32.
La notte trascorse come un lungo incubo in cui il sopraggiungere dell'orrore conclusivo tarda a palesarsi e si disperde nelle pennellate di luce di un nuovo mattino. Mi ero da poco appisolata quando uno sferragliare mi ridestò. Prima che me ne rendessi conto, quattro mani dalla presa salda come quella di una tagliola mi tirarono su e mi trascinarono fuori da quella stalla dove Keene stipava i puritani sospettati di adempiere il volere del Diavolo. Udii le proteste di Abigail, subito zittite da un minaccioso rimbrotto. Oltrepassai la soglia e la porta di solido ferro si richiuse alle mie spalle.
Mi condussero lungo un corridoio debitamente illuminato e, quando chiesi ai due uomini che mi accompagnavano dove mi stessero portando, non ottenni risposta alcuna.
Fuori della prigione c'era un piccolo calesse trainato da un mulo. Uno dei miei accompagnatori mi legò i polsi mentre l'altro montava in cassetta e prendeva le redini. Fui aiutata a montare sul pianale e partimmo sobbalzando alla volta di Salem.
Ciò che ricordo di quella lunga e tediosa passeggiata mattutina è il cielo. Sgombro e sconfinato, che a guardarlo troppo a lungo ti sentivi risucchiare nell'azzurro. Vidi uno stormo danzare nell'aria e desiderai esserne parte, così che avrei potuto volare via, lontano dal tremendo destino che mi attendeva.
Quando il calesse si inoltrò nel cuore della città, faticai a reggere gli sguardi di coloro che incrociavano il nostro cammino. Chinai il capo e lo sollevai solo quando il mulo rallentò la sua andatura. L'uomo che mi stava accanto mi aiutò a smontare e, quando mi decisi a sollevare il mento, mi ritrovai dinanzi la Meeting House. Il campanile pareva un enorme dito intento a scandagliare le profondità della volta celeste. Mi serrarono le grosse mani sulle braccia e presero a spingermi. Sospinsero i battenti e mi ritrovai gli occhi di tutta la congrega puntati addosso. Le ginocchia minacciarono di cedere sotto il peso di quegli sguardi indagatori e, se non fosse stato per quei due, sarei di certo crollata.
Ai piedi del pulpito stava un uomo dall'aspetto severo. Il suo viso era affilato e senza espressione, ma gli occhi dicevano ciò che lo sconosciuto nascondeva sotto una coltre di apparente impassibilità. Indossava abiti raffinati, spazzolati con cura, e i suoi capelli conoscevano il tocco del pettine.
Nel vedermi arrivare si fece da parte, rivelando una sedia alle sue spalle.
I miei aguzzini allentarono i legacci che mi serravano i polsi, ma solo per il tempo che gli occorse ad assicurarli ai braccioli della seggiola. Una volta terminato il lavoro, si allontanarono.
Lo sconosciuto prese a camminare. Passi lenti e studiati. Il suono dei tacchi sul legno levigato si disperse per la stanza, raggiungendo gli orecchi dei presenti.
D'improvviso si fermò per rivolgersi alla congrega.
«Il Governatore in persona mi ha mandato», disse, «per estirpare il seme del male che, stando a quanto mi fu detto, pare aver attecchito come accadde nell'antica Sodoma.»
Mormorii sparsi si levarono dalla congrega. Le prime file erano occupate dai membri del consiglio. Hawthorne mi fissava con odio infernale. Vidi Parris, seduto tra gli astanti, il viso accartocciato, e ci misi poco a capire chi fosse quell'uomo che infarciva di citazioni bibliche la sua raffinata retorica.
Si trattava di Cotton Mather.
Abigail era convinta che sarebbe presto giunto a Salem. Aveva ragione. Era lì di fronte a me, che mi dava le spalle mentre faceva andare la lingua, attirando gli sguardi dei presenti.
«Sono giunto sin qui per porre fine alla tremenda...»
Mentre Mather parlava mi accorsi di qualcosa. Da una delle alte finestre laterali vedevo uno scorcio del mondo esterno, e c'era come una sottile foschia che aleggiava oltre i vetri... o almeno a me parve tale. Solo quando Joseph Andrews spalancò i battenti dell'ingresso ed entrò come una furia, compresi cosa stava accadendo.
«La Meeting House va a fuoco!» gridò dalla soglia.
Il panico iniziò a serpeggiare fra i presenti. La congrega si alzò e, come un sol corpo, prese a sciamare verso l'uscita. Joseph Andrews fu lesto a spostarsi prima che quel fiume in piena lo investisse.
Mather si volse a guardarmi. Mosse appena le labbra. La sua debole accusa si perse nel generale tramestio.
«Liberatemi!» dissi. Non si mosse. «Vi prego!»
Lessi un fermo diniego in quegli occhi spiritati. Senza pronunciare una sillaba si unì ai fuggiaschi. Guardai la finestra alla mia sinistra e vidi le prime lingue di fuoco. Presi a divincolarmi, arrivai persino a mordere i legacci, ma non ottenni alcun risultato.
Iniziavo a convincermi che sarei arsa viva, quando ci fu un'esplosione di vetri alle mie spalle. Udii uno scalpiccio frenetico, poi vidi una mano posarsi sui legacci. Risalii un braccio magro fino al volto e, quando incontrai gli occhi, mi sentii mancare.
Mentre provavo ad articolare parole coerenti senza però riuscirci, la pressione dei legacci si allentò. John mi prese per mano e mi tirò su. Il tocco della sua mano mi riscosse. Prima di quel momento avevo creduto di stare sognando, o che la mia mente mi stesse giocato qualche brutto scherzo.
John mi guidò sino alla finestra distrutta, si inginocchiò e intrecciò le dita, i palmi verso l'alto. Sollevai un piede e glielo posai tra i palmi. Con una spinta mi aiutò ad arrivare ad altezza del telaio. Posai una mano sul bordo e, accorta a non tagliarmi con uno dei denti di vetro ancora incassati nell'intelaiatura, passai oltre. Atterrai di fuori in maniera rovinosa, mi rialzai e vidi John calarsi giù. Gli sanguinavano i palmi. Nel tirarsi su doveva essersi tagliato.
Lo osservai mentre mi raggiungeva. Notai un'intaccatura sulle vesti, all'altezza della spalla sinistra. Aveva bordi anneriti e irregolari. Quando mi venne vicino riuscii a scorgere la carne sottostante, intaccata al pari del tessuto. Si accorse che fissavo la ferita.
«Tranquilla, è solo un graffio», disse.
«Ma come...?»
«Che ne diresti di rimandare a dopo le spiegazioni?»
Mi prese per mano e corremmo via, lontano dalla Meeting House. Udivo le voci concitate della congrega provenire dalla parte opposta a quella dalla quale eravamo fuggiti. Probabilmente si stavano dando da fare per spegnere l'incendio. Udivo la voce tonante di Hawthorne che impartiva comandi, seguita da quella di Mather che faceva da contrappunto.
Dopo una lunga e sfiancante corsa giungemmo al limitare dei boschi. Ci inoltrammo in quel fortino di misteri e vegetazione e giungemmo infine alla capanna. Finalmente al sicuro, ci fermammo a prendere fiato. Sentivo l'aria nei polmoni bruciare come un vento infernale.
Sedemmo all'interno del rifugio e per qualche minuto non facemmo che guardarci, incapaci di parlare. Toccò alla sottoscritta rompere il silenzio.
«Credevo fossi morto», dissi.
«Per un momento l'ho creduto anch'io», rispose John.
Ricordava una fiammata improvvisa, il sibilo del proiettile che passava a pochi centimetri dall'orecchio e l'incendio nella spalla. La cima gli era sfuggita di mano ed era volato nel fiume. L'impatto con l'acqua l'aveva sorpreso e intontito. Aveva poi preso a nuotare sott'acqua e, sfruttando le correnti del South River, si era allontanato dal pontile. Quando era riemerso la luna era coperta, e non aveva avuto difficoltà a celare la propria presenza. Sebbene non fosse poi così distante dal punto dove era caduto, non l'avevano individuato. Aveva assistito alla mia cattura e aveva tremato nel vedere suo padre, ma già dopo pochi secondi aveva iniziato a pensare come aiutarmi.
Mentre lo ascoltavo iniziai a sentirmi a disagio. Cercai di ignorare quella sensazione, ma poi iniziai a guardarmi attorno come per assicurarmi che fossimo soli.
