è affatto quello che ci eravamo detti
S: Tranquilla
S: È tutto sotto controllo
S: Ci vediamo dopo
‹‹C'è un problema con il pass stampa in libreria››. Isabella Ferraris si palesa all'improvviso davanti alla mia scrivania facendomi trasalire, tanto che l'ennesimo caffè della giornata finisce sulla mia camicetta altrimenti immacolata.
‹‹Hai il resto del pomeriggio libero per andare a ritirarlo di persona e magari cambiarti››. Osserva con aria schifata la macchia che si sta allargando a vista d'occhio mentre mi affretto a rimediare con scarsi risultati.
‹‹Va bene, grazie›› taglio corto ‹‹A domani››.
Infilo la porta a passo spedito prima che ci ripensi e riesco a evitare l'ora di punta sui mezzi per tornare a casa e poi subito di nuovo in centro, verso la Galleria Vittorio Emanuele.
Per fortuna in libreria è un momento di relativa calma e, nonostante la scortesia della commessa, si riesce a risolvere il presunto problema con il pass in tempi ragionevoli. Esco quindi con la mia copia di Tango sottobraccio, per andare a mangiare qualcosa nei dintorni in attesa della presentazione, ché altrimenti rischio di svenire visto che ho saltato il pranzo.
Passandoci davanti, occhieggio Chez Castelli, chiuso a quest'ora e non posso fare a meno di arrabbiarmi pensando alla situazione di Sveva.
Cupa, entro in una caffetteria lounge bar pieno di gente in tailleur e ventiquattr'ore, che non fa caso all'ambiente circostante tutta presa a smanettare su smartphone, tablet e altri dispositivi. Gente che lavora in ambito finanziario, deduco.
L'unica a guardare fuori, da una vetrata che lascia intravedere una porzione della Scala, è una ragazza bionda, in tailleur scuro e camicetta bianca, con una tazza di tè e scones davanti. Occupa un tavolo da sola, quindi faccio di necessità virtù e le chiedo se posso accomodarmi, essendo tutti gli altri occupati. Acconsente con un cenno del capo, in seguito a una rapida occhiata.
‹‹Grazie, sto proprio morendo di fame›› esclamo, sedendole dirimpetto dopo aver fatto pagato un tramezzino e una bottiglietta d'acqua. ‹‹Devo partecipare a un evento qui vicino tra poco e negli altri locali non c'era posto››.
‹‹Qui non è male e sanno servire un tè decente›› commenta lei, prendendo un sorso del suo.
Registro una lieve inflessione straniera mentre la ragazza fa cadere distrattamente un'occhiata sulla copia del romanzo di Elizabeth Jane che ho posato accanto al vassoio su cui sto mangiando.
‹‹L'ha già letto?›› chiede con tono noncurante, eppure ho la sensazione di essere sottoposta a un test.
‹‹No, l'ho appena preso›› affermo ‹‹Ho saputo solo oggi di dover partecipare per lavoro alla presentazione che si terrà stasera››.
Ne prende atto con un'espressione beffarda senza aggiungere altro ma il suo atteggiamento ha ormai scatenato la mia curiosità.
Mando giù l'ultimo boccone del mio sandwich mentre il trillo di una notifica sul suo smartphone la porta a ripescarlo dalla tasca interna del blazer in cui si trovava.
Sono abbastanza vicina da notare che non si tratta di un semplice messaggio, bensì di un Google alert. Non voglio essere indiscreta, perché a giudicare dalle prime impressioni, è una tipa che lavora in finanza o simili, eppure un'ulteriore sbirciata mi conferma che l'oggetto del suo interesse non è un qualche noioso deal bancario bensì una persona che conosco bene sia dal vivo che in foto. Sirio Valderamo Sant'Orsola.
I nostri sguardi si incrociano nello stesso momento, negli occhi un lampo di riconoscimento, almeno da parte mia. Dubito, infatti, che Claire Bertrand sappia chi sono.
Faccio finta di nulla: ‹‹Lei invece?››
La domanda la coglie alla sprovvista: ‹‹Cosa?››
‹‹Lo ha già letto il nuovo romanzo di Elizabeth Jane?›› chiarisco.
‹‹No, aspetto quello in cui prenderà spunto dalla relazione della figlia›› ribatte, acida ‹‹Anche se non sono una grande sostenitrice di chi mette in piazza la vita privata propria e altrui per vivere››.
‹‹Allora non rientrerei nemmeno volendo nella sua cerchia di persone preferite›› ironizzo ‹‹Visto che è anche il mio mestiere. Alba Pavesi, giornalista››.
Tendo la mano verso di lei per le presentazioni ufficiali ed è costretta a ricambiare, se non altro per non sembrare scortese:
‹‹Claire Bertrand›› conferma i miei sospetti ‹‹Credo che lei lo sappia già››.
‹‹Ho sentito molto parlare di lei›› la assecondo ‹‹E sono un'assidua consumatrice del caffè prodotto dall'azienda di suo padre››.
‹‹Sarà felice di saperlo›› dichiara ‹‹Ora scusi, ma devo proprio andare››.
Non mi oppongo ma la osservo allontanarsi e, senza sapere perché, provo una gran tristezza.
Il lavoro, tuttavia, non ammette sentimentalismi, quindi mi affretto anche io a uscire dalla caffetteria per dirigermi alla presentazione.
Si è già formata una discreta coda, che salto in virtù del mio pass.
Anna De Giorgis è già in libreria, sta rilasciando qualche video intervista a un paio di emittenti sotto lo sguardo assorto dei librai e di un paio di assistenti che le curano la comunicazione.
Poco distante, sua figlia è in compagnia proprio del contino.
‹‹Sirio›› lo apostrofo ‹‹Oggi ce l'ho fatta a essere di parola››.
‹‹Vedo, e mi fa piacere›› replica lui con fare galante ‹‹Alba, ti presento Emma Malaguti, mia carissima amica nonché figlia della nostra scrittrice preferita. Emma, lei è Alba Pavesi, l'amica giornalista di cui ti parlavo››.
Per la seconda volta in un giorno mi trovo a conoscere in via ufficiale una persona di cui mi pare di sapere già tutto. La stretta è salda ma il sorriso un po' tirato, segno che la situazione non la mette del tutto a suo agio.
‹‹Posso rubartelo un attimo?›› le chiedo, tra il serio e il faceto.
‹‹Ma certo, basta che non vi allontaniate troppo›› replica lei ‹‹Non sia mai che si veda il grande campione senza accompagnatrice per un po'››.
Sirio se la ride mentre ci appartiamo in un angolo della libreria: ‹‹Ho il via libera del giornale per scrivere di te, anzi, mi ci sto giocando la carriera ancora prima di iniziare›› lo informo ‹‹Però devo anche documentare la presentazione di tua suocera, oggi››.
Sant'Orsola scuote la testa, beffardo: ‹‹Anna non è e non sarà mai mia suocera perché Emma e io non stiamo insieme››.
‹‹Ah, no? Perché pare proprio di sì, e non solo a me››.
‹‹Me l'hai suggerita tu l'idea della visibilità social, no? Emma è la complice perfetta, perché anche a lei interessa attirare le attenzioni di un tipo che non se la fila e poi Claire la detesta››.
‹‹Perché?›› indago.
‹‹Questione di lealtà. Claire è la migliore amica di mia cugina Virginia, che è in competizione con Emma per la futura guida dello studio legale, esattamente come zio Alberto e Alvaro lo sono adesso, pur essendo soci alla pari dopo l'inaugurazione della succursale qui a Milano››.
‹‹Tu non c'entri, in questa faida?›› insisto ‹‹Se la Bertrand tenesse a te come tu sostieni di fare con lei, avrebbe tutte le ragioni per disprezzare la tua amica Emma. E, bada bene, non ti sto nemmeno chiedendo da che parte stai››.
‹‹Io sono neutrale, come la Svizzera›› dichiara, beffardo ‹‹Risiederci per gran parte dell'anno avrà pure dei vantaggi, no?››
Con questa battuta si allontana e capisco che non caverò più un ragno dal buco.
Sarebbe fantastico se, a questo punto, Anna De Giorgis concedesse un'intervista anche a me ma, ovviamente, è chiedere troppo perché la presentazione sta per iniziare e mi accontento di una dedica soltanto, scarabocchiata in fretta e furia, che non ho neppure il tempo di leggere.
L'evento comincia e subito si entra nel vivo del libro che, come prevedibile, è liberamente ispirato alla sofferta storia d'amore tra Ella Rubenstein alias Stella Valderamo Sant'Orsola e il suo secondo marito, che hanno vissuto circa quindici anni di tormento prima di giungere a giuste nozze.