«Tutto bene?» chiese John.
Stavo per dirgli che qualcosa non andava, quando anche lui se ne accorse. Ci alzammo e uscimmo. La sorpresa fu grande nell'apprendere che eravamo circondati da un drappello di spettri. Solo in un secondo momento realizzammo che si trattava di indiani, e che il colorito pallido era dovuto allo strato di pittura che li cospargeva da capo a piedi. John mi prese per mano e, facendomi da scudo, iniziò ad arretrare.
«Dovremo correre. Sta' pronta», disse.
Gli indiani avanzarono senza produrre il minimo rumore. I piedi nudi sembravano impegnati in una particolare danza mentre evitavano foglie e piccoli rami secchi. Uno di loro si fermò e gli altri lo imitarono. Poi, quello che si era fermato per primo sollevò in alto l'arma che impugnava, una specie di accetta in miniatura. Prese fiato e liberò un urlo selvaggio.
Ci voltammo nello stesso istante e corremmo via, veloci come lepri. Corremmo fino a restare a corto di fiato, e neanche allora ci fermammo, spinti da un basilare istinto che infondeva nuovo vigore ai muscoli ed ai polmoni. Udivo i nostri inseguitori che, come cavalli lanciati al galoppo, ci mordevano i talloni, lanciando grida di giubilo. Erano eccitati da quell'inattesa caccia e credo che, se ci avessero presi, ci avrebbero preso lo scalpo.
John cambiò improvvisamente direzione e per poco non rischiai di cadere. Vidi disegnarsi in lontananza il Convitto del Diavolo. I passi alle nostre spalle si facevano sempre più vicini e frenetici. Ero spossata, quasi in lacrime.
«John...» mormorai.
Ci inoltrammo nel cerchio d'erba malata e caddi, stremata. Subito mi voltai, sicura di vedere i nostri inseguitori piombarci addosso, ma non accadde. Erano fermi parecchi passi più indietro.
«Cosa succede?» chiesi, stupita. «Perché hanno smesso di inseguirci?»
«È la radura», disse John. «Ne hanno paura.»
Guardai l'erba malata, che sfumava in un grigio anonimo in certi punti. Un indiano ci additò e disse qualcosa al resto del drappello. Poi venne avanti, stese le braccia rivolgendo i palmi verso di noi, e prese a intonare una cantilena che mi mise i brividi. Una volta che ebbe finito chiuse i pugni, li accostò e tirò in fuori i mignoli. Pronunciò poche parole, poi sciamò via insieme agli altri.
John sedette.
«Non sento più le gambe», disse.
«Non ho mai avuto tanta paura», dissi, avvicinandomi a lui e stringendolo.
«Siamo stati fortunati.»
Assentii. «Cos'era quella cantilena e quel gesto che ci ha rivolto alla fine?»
«Non so. Forse una specie di rituale contro il malocchio, o qualcosa di simile.»
Restammo a lungo in quella radura. John era quasi certo che se ne fossero andati, ma non si fidava a muoversi.
«Potrebbero essere nei paraggi, acquattati in attesa che mettiamo piede fuori di qui», disse.
Non c'era da stare tranquilli. Lo dimostrava il modo in cui si erano avvicinati alla capanna, silenziosi come ombre.
Dopo un po' iniziai a sperimentare strane sensazioni. Inizialmente udii uno strano ronzio nelle orecchie.
«Lo senti anche tu?» chiesi a John.
Mi disse che no, non udiva nulla, ma avvertiva un leggero capogiro. Non appena lo menzionò, una mano invisibile mi piantò un chiodo tra gli occhi.
«Non mi sento...» riuscii a dire, prima di scoprire che il naso mi sanguinava.
Gocce simili a minuscoli rubini caddero sull'erba malata e accade qualcosa di incredibile. L'erba assorbì il sangue, lo risucchiò come una bocca sdentata sorbisce la minestra da un cucchiaio. Un ciuffo di steli bassi e grigi si allungarono, o almeno io ebbi quest'impressione, e assunsero un colorito più naturale.
Provai a richiamare l'attenzione di John su quell'insano fenomeno, ma quando sollevai il mento vidi che era distratto da qualcosa. Seguii la direzione del suo sguardo e notai che al centro della radura accadeva qualcosa. All'inizio pensai si trattasse di semplice pulviscolo che ruotava nell'aria. Vorticava, assumendo forme singolari. Mi parve di riconoscere dapprima una testa di serpente dai contorni evanescenti, poi quella di un ratto e infine un fumoso volto tentacolare. Riesumai dalla memoria le leggende sull'antica divinità evocata dagli sciamani, quel semidio dai tratti mostruosi e blasfemi che avevano confinato nelle profondità della terra dopo una sanguinosa battaglia, e un folle terrore mi serrò le viscere.
Mi sollevai a fatica. Mi sentivo pesante come se avessi le ossa e i muscoli fusi in grossi blocchi di pietra.
Raggiunsi John e lo strattonai. Parve non accorgersi di me. Fissava quel pulviscolo che assumeva forme fantastiche e terrificanti: un enorme occhio, un volto caprino, una sagoma bestiale...
«John...»
Le viscere erano un groviglio pesante. Persi altro sangue e vidi il terreno assorbirlo con avidità inumana.
«John, dobbiamo andarcene», dissi scuotendolo.
Il pulviscolo prese a contrarsi come un cuore, e quando tornò ad espandersi era più compatto. Più... reale.
«Cos'è quello?» mormorò John.
Stava emergendo qualcosa. Era una figura alta come una casa. Il volto era l'orrenda fusione di più specie animali. Il torace era infossato, lo stomaco piatto come un asse di legno. Gambe e braccia terminavano in artigli ricurvi.
Provai a tirare via John ma mi mancavano le forze. Mi sentivo prosciugata.
Un vortice si aprì sul torace di quella mostruosità e da esso venne fuori un essere orripilante. Il corpo era un blocco unico e spugnoso, disseminato da una moltitudine di occhi dalle svariate dimensioni. Si depositò accanto a quel gigante mostruoso, sbattendo le centinaia di palpebre che aveva.
L'essere grande come una casa si sporse verso John, allungando una mano polverosa.
John non sembrava intenzionato a muoversi, così mi risolsi ad un ultimo, disperato tentativo. Schiaffeggiai la spalla ferita. John urlò e si accasciò di lato proprio nel momento in cui gli artigli si chiudevano nel punto dove si trovava fino a un attimo prima. Lo strattonai e lui si tirò su. Arrancammo via, sostenendoci a vicenda, ed uscimmo da quell'infernale radura. Una volta fuori ci voltammo. Ciò che vedemmo fu una colonna di pulviscolo che lentamente esauriva i propri volteggi e spariva.
«Che cos'era?» chiese John, mentre gli ultimi serpenti di nebbia sfumavano.
«Qualcosa di morto che provava a tornare in vita», risposi.
Mi accorsi che mi sentivo meglio, più in forze.
«È tutto vero», disse John. «Le leggende su questo posto... gli sciamani e il loro mostruoso dio...» Mi guardò col terrore dipinto negli occhi. «Stava per prendermi. Non fosse stato per te...»
Mi abbracciò.
«Andiamo via», disse infine.
Tornammo indietro, sicuri che avremmo incrociato di nuovo il drappello che ci aveva inseguiti, ma non accadde. A quanto pare avevano deciso che non valeva la pena. Ci rifugiammo nella capanna e pensammo al da farsi. Ci sedemmo e notai che John sudava copiosamente. Aveva la fronte umida ed era pallido. Quando glielo feci presente mi rispose: «Sto bene.»
«A guardarti non si direbbe», dissi, e mi avvicinai per toccargli la fronte. Oltre che umida era bollente. «Hai bisogno di un medico.»
«Sto bene», ripeté. «Devo solo riposare.»
Lo sguardo mi cadde sulla ferita alla spalla. I contorni erano rosso vivo. Avevo visto una ferita del genere solo una volta, nel corso della mia breve vita. Mio padre si era imbattuto in un cane selvatico. L'animale l'aveva attaccato, lasciandogli il segno di un morso sulla caviglia. Dopo un giorno la ferita aveva assunto lo stesso colorito che aveva quella di John. Quando il medico l'aveva esaminata, aveva detto a mio padre che era in corso una brutta infezione e che, se avesse atteso ancora qualche giorno, probabilmente avrebbe dovuto rinunciare a un piede per salvarsi la vita.
«Hai bisogno di cure», dissi alzandomi.