Il tema delle relazioni travagliate non mi è particolarmente caro al momento, quindi raccolgo materiale sufficiente per poi abbandonare la nave, prima della fine.
All'occhiata interrogativa di Sirio, rispondo con un cenno che vorrebbe rassicurarlo su aggiornamenti a breve ma non mi fermo ad assicurarmi che abbia compreso.
È quasi ora di cena, la Galleria brulica di gente e devo sbrigarmi se voglio prendere i mezzi evitando la ressa.
Chez Castelli, a differenza di prima, è aperto e diversi camerieri in livrea stanno preparando la sala per il servizio della cena.
Ed è proprio sulla soglia del ristorante stellato gestito dalla merda che ha messo incinta la mia migliore amica senza curarsi delle conseguenze che rivedo l'uomo che ha generato e devastato la mia, di vita, infischiandosene per un quarto di secolo.
Federico Pavesi è invecchiato male e sono sollevata nel constatare di non somigliargli affatto.
Se confronto l'immagine del capellone biondo con tanto di codino e tuta da meccanico qual era il giorno che mi ha lasciata all'asilo senza più tornare a riprendermi, ultimo ricordo che ho di lui, con quella dell'uomo di mezza età imbolsito, stempiato e vestito da pinguino di adesso stento a riconoscerlo. Ma lo faccio, perché la faccia scavata da toporagno è sempre la stessa, nonostante qualche ruga in più e un paio di occhiali da presbite.
Forse lo sto fissando da troppo tempo perché, a un certo punto, ricambia lo sguardo. Ma io sono più veloce, e lo sposto sulle due donne che sono insieme a lui.
Entrambe dai marcati tratti latini, con carnagione e ricci scuri acconciati in onde setose, potrei azzardare siano madre e figlia stimando che la più adulta abbia quarant'anni circa e la più giovane sia appena maggiorenne o quasi. Si somigliano molto e, dopo aver scrutato il menù all'ingresso, entrambe esortano Federico a entrare.
Una piccola famiglia felice e forse lo sono, a giudicare dal modo in cui le due donne scherzano con lui. A confermare l'impressione, anche quella che non dovrei essere qui, la ragazza lo chiama papito. Papà, in spagnolo.
È la goccia che fa traboccare il vaso, facendomi schizzare via come fossi inseguita da un serial killer. Come in un sogno, salgo sul tram e conquisto un posto a sedere. Non ho contezza delle fermate né di dove voglio andare, la mia mente è ferma alla scena appena vista, a una ragazzina che appella mio padre come suo.
Suo, non mio.
Perché io non sono amabile, degna di dare amore o riceverne.
Sono la ragazzina con la testa fra le nuvole piena di sogni di gloria ma non d'amore.
Accettiamo l'amore che pensiamo di meritare e io, semplicemente, non sono sicura di volerlo.
Stefano ha ragione, sono insicura.
Rotta, incasinata, vittima di un'eterna sindrome dell'impostore.
Da quando ho capito che mio padre non sarebbe tornato, ho messo su una maschera a seconda della persona con cui avere a che fare, tutte con un unico obiettivo: non farmi mai più trovare impreparata davanti a una situazione del genere. Non permettere più a nessuno di provocarmi un simile dolore. Perché è troppo, troppo forte, cazzo, e mi annichilisce in un modo tale che non rispondo più di me.
Scoppio a piangere convulsamente ma nessuno bada a me.
Scendo comunque alla prima fermata, senza nemmeno sapere dove mi trovo, sotto la pioggia battente che sta cadendo.
Confusa, mi siedo su una panchina che sta sotto un lampione mezzo fulminato.
Dovrei reagire anziché stare a inzupparmi così ma l'unico istinto di protezione che ho voglia di seguire è quello di rannicchiarmi in posizione fetale fino a non sentire più nulla.
Una voce mi riscuote: ‹‹Alba? Che stai a fare qua?››
C'è un taxi accostato con la portiera aperta e un uomo che mi sta chinato davanti, preoccupato.
‹‹Regazzina, che ti è successo? Qualcuno ti ha...fatto male?››
Regazzina. C'è solo una persona che mi chiama in questo modo.
Scuoto la testa anche se non so se può vederlo: ‹‹Step››.
‹‹Sono qua, ti porto a casa›› esclama, aiutando ad alzarmi.
Mi tiene stretta fino a farmi sedere nel taxi rimasto ad attendere. Detta al tassista il mio indirizzo sedendosi al mio fianco ma non troppo vicino, come avesse paura di toccarmi ancora. Invece vorrei che lo facesse, perché ho freddo, mal di testa e non riesco a tenere gli occhi aperti.
All'improvviso tutto si fa confuso e la voce di Stefano si fa flebile, indistinta. Vorrei rimanere presente a me stessa ma è uno sforzo troppo grande, così mi affido a lui.
‹‹Cazzo, Alba, resta sveglia che devi fare una doccia calda, sennò ti viene la febbre›› mormora, pagando la corsa e portandomi praticamente in braccio fino al mio appartamento.
Biascico qualcosa ma non ce n'è bisogno, perché capisce che le chiavi sono in borsa e apre la porta dopo averle recuperate.
Mi dà degli schiaffetti leggeri sulle guance: ‹‹Ehi, mi senti?››
Faccio su e giù con la testa, ma questo peggiora le cose, perché mi gira tutto come una trottola.
‹‹Se vuoi ti aiuto a togliere i vestiti›› propone, con un filo di imbarazzo ‹‹Per lavarti, ovvio››.
Parlare è uno sforzo immane: ‹‹Lo so che hai già visto tutto ma faccio da sola››.
Mi trascino in bagno e mi svesto lentamente. Il getto del soffione è un altro shock ma necessario, perché il calore aiuta.
Non so quanto tempo passo in doccia, seduta sul fondo mentre l'acqua lava via lo sporco, il freddo, il trucco e la sensazione di vuoto che provo sempre, stasera più che mai, quando si tratta di mio padre.
Quando esco, avvolta in accappatoio e asciugamani, penso che Stefano se ne sia andato e invece è ancora nell'ingresso, come l'ho lasciato. Indossa un cappotto scuro, umido di pioggia, abbinato a scarpe di pelle dello stesso colore. Anche i capelli sono bagnati, un po' appiattiti, ma lui non sembra farci caso perché i suoi occhi sono su di me.
‹‹Stai meglio?›› si informa ‹‹Me lo dici che ti è successo, regazzina?››
‹‹Niente di grave, per fortuna›› mormoro, senza riuscire a ricambiare il suo sguardo ‹‹Ero solo... un po' persa››.
Mi scruta con maggiore attenzione ma, prima di ogni ulteriore commento, aggiungo:
‹‹Grazie per il tuo aiuto››.
‹‹Figurati›› minimizza subito e io mi sento in colpa.
‹‹Togliti quel cappotto, altrimenti rischi di beccartelo tu un raffreddore›› esclamo ‹‹Sei fradicio, ti prendo un telo e puoi anche fare una doccia calda se ti va››.
‹‹No, sono a posto, grazie›› declina l'offerta ma io insisto: ‹‹Di là ci sono degli abiti da uomo mai usati, credo li abbia lasciati il coinquilino precedente di Sveva. Se ti vanno, sono tuoi››.
Solo a questo punto sbircio la sua espressione, che si è fatta pensierosa.
Per un attimo, temo che se ne vada. E io non voglio stare da sola, non stasera.
‹‹Non te ne andare, per favore››.
È a metà tra una supplica e una richiesta, che lo trova bendisposto.
‹‹Okay›› replica soltanto, e cala il silenzio.
‹‹Ho rivisto per caso mio padre, venticinque anni dopo che ha abbandonato me e mia madre senza nessuna spiegazione›› confesso ‹‹Qualche giorno fa è arrivata una lettera del suo avvocato con cui chiede il divorzio per potersi rifare una vita in Cile, dove abita adesso, e stasera me lo sono trovato davanti in Galleria, mentre andava a cena da quello stronzo di Castelli con la sua nuova famiglia››.
Non riesco a trattenere le lacrime che mi segnano le guance mentre ripenso alla scena. ‹‹Cos'ho di sbagliato, io?›› chiedo ‹‹Perché non è rimasto con me e mamma? Perché non si è mai fatto vivo in tutti questi anni? Non mi ha mai cercata...››
Suono patetica alle mie stesse orecchie eppure non riesco a smettere.