«Che hai intenzione di fare?» domandò.
«Vado a Salem, a cercare un medico.»
«È troppo pericoloso.»
«Se non ti curiamo potresti morire.»
«Allora verrò con te», disse, cercando di alzarsi.
Gli posai una mano sul petto, ricacciandolo a terra. Mi guardò sgomento.
«Mi saresti solo d'intralcio. Non preoccuparti per me, so come passare inosservata.»
Mi feci dire dove aveva occultato il mantello che si era procurato e lo recuperai. Lo indossai.
«Tornerò presto», dissi.
Feci per uscire.
«Mercy.» Mi voltai. «Fa' attenzione. Non posso perderti ancora.»
Mi avvicinai e gli posai un bacio sulla fronte umida e accaldata. «Non succederà.»
«Me lo prometti?»
Aveva gli occhi lucidi.
«Lo prometto», dissi.
Lasciai la capanna, pregando Dio affinché si prendesse cura di lui durante la mia assenza, e mi inoltrai nei boschi. Sapevo come arrivare a Salem. John me l'aveva spiegato in una precedente occasione e riuscii a trovare la strada senza troppe difficoltà. Mi fermai a pochi passi dal confine che separava i boschi dalla colonia e mi nascosi dietro un tronco spesso. Mi coprii bene la testa con la parte alta del mantello, assunsi una posa ingobbita e, con un'andatura claudicante, entrai in città.
Ero sbucata poco lontano dalla piccola piazza dove allestivano il mercato. Le massaie sciamavano alla ricerca dei prodotti più disparati, andando di banco in banco come un'ape va di fiore in fiore. Attirai solo qualche occhiata distratta. Mentre muovevo per le vie di Salem pensavo al da farsi. L'idea che per prima sfiorò la mia mente fu di trovare James Hart, il medico che mi aveva curata mentre ero a servizio alla Casa Nera. Il ricordo di come aveva reagito alle mie suppliche era ancora fresco, ma non avevo alternative. Era l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa per John.
Ero pronta a barattare il mio avvenire e la mia stessa vita se fosse servito a salvarlo.
Poi un pensiero mi illuminò la mente, e per poco non mi lanciai in una corsa sfrenata. Superai la taverna del Gallo Rosso, il fabbro, svoltai a sinistra e lo vidi. Era come John me l'aveva descritto. Stavo seduto su di una seggiola sgangherata, curvo e stanco, a pochi passi dalla porta di casa. Aveva lo sguardo perso. Raggiunsi Amos Putnam, gli passai dinanzi senza che reagisse alla mia presenza e mi accomodai accanto a lui. Voltai il capo verso la sua persona e dissi: «John sta male.»
La sua espressione non mutò.
«Gli hanno sparato la scorsa notte. La ferita si è infettata ed ora ha la febbre. Temo che, se non gli verranno somministrate le cure necessarie, potrebbe non superare la notte.»
Continuò a star fermo nella sua posa. Sembrava una scultura di pietra: le mani sulle ginocchia, le palpebre leggermente abbassate e il capo incassato tra le spalle strette. Quell'immobilità mi faceva venir voglia di saltare su e scuoterlo con violenza.
«Mi stai ascoltando?» sibilai.
Vidi l'indice della sinistra sollevarsi e abbassarsi lentamente. Lo presi come un assenso e continuai: «Ho bisogno del tuo aiuto. John mi ha raccontato molte cose sul tuo conto. Forse sai come curarlo.»
Ancora una volta l'indice si sollevò per poi riabbassarsi.
«C'è una capanna nei boschi, John l'ha scovata durante i suoi vagabondaggi notturni. Sai come arrivarci?»
Nessun movimento stavolta. Lo interpretai come un diniego.
«Incontriamoci al Convitto del Diavolo», dissi. E poi: «Verrai?»
L'indice si mosse.
Mi accorsi che la mia presenza iniziava a suscitare la curiosità dei passanti e decisi di andar via. Tornai alla piazza dove si svolgeva il mercato, mi inoltrai nei boschi e giunsi fino al Convitto del Diavolo. I terrori vissuti all'interno di quella radura demoniaca erano ancora vividi, e non appena la vidi stagliarsi in lontananza mi colse un brivido. La luce del giorno iniziava a morire e la vegetazione assumeva i contorni di un macabro ritratto. Le ombre si allungavano e gli alberi si trasformavano in corpi scheletrici.
Quando anche l'ultimo raggio di sole scomparve e le prime stelle spuntarono, riparai dietro una macchia di cespugli. Mi acquattai come un animaletto impaurito e attesi. Ben presto le voci dei boschi presero a farsi vive. Dapprima con flebili chiacchiericci; poi, quando iniziai a prestar loro orecchio, divennero fluenti conversazioni in una lingua incomprensibile. Mi rannicchiai tremante, cercando di non pensare alla vicinanza di quella radura dove, poche ore prima, avevo visto emergere due abomini infernali.
Attesi a lungo.
Quando avvertii una seconda presenza, oltre alla mia, la luna era alta. Vidi una figura bruna aggirarsi furtivamente. Non riuscivo a scorgerne i lineamenti, così mi spostai descrivendo un piccolo arco per poterlo guardare da una diversa angolazione e assicurarmi che fosse chi aspettavo.
Cercai di imitare l'andatura degli indiani che ci avevano sorpresi, ma il retaggio non si baratta per qualche scellino, e non arrivai a fare due passi che calpestai un grappolo di foglie raggrinzite, frantumandole. Vidi la figura fermarsi e voltarsi nella mia direzione.
Restò immobile ed io come lei.
«Ragazzina, sei tu?» udii dire. Non risposi. «Sono quel vecchio rimbambito che sei venuta a cercare.»
Uscii allo scoperto, seppur titubante. Mi vide e, mentre si avvicinava, ne scorsi i lineamenti.
«Perdona il ritardo, ma dovevo essere sicuro che nessuno mi vedesse.» Mi guardò, seccato. «Be', mi fai strada o aspetti un invito da sua maestà il re d'Inghilterra?»
Fui felice di allontanarmi. Mentre lo conducevo alla capanna, lo misi a parte degli avvenimenti che ci avevano portati al punto in cui eravamo. Gli parlai di come John si fosse ferito, del mio arresto e della mia fuga, del successivo incontro con gli indiani e delle creature oscene che il Convitto de Diavolo aveva vomitato.
«L'avevo avvertito di non metterci piede», disse quando ebbe finito di ascoltare. «Quel ragazzo ha la testa dura come un sasso. E tu sembri fatta della stessa pasta. Capisco perché vi siate innamorati.»
Giungemmo alla capanna.
«Piccolo manigoldo...» disse Amos quando la vide. «Che vago per i boschi è un secolo, ma questa mi è nuova.»
Entrammo e Amos si chinò accanto a John.
«Ragazzo?» chiamò.
Risucchiai aria e per un momento dimenticai di respirare.
«Dorme», mi disse Amos.
Doveva aver intuito che avevo temuto il peggio. Ripresi a respirare.
«Aiutami a portarlo fuori, voglio dare un'occhiata alla ferita di cui mi hai parlato.»
Lo prendemmo, io per i piedi e Amos da sotto le ascelle, lo portammo di fuori e lo adagiammo alla luce della luna. Amos esaminò la ferita ed emise il suo verdetto.
«È meno seria di quel che pensavo. Ho visto uomini perdere un arto e cavarsela, ma quelli non bruciavano come il fuoco dell'inferno», disse toccandogli le guance e la fronte.
«Ti prego, aiutalo», implorai.
Annuì. «Sono qui per questo.» Rifletté qualche attimo, poi disse: «Dobbiamo portarlo al Village.»
«Cosa c'è al Village?» chiesi.
«Qualcuno che può aiutarlo.»
«Chi?»
«Una mia vecchia conoscenza.»
«Un medico?»
«Una specie», disse. «Aiutami a tirarlo su. Devo caricarmelo in spalla.»
Lo aiutai e lui si caricò John sulla schiena come un sacco di grano.
«Spero che queste maledette reni non facciano scherzi», disse.
Ci incamminammo. Amos si muoveva con sicurezza. Ogni volta che sceglieva un sentiero, lo faceva senza indugiare.
Avvertii che stavamo compiendo ciò che Dio aveva stabilito per noi. Era una consapevolezza che non mi aveva mai davvero abbandonato. Per un po' i timori della mia giovane età l'avevano soffocata ma, grazie a quei nuovi e imprevisti sviluppi, iniziava a riemergere.
Fu un lungo cammino. Quando giungemmo al Village, la sola vista di quelle terre che oggi, anno domini 1757, portano il nome di Davenport, riaccese l'antica fiamma che credevo estinta. La speranza tornò viva, una sorgente inesauribile dove affogare dubbi e timori.
Ci lasciammo alle spalle i boschi e ci inoltrammo tra le fattorie e i campi fertili che garantivano ai puritani di Salem il sostentamento necessario. Amos sembrava sfiancato. Anche se John non aveva tanta carne a coprire le ossa, quell'uomo non era un virgulto giovane nel pieno dell'esuberanza fisica, e fu un'impresa non da poco portarlo in spalla tanto a lungo. Durante il cammino fu costretto a fermarsi svariate volte per riposare.
Passammo accanto a un piccolo orticello, aggirammo una costruzione adibita a stalla e vidi Amos arrestarsi.
«Ci siamo. Dio, ti ringrazio», disse.
Si era fermato dinanzi ad un'abitazione con un comignolo di pietra, dal quale fuoriusciva del fumo. John era ancora incosciente. Sembrava una pelle di animale, per come pendeva dalle spalle di Amos.
«Ti spiace bussare?» mi disse.
Mi avvicinai e bussai alla porta di quella casetta, un po' troppo adagio.
«Mettici un po' di energia.»
Bussai ancora, stavolta più forte, e con la base del pugno anziché con le nocche.
Attendemmo e, dopo un po', udii dei tonfi dall'altro lato. La porta si aprii di un niente e la metà di un volto, rischiarato dal languido bagliore di una candela, fece capolino. L'occhio mi fissò, poi guardò alle mie spalle.
«Amos? Sei proprio tu?»
La porta si spalancò e apparve una donna, pressappoco coetanea di Amos. Aveva i capelli raccolti e un volto dai lineamenti gentili.
«Ci puoi giurare. In carne ed ossa. Più ossa», disse Amos.
«Avevo sentito che eri...»
Si interruppe.
«Uscito di senno?» disse Amos.
La donna abbozzò un sorriso.
«È una lunga storia, e più tardi te la racconterò. Ora ti dispiace farci entrare? Ho un giovanotto, qui, che ha bisogno del tuo aiuto.»
La donna si accorse solo allora di John.
«Buon Dio... venite, svelti.»
Si fece da parte e, mentre entravamo, si adoperò per rischiarare l'ambiente. Donò una fiamma ad ogni candela che aveva in casa, poi indicò ad Amos il tavolo di legno che dominava il centro della stanza.
«Adagialo lì», disse la donna. Amos adagiò John sul tavolo e si massaggiò la schiena. «Cosa gli è capitato?»
«Ha la febbre ed una ferita alla spalla. Ho paura che si sia infettata.»
La donna ispezionò la zona interessata e si accigliò.
«Hai ragione, è infetta. Ecco il perché della febbre. Da quanto è in questo stato?»
Amos mi interrogò con lo sguardo.
«Alcune ore», risposi.
Sollevò il volto e mi guardò. «Vieni con me», disse, e mosse per uscire.
Le andai dietro e, quando fummo fuori, disse: «C'è un pozzo, dietro quella casa». Indicò la casa in questione. «Riempi un secchio e portalo dentro. Poi prendi uno straccio, bagnalo per bene e strizzalo, dopodiché posalo sulla fronte del ragazzo.»
Assentii e corsi via. Aggirai la casa che mi aveva indicato, riempii il secchio con l'acqua del pozzo e tornai indietro in tutta fretta. Spalancai la porta e posai il secchio accanto al tavolo. Sotto lo sguardo interrogativo di Amos, cercai finché non trovai uno straccio, lo bagnai e, dopo averlo strizzato per bene, lo posai sulla fronte di John.
«Lei dov'è?» chiese Amos.
«Non lo so», risposi.
La donna tornò dopo poco. Stringeva in mano un mazzetto di erbe. Morse verso il fondo della stanza e si fermò dinanzi alla mensola del camino, dalla quale raccolse un pestello. Lo poggiò sul tavolo, accanto a John, vi depositò all'interno le erbe e iniziò a ridurle in poltiglia.
«Che roba è?» chiese Amos.
«Un intruglio da fattucchiera», rispose la donna con un mezzo sorriso.
Amos si volse verso di me. «Mi piace proprio. Ha un gran senso dell'umorismo.»
La donna rimestò quel che aveva ridotto a una poltiglia, quindi mise a scaldare dell'acqua e la mischiò alle erbe. Fece tutto con una compostezza estrema. La sicurezza che emanava mi intimidiva.
«Ora deve mandarla giù», disse. Attirò la mia attenzione. «Ti spiace aiutarmi?»
Mi avvicinai.
«Tienigli su la testa.»
Delicatamente, feci scivolare una mano sotto la nuca di John e la sollevai. La donna gli aprì la bocca con una mano mentre con l'altra avvicinava il pestello e lo inclinava. Quando iniziò a versare nella gola di John quella poltiglia di sua creazione, lui prese a lamentarsi.
«Avanti, non è poi così cattiva», disse la donna. «Tienilo fermo, deve berla tutta.»
Feci del mio meglio mentre lei versava la restante parte di quel suo intruglio. John mandò giù fino all'ultima goccia.
«Questo attenuerà la febbre. Entro domani starà meglio», disse la donna.
«Sicura?» chiese Amos.
«Parola di fattucchiera.»
Amos scosse il capo in un cenno di biasimo che aveva un che di amichevole. «Un giorno o l'altro quella tua lingua ti metterà nei guai.»
«Siamo già nei guai, nel caso non te ne sia accorto. Tutti noi. Tutta Salem.» Ripose il pestello. «Spostiamolo nell'altra stanza», disse, rimuovendo lo straccio bagnato sulla fronte di John. «Dormirà nel mio letto. Lo terrò d'occhio per tutta la notte. Voi potete dividervi quella panca di legno nell'angolo. Aiutatemi a spostarlo.»
Sollevammo John e lo portammo nella stanza adiacente a quella dove la donna l'aveva curato. Era sprofondato nuovamente nell'incoscienza. La donna lo sistemò sotto le lenzuola. Recuperò il secchio con l'acqua e lo straccio, informandoci che avrebbe continuato a inumidirlo e a posarglielo sulla fronte finché non gli fosse calata la febbre.
«Lasciamolo riposare», disse.
Tornammo nella stanza attigua e ci invitò a sederci.
«Mi piacerebbe proprio sapere cosa combini», disse la donna ad Amos. «L'ultima volta che ti ho visto sembravi una vecchia tartaruga pronta a esalare l'ultimo respiro. E che ci fai in compagnia di questi ragazzini?»
Amos rise e si avventurò nel racconto degli accadimenti che ci avevano condotti fin lì, includendo la breve parentesi della sua finta indisposizione che gli aveva permesso di sottrarsi alla guerra. La donna ascoltò con attenzione, rapita dal susseguirsi degli eventi che Amos narrava, e non lo interruppe mai. Quando Amos terminò, la donna si rilassò sullo schienale della seggiola, sgomenta.
«Buon Dio», disse, e mi guardò. «Dovete amarvi davvero tanto.»
«Sì», confermai, percependo la presenza tangibile di quel sentimento che ci aveva sostenuti e sospinti fino a lì. «Ci amiamo.»
«È chiaro come il sole», disse la donna. «L'apprensione dei tuoi sguardi mi aveva già detto tutto quel che volevo sapere.»
«Starà bene?» domandai.
«La mistura che gli ho dato è tra le più potenti. Ora dipende da lui. Se è forte solo la metà di quanto penso, se la caverà.» Mi guardò. «Non possiamo fare altro che aspettare e pregare.»
Assentii.
«Sarà una lunga notte», disse la donna. Si alzò. «Meglio affrontarla a stomaco pieno. Vi preparo qualcosa.»
«Un boccone lo butterei giù volentieri», disse Amos. Il mio stomaco brontolò. «Vedo che sei d'accordo con me.»
La donna mi omaggiò di un sorriso comprensivo, quindi si congedò.
Mentre si occupava della cena, Amos mi disse che avrebbe lasciato il Village dopo essersi ritemprato.
«Devono trovarmi nel mio letto, domattina», spiegò.