Ormai piango talmente forte che non lo sento avvicinarsi e, quando me ne accorgo, è già di fronte a me: ‹‹Guardami, regazzina. Tu non hai niente che non va. È lui che è un povero stronzo››.
Mi abbraccia e io, contro ogni buon senso, lo lascio fare. Nonostante io sia ancora in accappatoio, i capelli avvolti in un telo di spugna e l'autostima sotto i tacchi, Stefano non si approfitta della situazione e mi tiene stretta con insospettabile delicatezza, come farebbe con qualcosa di fragile e incredibilmente prezioso.
‹‹È meglio se ti metti addosso qualcosa e ti stendi›› suggerisce dopo un po' ‹‹Io mi cambio e ti porto qualcosa di caldo››.
Non ho la forza di protestare, quindi raggiungo la mia stanza, indosso il pigiama più dignitoso che ho - un pile con un'imbarazzante stampa a fiori - asciugo i capelli alla meno peggio e accendo la tv in sottofondo per aspettarlo.
Devo essermi addormentata nel frattempo, perché quando riapro gli occhi la televisione è spenta e lui è seduto sulla sponda del letto, di fianco a me, tra le mani un vassoio con su una tazza fumante e una merendina confezionata.
‹‹Devi mangiare prima di prendere una medicina›› ordina, passandomi tutto ‹‹È latte caldo con miele e cannella, la merendina invece è tutto quello che ho trovato in dispensa››.
‹‹Sì, ho dimenticato di fare la spesa›› borbotto ‹‹Comunque grazie, ma non dovevi scomodarti››.
‹‹Tranquilla›› taglia corto, osservandomi mentre spazzolo tutto ché, a parte il tramezzino in compagnia di Claire Bertrand, non ho mangiato nulla.
La testa torna a farsi pesante e, a malincuore, cedo al paracetamolo per abbassare la febbre che, alla fine, è salita lo stesso. Perciò mi assopisco di nuovo e quando mi sveglio è ormai mattina, lo capisco dal sole che filtra dalle tapparelle che ho dimenticato di serrare come si deve.
Rimango a vegetare nel letto ascoltando i rumori della casa e, non avvertendone alcuno, deduco che il mio buon samaritano se ne sia andato.
Il Tamarro è stato provvidenziale e non mi doveva nulla, dato lo stato dei nostri rapporti eppure mando giù la delusione per la sua assenza al risveglio insieme al bicchiere d'acqua che mi ha lasciato pieno sul comodino, constatando che la febbre è passata.
Chiamo comunque in redazione per informare che sto male e, ricordando che l'ultimatum imposto dalla Ferraris scade stasera, assicuro che invierò il pezzo quanto prima.
Proprio quando sto per mettermi a lavorare, dopo una doccia calda e veloce accompagnata da caffè amaro per colazione, sento il rumore di chiavi nella toppa.
Il mio cuore salta un battito mentre avanzo con passo felpato verso l'ingresso ma è Stefano.
‹‹Già alzata? Sono contento›› esclama, pieno di sacchetti ‹‹T'ho fatto un po' di spesa, ho preso le chiavi per non svegliarti››.
‹‹Grazie›› esclamo, mentre deposita sul tavolo quantità industriali di roba, comprese due brioches alla crema. ‹‹È stato un gesto carino da parte tua, non dovevi››.
‹‹Devi mangiare, sei stata male›› dichiara lui ‹‹Altrimenti non ti riprendi››.
‹‹Solo se mi fai compagnia›› rilancio ‹‹È il minimo››.
Ci spostiamo in cucina ma Stefano non sembra intenzionato ad assecondarmi, perciò afferro una brioche e gliela avvicino alla bocca con fare giocoso. Dà un piccolo morso ma il suo sguardo è sulle mie labbra e, con uno scatto repentino, anche le sue lo sono. È un bacio dolce, in tutti i sensi, e breve perché finisce ancora prima che riesca a ricambiarlo come si deve.
‹‹Aspetto ancora la tua chiamata, regazzina›› afferma per poi sparire alla vista e, ascoltando la porta chiudersi alle sue spalle, so che stavolta non ritornerà.
Game, set, match per lui, che ha ributtato la palla nel mio campo.
Peccato che io non abbia idea di come si giochi a tennis.
Sospiro.
Meglio ripartire dai fondamentali.
Spazio autrice
Sta cominciando a essere dura per Alba...
Ma si dice che quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare ;)
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