Quando un cauto aroma si intrufolò nella stanza, il mio stomaco tornò a farsi sentire. La donna ci raggiunse con due porzioni di stufato e, dopo averci serviti, sedette con noi. Amos afferrò subito il cucchiaio di legno e cominciò a darsi da fare. Io non fui da meno. Mangiammo come fosse il nostro ultimo pasto. Lo stufato era davvero squisito e, quando mi ritrovai a raschiare il fondo della scodella che avevo sotto il naso, la donna sorrise divertita e mi omaggiò di una seconda porzione.
«Hai l'appetito di un branco di lupi», disse Amos.
Era ancora intento a consumare la sua porzione mentre io passavo alla seconda.
Quando venne per Amos il momento di tornare a Salem, provai un profondo dispiacere. La sua sola presenza rinfrancava il mio animo e bastava a darmi coraggio. Si congedò assicurandomi che sarebbe tornato, e mi raccomandò di prendermi cura di John. Abbracciò la donna e si congedò.
«Ti darò una coperta ed un cuscino», disse la donna. «Mi spiace non poterti offrire un giaciglio più accogliente.»
«Avete già fatto molto», risposi.
«Gli amici di Amos sono miei amici», disse, rivolgendomi un sorriso cortese.
Andò a recuperare una coperta e un cuscino e mi augurò la buonanotte. Lei avrebbe vegliato su John. Se avessi avuto bisogno l'avrei trovata nella stanza accanto. Mi allungai sul mio scomodo giaciglio. Dormii un sonno agitato. Sognai John che giaceva su una lastra di pietra, il volto coperto da un sudario. Sapevo che era lui, anche se non potevo vederne il viso, per via della ferita sulla spalla. Un braccio pendeva oltre il gelido giaciglio e le dita sfioravano la terra. Era una terra arida, secca come un osso. Una terra che appariva molle come materia cerebrale. Mi avvicinavo e d'improvviso le dita pallide vibravano. Il busto si levava ed il sudario scivolava via, rivelando la carne corrotta. Larve grasse brulicavano nelle orbite vuote e nel cunicolo del naso.
Si sollevava dal suo giaciglio e muoveva verso di me con un'andatura pencolante, le braccia tese davanti a sé. Le unghie erano divelte. Le punte delle dita erano insanguinate e scorticate, come se avesse provato a scavare la roccia a mani nude. Si avvicinava facendo schioccare i denti spessi come blocchi di pietra. Stralci di pelle pendevano dagli zigomi scarnificati come lembi di stoffa, ondeggiando quando la mandibola si muoveva.
Quella bestemmia contro Dio avanzava incrollabile. E più si avvicinava, più mi sembrava di distinguere un mormorio che risaliva dalle profondità di quella gola scarnificata. Solo quando quell'orrida creatura mi posò entrambe le mani sulle spalle, e il suo respiro che sapeva di morte e putrefazione mi raggiunse, riconobbi la voce che supplicava dalle profondità di quell'abominevole pozzo nauseabondo.
Era la voce di John. E mi implorava di salvarlo.
«Aiutami, Mercy», ripeteva.
I rantoli del mostro si fondevano con la voce e giungevano alle mie orecchie nella cadenza di un coro dissonante. Poi, d'un tratto, il mostro prese a scrollarmi. E continuò a scrollarmi finché non mi destai e mi ritrovai a fissare un volto familiare. La nebbia del sogno iniziò a sfumare e riconobbi la padrona di casa, china su di me.
«Cara, tutto bene?» chiese.
«Un sogno», risposi.
«Direi piuttosto un incubo, dal modo in cui ti agitavi.»
Mi sollevai a sedere.
«Sta meglio», disse la donna. «È sveglio ed ha chiesto di te.»
Sentendomi come se fossi piombata in un nuovo sogno, seguii la donna fino alla stanza attigua. Oltrepassai la soglia e lo vidi. Era disteso a letto e mi guardava. Gli occhi erano lucidi e un sottile sorriso gli sollevava gli angoli della bocca. Lo raggiunsi, mi inginocchiai accanto a lui e, dopo averlo preso per mano, scoppiai in lacrime.
«Ehi.»
Lo guardai. Il suo viso tremolava come il riflesso su uno specchio d'acqua increspato.
«Non piangere», mi disse quel fantasma tremolante.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. Udii alle mie spalle i passi della padrona di casa che abbandonava la stanza.
«Mi pare di avere un tamburo in testa», disse John, strappandomi un sorriso. «Quella donna... chi è?»
«Una conoscenza di Amos», risposi.
«Amos?»
«È stato lui a condurci qui.»
Gli raccontai gli ultimi accadimenti, dal momento in cui aveva perso conoscenza fino a quando l'aveva riacquistata. John mi ascoltò con attenzione.
«Sei stata molto coraggiosa», disse infine e, non posso negarlo, avvertii una punta d'orgoglio all'udire quelle parole.
Gli restai accanto per un po', finché la padrona di casa non apparve sulla soglia dicendomi che John aveva bisogno di riposare.
«È ancora debole, ma presto starà bene», disse mentre lasciavamo la stanza. «Grazie ai miei intrugli si ristabilirà in pochi giorni.»
Sedemmo al tavolo che dominava la stanza principale di quella piccola casetta, e la padrona di casa portò in tavola una focaccia che si offrì di dividere con la sottoscritta. Accettai di buon grado e, dopo aver mangiato, chiacchierammo un po'. Quella donna celava una storia interessante. Mi disse di chiamarsi Deliverance, e che tra i suoi avi c'erano i coloni che per primi sbarcarono sulle coste della Nuova Inghilterra. Da che ne avesse memoria, aveva sempre vissuto al Village, in quella piccola e graziosa casetta. Suo padre era volato in Cielo quando era ancora piccola. Sua madre era spirata dopo una lunga e placida esistenza, all'incredibile età di ottantacinque anni. Deliverance era sposata quand'era ancora una ragazzina, con un giovanotto del quale era innamorata. Avevano vissuto insieme anni felici, finché un giorno lui aveva contratto una brutta febbre che l'aveva condotto alla tomba nel giro di pochi giorni. Avrebbe potuto salvarlo se solo avesse avuto le conoscenze che aveva acquisito in seguito.
«Voglio mostrarti una cosa», disse.
Si allontanò e, quando tornò, teneva in mano un libro. Lo posò sul tavolo e lo fece scivolare verso di me. Era rozzamente rilegato, con pagine fittamente riempite di ricette, ampiamente esplicate, che recavano dosaggi e nomi di varie specie di piante. Conteneva persino elementari raffigurazioni delle stesse e annotazioni di varia utilità. Disse che era il suo Libro delle Pozioni. Lo aveva scritto sua madre. L'aveva trovato dopo la sua morte, occultato sotto un'asse del pavimento. Non sapeva dove sua madre avesse appreso quelle particolari conoscenze mediche, ma sapeva che funzionavano. Le aveva provate su sé stessa e gli effetti erano stati prodigiosi.
Ricordo che sfogliai quell'incredibile libro con un placido interesse, che si trasformò in autentica meraviglia quando incappai nella sezione finale. Lì la lingua mutava, trasformandosi in latino, che Deliverance non era in grado di comprendere. L'unico nelle vicinanze capace di tradurre quelle pagine era Cotton Mather, ma dubito che la padrona di casa avrebbe mai bussato alla porta del reverendo per chiedergli una simile cortesia.
Cadde la sera. John pareva stare meglio. Era cosciente e particolarmente loquace. Parlammo molto. Gli spiegai cosa era accaduto nelle ultime ore, e risi quando mi domandò cos'era quel saporaccio che sentiva sulla lingua. Mi rallegrò scoprire quanto Deliverance gli si fosse affezionata. Sembrava provare un affetto materno per lui, sebbene lo conoscesse appena.
Quando la luna fu alta, un sommesso bussare ci sorprese. La donna ci ammonì al silenzio e si recò alla porta con il passo di un micio.
«Chi è?» domandò guardinga.
«Il re d'Inghilterra», rispose una voce, che riconobbi essere quella di Amos.
Deliverance scosse il capo mentre un sorrisetto le tirava in su gli angoli delle labbra ed aprì.
«È questo il modo di accogliere un regnante?» disse Amos dalla soglia. «Dove sono i lunghi tappeti e i lauti banchetti?»
La donna lo rimirò con quel sorrisetto indulgente, i pugni puntellati sui fianchi.
«Se vostra maestà volesse avere la compiacenza di accomodarsi prima che qualche occhio indiscreto lo scorga...» disse Deliverance, ed Amos entrò.
«Come se la passa il piccolo furetto?»
«Non ha più febbre. È sveglio ed ha una gran voglia di chiacchierare.»
«Davvero?» chiese Amos, sorpreso. «Che ci hai messo in quell'intruglio?»
«Ti avevo avvisato che le mie sono pozioni potenti.»
«Altroché. Sciolgono i nodi alla lingua e curano i malanni alla velocità con cui un fulmine squarcia il cielo.»
«Vuoi vedere il tuo figlioccio?»
«Perché credi sia venuto?»
«Per me.»
«Sogna pure.»
La donna gli affibbiò un buffetto amichevole.
Amos guardò da sopra la spalla di Deliverance, mi vide e un sorriso gli illuminò il volto. «Come va?»
Mi venne accanto e mi posò una mano sul capo.
«Grazie», mormorai timidamente. «Se non fosse stato per te...»
Mi accorsi di essere vicina alle lacrime.
«Non starci a pensare», disse Amos. «Quel che importa è che John stia bene. E comunque sono io che dovrei ringraziarti. Senza il tuo coraggio le cose sarebbero andate diversamente.»
Vidi che anche lui aveva gli occhi lucidi.
«Andiamo dal redivivo», disse infine. «Deliverance, facci strada.»
La padrona di casa ci condusse da John.
Quando John vide Amos gli si illuminarono gli occhi. Se dicessi che era a un passo dalle lacrime non peccherei di iperbole.
«Come te la passi, piccola peste?» chiese Amos.
«Ho una gran confusione in testa», disse John.
«Ordinaria amministrazione. Passerà.»
«Mercy mi ha detto quello che hai fatto.»
«Niente di che. Il grosso l'ha fatto lei. Ha fegato da vendere, questa giovane donna.»
John mi guardò con un'intensità che mi costrinse a distogliere lo sguardo. Mi sentii avvampare.
Deliverance si avvicinò e gli posò una mano sulla fronte.
«Fresco come una rosa», disse ritirando la mano. Si voltò a guardarmi. «Ti spiace tenere compagnia a questo ragazzaccio? Devo scambiare due parole con vostra maestà.»
«È in arrivo una bella predica», disse Amos.
Deliverance lo prese sottobraccio e lo trascinò via con sé.
«Se non dovessi tornare, abbiate cura del mio regno», disse Amos, voltandosi un attimo.
Deliverance lo strattonò.
«Ehi, vacci piano. Sono un vecchio reduce.»
«Sarai un vecchio storpio, se non la smetti.»
Prima di sparire oltre la soglia, Amos mi rivolse una smorfia spaventata. Io e John ridemmo.
Mi avvicinai al letto.
«Come ti senti?» domandai.
«È la terza volta che me lo chiedi», rispose John con un sorriso. «Sto bene. Non sono ancora pronto per capriole e arrampicate, ma la febbre è debellata.»
«E la spalla?»
«Cerco di non pensarci.»
Una risposta che eludeva la verità ma la lasciava intendere. Pensai bene di andare a chiedere a Deliverance se avesse qualche rimedio miracoloso anche per la ferita. Mentre attraversavo quello che era un piccolo e stretto disimpegno, udii Amos e Deliverance parlottare.
«E con quello che vorresti farci?» stava dicendo Amos.
«Chiuderti la bocca una volta per tutte», rispose Deliverance.
«Ma così priveresti il mondo della mia sagacia.»
«Dio mi perdonerà. Anzi, credo che me ne darà perfino merito.»
Amos rise. «Farà male?» chiese.
«Tu che dici?»
«Che sono contento di non essere io quello da rammendare.»
«Avrò bisogno del tuo aiuto», disse Deliverance. «Dovrai tenerlo fermo.»
«D'accordo», rispose Amos. «Apriamo le danze?»
«Prima devo procurarmi dell'alcol.»
«Non ne hai in casa?»
«Sono una vedova morigerata e timorata di Dio, mio vecchio amico. In questa casa non entra un goccio di veleno da quando il Padre Celeste ha accolto il mio povero marito tra le sue braccia.»
«Quindi?»
«Conosco qualcuno che potrebbe averne.»
Udii la porta di casa aprirsi con un timido cigolio e richiudersi. Per un lungo momento il silenzio ammantò la casa, e sentii un cieco presentimento pervadermi. Non sono in grado di dire cosa lo provocò. Eravamo al sicuro, eppure sentivo che presto quella calma apparente avrebbe lasciato il posto a qualcosa di tremendo. Mi ammonii a smetterla e ricordai quel che mia madre mi aveva detto tempo addietro, quando ero un'ingenua fanciulla che cominciava a sbirciare tra le pagine del Libro della Vita: «I cattivi presagi sono forieri di sventure, messaggeri del Maligno, e solo pregando il Padre Celeste si può ricacciarli nell'Abisso e allontanare le sciagure che portano con sé.»
Congiunsi le mani, intrecciai le dita, chiusi gli occhi e pregai scandendo nella mente ogni parola. Lento come l'incedere di una tartaruga, un lieve tepore mi invase. Durò poco. Quel fremito di calore fu spezzato da un gelido brivido che mi vibrò nelle ossa, risalendo fino alla nuca. Una mano mi cinse la spalla e sobbalzai. Aprii gli occhi.
Amos mi guardava preoccupato.
«Cara, va tutto bene?» domandò.
La pelle sulla fronte era accartocciata come un foglio stretto nel pugno e successivamente spianato.
«Io...» mormorai, incapace di spiegare quel che avevo provato. «Sto bene», dissi. «Stavo solo pregando.»
Amos si rilassò. «Spero che la tua voce Gli giunga forte e chiara. Abbiamo bisogno del Suo aiuto. Un dannato bisogno.»
Si portò una mano alla bocca e, nella luce tremolante diffusa dalle candele, sembrò un bambino che si fosse accorto di aver imprecato dinanzi al genitore. Mi strappò un sorriso.
«Domando scusa», disse, sorridendo a sua volta. «Non volevo imprecare. A volte questa vecchia linguaccia si muove di propria iniziativa.»
«Non importa.»
«Hai un momento? Devo metterti a parte di alcune novità», disse Amos. Mi posò una mano sulla spalla e mi condusse nella stanza accanto.
«Cosa succede?» domandai, e l'occhio mi cadde sugli oggetti che ingombravano il tavolo.
Riuscii a distinguere del cotone ed un ago.
«Deliverance si è recata da una sua conoscenza», mi informò Amos. «Sarà di ritorno con dell'alcol. Le servirà per disinfettare la ferita di John. Poi provvederà a rammendargliela.»
«Sarà doloroso?» domandai.
«Più di un pizzico ma meno di una frustata», rispose Amos e sorrise, credo nel tentativo di infondermi tranquillità. «È necessario, se non vogliamo che la febbre torni e se lo prenda.»
Vibrai di paura al pensiero che quell'eventualità si realizzasse. Al pensiero di perdere John, e di perderlo dopo quello che avevamo affrontato per giungere lì dove eravamo. Di perderlo prima che il nostro amore sbocciasse in tutta la sua pienezza. Di perderlo prima di amarlo come una donna ama il suo uomo.
Amos si accosciò e mi posò entrambe le mani sulle spalle.
«Andrà tutto per il meglio, abbi fiducia», disse, fissando i suoi occhi grigi nei miei.
Mi sforzai di dargli ascolto e trovai rifugio nella convinzione che Dio ci avesse investiti di uno speciale diritto di sopravvivenza, come gratificazione per aver superato le numerose vicissitudini alle quali ci aveva sottoposti.
Sedemmo. Amos intrattenne me e le mie elucubrazioni con alcuni racconti di quella che chiamò la sua perduta giovinezza, e per alcuni momenti riuscii nell'intento di distrarre la mia mente ansiosa.
Mentre era lanciato nel racconto di una sua bravata fanciullesca, due brevi tonfi risuonarono alla porta. Amos si zittì di colpo. Mi guardò e si portò l'indice alle labbra. Poi, accorto a non fare il minimo rumore, si alzò lentamente e si diresse alla porta in punta di piedi. Si fermò a mezzo passo dal legno e chiese: «Chi è?»
«La padrona di casa», rispose Deliverance. «E ti sarei grata se mi facessi entrare. Inizia a far freddo, qui fuori.»
Amos aprì e Deliverance entrò. Tra le mani teneva una bottiglia piena per un quarto della sua capienza. Andò a posarla sul tavolo mentre Amos chiudeva in tutta fretta la porta, poi disse: «Ora abbiamo tutto quel che ci occorre.»
Mi scrutò con attenzione e le lessi in volto qualcosa che non compresi. Amos invece comprese subito, e la informò: «Le ho detto tutto.»
«Dio sia lodato. Ero alla ricerca delle parole giuste con cui aprire il discorso», disse Deliverance.
«Lo guarirai, vero? Dopo che l'avrai... rammendato, starà di nuovo bene?» domandai.
Le labbra di Deliverance si curvarono all'in su in un sorriso caldo e rassicurante. «Ma certo. La ferita ci impiegherà un po', ma quando il processo di guarigione sarà compiuto, il piccolo furetto starà di nuovo bene.»
Tirai un sospiro di sollievo.
«Ora muoviamoci», disse la padrona di casa.
La seguimmo nell'altra stanza. John si era appisolato, il mento sul petto. Deliverance gli sfiorò una guancia.
«Sveglia», mormorò con dolcezza.
John si destò sbattendo le palpebre. Ci guardò, riuniti al suo capezzale come spettri curiosi, e un'espressione di sconcerto gli si dipinse in viso.
«Cosa succede?» chiese.
«Devo curarti quella brutta ferita», spiegò Deliverance, nello stesso tono materno di poco prima.
«Mi tocca bere un altro di quegli intrugli?» domandò John. E quella dichiarazione, unita alla smorfia di disgusto che gli deformò la bocca, suscitò in noi risa spontanee.
«No, caro, almeno per il momento», disse Deliverance. «Adesso ascoltami. Devo cucirti la ferita.»
Gli occhi di John si fissarono in quelli di Deliverance. Il suo pomo d'Adamo ebbe uno spasmo, e vidi le sue mani stringere le lenzuola.
«Farà male?» chiese.
«Più di un pizzico ma meno di una frustata», risposi io.
«Ehi, mi hai rubato la battuta», disse Amos.
«Ѐ come ha detto Mercy», confermò Deliverance senza distogliere lo sguardo da John. «E un giovanotto robusto e coraggioso come te può ben sopportarlo, un pizzicotto.»
Dedussi dallo sguardo di John che non ne era sicuro.
«Prima di iniziare ho bisogno che tu faccia una cosa», continuò Deliverance. «Devi alzarti e venire con me nella stanza accanto. Puoi farlo?»
John sorrise e, quasi fosse sotto l'influsso di un incantesimo, obbedì senza replicare. Scostò le lenzuola e, quando Deliverance gli offrì la mano, gliela strinse come se avesse paura che la terra gli venisse meno sotto i piedi. Deliverance lo condusse nella stanza accanto, scostò una sedia e, senza lasciargli la mano, lo fece accomodare.
«In questo modo posso lavorare meglio», spiegò a John, che la guardava con ansia malcelata.
Deliverance gli lasciò la mano e prese una sedia per sé. La piazzò accanto a John, in corrispondenza della spalla ferita, e si accomodò.
«Sarebbe meglio se togliessi la camicia», disse Deliverance e, solo quando John annuì, mi chiese di aiutarlo.
Mi avvicinai e lo aiutai a sfilare la camicia. John si lamentò quando fu costretto a muovere il braccio sinistro. Gli faceva più male di quanto lasciasse trasparire.
Deliverance fece segno ad Amos di passarle la bottiglia. Il vecchio si avvicinò e rivolse al suo figlioccio un largo sorriso mentre la bottiglia passava dalle sue mani a quelle della padrona di casa.
«Ora ti bagnerò la ferita», disse Deliverance. Sembrava intenzionata a spiegare a John tutto quel che si apprestava a fare. «Brucerà un po'.»
John annuì e Deliverance inclinò la bottiglia. Un fiotto del liquido che conteneva piovve sulla ferita e, quando la bagnò, John serrò i denti, si contorse sulla sedia e mugugnò. Gli afferrai una mano e subito le sue dita si aggrovigliarono alle mie. Serrò la presa 'sì forte da farmi male.
Deliverance rivolse ad Amos uno sguardo eloquente, e il vecchio si piazzò alle spalle di John.
«Mercy, ora ho bisogno di te», mi disse. «Prendi la candela sul tavolo.»
Guardai John, sofferente come non l'avevo mai visto, e vissi un terribile momento di panico. Di colpo divenni di pietra.
«Mercy», ripeté Deliverance, risoluta. «Non posso curarlo se non mi aiuti.»
Feci per sottrarre la mano ma John serrò le dita con più forza. Allora mi produssi in un efficace strattone che mi liberò dalla presa. Recuperai la bugia con la candela e attesi di sapere cosa avrei dovuto fare.
«Avvicinati e fammi luce», ordinò Deliverance. «Non così, inclinala appena... ecco, ci siamo. Attenta che la cera non goccioli sulla ferita.»
Mentre Amos teneva fermo John come meglio poteva, Deliverance fece passare nella cruna dell'ago un filo di cotone. Poi, mentre con la sinistra teneva ferma la spalla di John, con la destra infilò l'ago nelle carni esposte. Quando forò un bordo infetto della ferita, John prese a dimenarsi e Amos ebbe il suo bel daffare per tenerlo fermo. Non ci riuscì facilmente, ed io fui costretta ad aiutarlo come meglio potevo tenendo fermo il braccio sul quale Deliverance stava operando, ma non fu un'impresa agevole. John aveva energie nascoste alle quale attingeva ed Amos si trovò costretto a cingerlo con entrambe le braccia, di modo da tenerlo ancorato alla sedia e permettere a Deliverance di operare. Riuscì a ridurre gli spasmi e Deliverance poté ricucire la ferita. Fu rapida ed efficace. Chiuse quella spaccatura infetta e la inondò con quel che restava dell'alcol.
John respirava affannosamente, cacciando aria dal naso come un toro inferocito mentre serrava i denti. Quando Deliverance ripose la bottiglia sul tavolo, svenne.
Amos lo prese tra le braccia e lo riportò a letto. Andai con lui e, quando lo adagiò sul materasso lo coprii, premurandomi di lasciare scoperta la spalla ferita.
«Ha il vigore di un torello», commentò Deliverance alle nostre spalle. Ci aveva raggiunti e guardava John dalla soglia. In mano aveva un paio di forbici dalla lama consunte.
«Non credevo serbasse tanta forza», disse Amos.
Deliverance si avvicinò al letto, sollevò il lenzuolo e tagliò una striscia larga e lunga che utilizzò per fasciare la spalla di John.
Lasciammo che John riposasse e ci spostammo nella stanza attigua. Amos ci informò delle sue intenzioni di congedarsi. Più tempo trascorreva lontano da Salem, e dal suo letto, più aumentavano le probabilità che venisse scoperto.
«Vai, allora», gli disse Deliverance. «Non preoccuparti, mi prenderò cura io dei nostri colombi.»
Ci informò che sarebbe tornato al sorgere della nuova luna, quindi Deliverance lo accompagnò alla porta. Sulla soglia si salutarono con un lungo abbraccio.
«John ti deve la vita», disse Amos, stringendo a sé la padrona di casa. «Grazie. A nome suo e mio.»
«Non mi starai diventando sentimentale tutto a un tratto?» scherzò Deliverance, affibbiandogli un paio di calorose manate sulla schiena.
Amos la lasciò andare.
«Be', come si dice, meglio tardi che mai», rispose Amos. Mi rivolse un saluto e disse: «Prenditi cura di lui.»
«Lo farò», risposi.
Amos uscì e dopo un po' io e Deliverance andammo a dormire. Mi destai che il sole spargeva il suo oro nella stanza. Sbattei le palpebre e mi sollevai a sedere. Mi liberai delle lenzuola e mi recai nella stanza accanto. Deliverance gli sonnecchiava su una seduta che aveva l'aria scomoda. John dormiva profondamente. Si era mosso appena dalla posizione in cui ricordavo di averlo lasciato.
Mi avvicinai e gli posai un bacio sulla fronte. Mosse appena le labbra e continuò a dormire. Deliverance invece aprì gli occhi. Mi vide e sorrise.
«Credo si stia riprendendo», mi informò. «Quando si sveglierà potrei somministrargli un altro dei miei intrugli, giusto per stare tranquilli.»
«Non ne sarà felice», dissi, e sorrisi quando mi tornò in mente l'espressione che aveva assunto nel ricordare il sapore della mistura di erbe che aveva ingollato.
«Non ho dubbi in merito, ma glielo farò ingurgitare sino all'ultima goccia», disse Deliverance.
«Avrebbe potuto morire.»
Non ebbi nozione delle lacrime fin quando non ne sentii il sale sulle labbra.
«Suvvia», disse Deliverance, allungando una mano. Mi deterse le lacrime dal volto ed aggiunse: «Il peggio è passato. La sua vita non è più in pericolo.»
«Non so cosa avrei fatto se l'avessi perso», ammisi candidamente.
«Saresti andata avanti, in un modo o nell'altro», rispose Deliverance. «Come ho fatto io dopo che il mio Giles è morto.»
«Non so se ne avrei avuto la forza», dichiarai. «Non sono come voi.»
«Hai affrontato Hawthorne, gli indiani e le presenze che abitano i boschi. Sei persino scampata al giudizio di Cotton Mather. Mia cara, sei l'ultima persona che dovrebbe biasimarsi.» Mi ravviò una ciocca di capelli. «Ne hai passate tante, e non è ancora finita. Sii indulgente con te stessa e concediti un momento di debolezza. Conceditelo ora, che sei al sicuro tra queste quattro mura.»
Quelle parole ebbero su di me l'effetto di un tonico. Sentii i muscoli rilassarsi di colpo. Sospirai lungamente e tediosamente, e le lacrime tornarono a inondarmi le gote. Piansi a lungo, scossa da tremiti e singhiozzi, mentre i ricordi mi affollavano il cervello. Li sentii depositarsi sul fondo della mente ed ammucchiarsi gli uni sugli altri come i cadaveri ammassati sul fondo di una fossa.
Solo marginalmente mi avvidi delle braccia che mi cingevano, della mano che mi carezzava la nuca e del petto sul quale il mio viso era posato. La mente era via. Vidi gli spettri di Hawthorne e Charity, la massa enorme e spettrale della Casa Nera, la Cosa vagolante e scheletrica che ci aveva inseguiti la notte che io e John vi ci intrufolammo, le mostruosità che ci avevano attaccati nella Convitto del Diavolo, il terribile momento in cui pensai che John fosse morto dopo che gli avevano sparato, la mia detenzione e il successivo giudizio alla presenza di Cotton Mather, l'ultimo saluto ad Abigail e le ultime parole che ella mi aveva rivolto...
Questi ed altri ricordi mi invasero mente e corpo, e ne espulsi il venefico veleno attraverso le lacrime, lasciandone il segno sulle vesti di Deliverance. La padrona di casa mi tenne stretta a sé tutto il tempo. Non produsse un fiato, ma le sue mani continuarono imperterrite a carezzarmi.
Quando il mio sfogo ebbi fine e i singhiozzi si ridussero a brevi ed estemporanei sussulti, Deliverance mi allontanò da sé con garbo e prese ad asciugarmi il viso usando un lembo delle proprie vesti.
«Avevo il timore che avresti finito per affogare», scherzò.
Guardai la macchia scura che le avevo lasciato sulle vesti, all'altezza del petto. «Mi dispiace», dissi.
«Non hai nulla di cui scusarti.» Mi carezzò le guance umide. «Ora va meglio, vero?»
Mi guardai dentro, alla ricerca di quel pesante macigno che mi portavo dietro da quando avevamo lasciato Salem, e non lo trovai. Nel petto sentivo ora il lieve mormorio di acque placide, come quelle di un mare dopo lo sfogo di una tempesta.
Rivolsi alla padrona di casa un'occhiata colma di sconcerto e lei sorrise. Aveva un sorriso dolce e confortante, in grado di cancellare gli incubi di una notte in un istante.
«Sì», mormorai.
«Era quello di cui avevi bisogno.»
Assentii e le gettai le braccia al collo. Parve sorpresa da quel mio slancio improvviso, ma poi mi strinse a sé.
«Grazie», dissi. «Avete salvato l'amore della mia vita e infuso nel mio animo nuovo coraggio. Se ci riuscirà di incontrare il nostro destino, sarà solo per merito vostro.»
La strinsi più forte. Quando ci separammo, due goccioloni le luccicavano negli occhi.
«Buon Dio, sembriamo due vedove che si confortano a vicenda», disse Deliverance.
Si strofinò gli angoli degli occhi, che stillarono gocce simili a piccole perle. Mi prese le spalle e abbozzò uno dei suoi caldi sorrisi.
«Mettiamo al bando i cattivi pensieri e concentriamoci su quelli buoni. Voi due state bene, e presto sarete lontani da questo inferno. Ora, ti va di dividere un modesto pasto con una modesta vedova?» chiese.
«Ne sarei onorata», risposi.
Il suo sorriso si ampliò. «Stupendo», disse. «Mi metto subito all'opera.»
Più tardi, quella mattina, io e Deliverance consumammo un pasto veloce ma quanto mai saporito, e per il resto della giornata la aiutai a svolgere i lavori di casa. Venne la sera. Quando la luna fu alta nel cielo, Amos si presentò alla porta di casa. John era sveglio quando il vecchio reduce fece il suo ingresso, tra spiritosaggini e buffonerie. Lui e John parlarono molto. E mentre tenevano conciliabolo, io e Deliverance ci adoperammo per mettere in tavola la cena.
Lo stufato fu di rara bontà, e ricevemmo complimenti da Amos e da John per le nostre abilità culinarie. Ad essere sincera fece quasi tutto Deliverance. La sottoscritta si adoperò in minima parte, ma la padrona di casa fu felice di attribuirmi una cospicua parte di merito. Cenammo riuniti allo stesso tavolo, come una famiglia, mentre su di noi aleggiava l'atmosfera di un caldo focolare domestico. Gli orrori di Salem erano lontani.
Parlammo molto e ridemmo due volte tanto degli alterchi scherzosi che Amos e Deliverance ingaggiarono.
Il ricordo di quella serata è tra i più felici che ho, e lo serbo nell'animo come una conchiglia serba una perla all'interno del proprio guscio.
Convenimmo con la padrona di casa che fosse opportuno fermarci qualche giorno, finché la spalla di John non fosse guarita.
Accettammo.
Quella sera, dopo che Amos andò via e poco prima di coricarci, io e John parlammo a lungo, cuore a cuore. Ci dicemmo tutto quello che ci attraversava la mente, e ragionammo insieme sulla nostra condizione. Fummo concordi nel dichiarare che non era opportuno esporre ulteriormente al pericolo del patibolo i nostri salvatori, e che non appena la spalla fosse migliorata avremmo abbandonato quel porto sicuro dove il Fato ci aveva condotti. Non avevamo in mente una destinazione precisa. Tuttavia, eravamo concordi sul dirigerci a sud, verso Boston, che fu, ironia della sorte, la nostra destinazione ultima. John mise a parte di numerosi dubbi e perplessità, in gran numero condivisi dalla mia persona, e nello stesso tempo mi confessò di percepire la presenza di una forza invisibile che guidasse le sue azioni.
Gli dissi che percepivo la stessa cosa, e arrivai a raccontargli della visione che avevo avuto nella capanna, e di come avessi avuto la precisa sensazione che Dio mi mostrasse il futuro che attendeva entrambi. Ne rimase affascinato e sconcertato al tempo stesso.
Quando le nostre lingue si ritennero troppo stanche per continuare, ci augurammo la buonanotte e ci recammo ai nostri rispettivi giacigli. Per la prima volta da quando avevamo lasciato Salem dormii sonni tranquilli.
Nei giorni seguenti John trangugiò intrugli tra i più disparati e maleodoranti. Le sortite di Amos non furono sempre puntuali, e un paio di volte il nostro amico e salvatore saltò il consueto appuntamento. Quando io e John ne chiedemmo il motivo, ci rispose che in quei giorni aveva da rammentare la virtù della prudenza. Solo in seguito capii cosa volesse dire.
Io e John apprendemmo degli orrori perpetrati da Hawthorne e dai suoi accoliti attraverso i resoconti di Cotton Mather. L'abile penna di Mather descrisse con dovizia di particolari un gran numero di accadimenti di cui fu spettatore, e riportò alcuni frammenti di dichiarazioni che supposti accoliti dell'Incantatore rilasciarono alla presenza dei giudici.
Un estratto in particolare, che Mather introdusse in uno dei suoi innumerevoli scritti, colse me e John del tutto impreparati. Facendo appello alla memoria, e sperando che non mi abbandoni proprio ora, cercherò di rievocarne il contenuto:
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