30.
Sbirciammo appena dal nostro nascondiglio. L'uomo era fermo sul pontile, le gambe leggermente divaricate e le braccia incrociate sul petto. La luce della torcia lo cingeva per metà e ci accorgemmo che aveva una pistola con sé. L'impugnatura spuntava da una fondina di cuoio assicurata alla cintura. Aveva anche un corno, che portava al collo come un medaglione. Gli pendeva sullo stomaco, ed era delle dimensioni della pistola.
Riparammo dietro la casa e cercammo di architettare qualcosa. John pensò di usare una delle cime legate al pontile per salire a bordo della nave. Non rappresentava una grossa sfida per lui. Quando errava per i boschi si divertiva ad arrampicarsi sugli alberi e poteva usare quell'abilità appresa durante i suoi vagabondaggi per salire sull'Olimpia. Una volta a bordo avrebbe convinto il capitano a prenderci a bordo in cambio delle monete trafugate.
Ma finché quel cane da guardia assoldato da Hawthorne restava lì, non avevamo possibilità di fare alcunché.
«Ascolta», dissi. «Credo di aver trovato un modo.»
Spiegai a John quel che avevo in mente e lui oppose alla mia idea un fermo diniego. Non voleva che fungessi da esca, ma lo convinsi che non c'era altro modo.
«Tornerò a prenderti», mi disse.
«So che lo farai», risposi. «Ora va'.»
Mi baciò e riparò nello spazio che divideva due abitazioni.
Sedetti, afferrai un lembo delle vesti e lo strappai con decisione. Recuperai un rametto secco e lo usai per graffiarmi braccia e gambe. Una volta finito lo gettai via. Prese un respiro e iniziai a gridare. L'uomo che stava di guardia non ci mise molto ad arrivare. Non appena girò l'angolo, John sgattaiolò via in silenzio.
«Che diavolo...» disse, guardandomi.
Lo vidi mettere mano al corno che gli pendeva sullo stomaco, e allora mi alzai e gli corsi incontro, ordinando agli occhi di spillare una o due lacrime e fingendomi preda della più nera disperazione.
Gli piombai addosso e lo strinsi a me mentre dalla casa giungevano i primi rumori.
«Mi hanno sorpresa alle spalle e uno di loro mi ha scaraventato a terra, e mentre mi teneva ferma l'altro ha provato a...»
Schiacciai il viso sul petto dell'uomo e piansi. È sorprendente quel che siamo capaci di fare quando le avversità ci mettono all'angolo.
Lui provò a scostarmi con gentilezza ma non glielo permisi. Allora si fece più deciso e alla fine fui costretta ad assecondarlo. Mi guardò. Non riuscii a interpretare quello sguardo. Non era ciò che mi aspettavo di leggergli in volto.
«In quanti erano?» chiese.
«Due», dissi. Mi girai e puntai il dito nella direzione opposta a quella del pontile. «Sono scappati da quella parte.»
Mi teneva a distanza, le mani sulle spalle, e mi scrutava con attenzione. Guardò i graffi sulle braccia e la veste strappata.
«Come ti chiami?» domandò.
«Dorothy Lewis», mentii.
Mi scrutò con sospetto e disse: «Gli unici Lewis che conosco sono Jebediah e Sarah Lewis. E so che non hanno figli.»
Mi afferrò un polso. Presa dal panico mi arrischiai a una manovra folle, allungandomi alla ricerca della pistola, ma fu lesto a scostarsi. Arretrò di un paio di passi ed estrasse quel suo archibugio di morte, puntandomelo contro.
«Ferma lì. Se ti avvicini di un solo passo apro il fuoco», disse. Da come mi guardava capii che non mentiva. «Sapevo che c'era qualcosa di strano. Perché questa messinscena?»
Un lampo di comprensione gli attraversò gli occhi. Si voltò e tornò al pontile. Gli corsi dietro, consapevole che i nostri piani erano a un passo dall'andare in fumo. Lo vidi correre verso la nave e vidi John che, le gambe serrate attorno alla cima e le mani impegnate a lavorare, risaliva verso la nave. L'uomo gli urlò di fermarsi e, vedendo che John non obbediva, spianò la pistola.
Mi lanciai su di lui e gli franai addosso nel momento in cui premeva il grilletto, riuscendo a farlo cadere sulle ginocchia. Un lampo di fuoco balenò dalla canna dell'arma, seguito da uno sbuffo di fumo, e il colpo scheggiò la parete della nave a meno di un metro da John. John esitò un momento e sbirciò il pontile. Quando mi vide, abbrancata alle gambe dell'uomo come una sanguisuga, invertì la direzione della scalata. Urlai, non ricordo cosa, e l'improvvisa voce del corno, simile al verso di un grande animale esotico, esplose a coprire le mie parole.
Quel che accadde in seguito si svolse molto rapidamente. Un viso fece capolino dalla nave e, vedendo quel che accadeva, diede l'allarme. Qualcuno urlò qualcosa, poi udii un secondo sparo e vidi John cadere a peso morto. Ho ancora nelle orecchie le grida ed il tramestio delle acque che l'inghiottivano. Forse urlai, non ne sono sicura. So che corsi sul limitare del pontile, mi inginocchiai e guardai di sotto. Le acque erano increspate nel punto dove John era caduto.
«John!» urlai.
A lungo chiamai il suo nome, o almeno a me parve un tempo lungo. Ci sono attimi nella vita di ognuno che sembrano protrarsi per un'infinità. Fu ciò che accadde a me mentre ero su quel pontile, a scrutare le acque del South River. Il tempo parve dilatarsi in un'eterna parodia di sé stesso, e riprese a scorrere nella grande clessidra che lo contiene solo quando due mani mi tirarono via.
Gridai il nome di John, implorai chi mi tratteneva di andare ad aiutarlo. Uno strattone e di colpo mi ritrovai a guardare due occhi di fuoco.
«Tu!» ruggì Hawthorne.
Non vidi la mano grande e callosa scattare. Percepii solo l'impatto e il bruciore intenso su una guancia. Feci per accasciarmi ma due braccia mi sostennero.
«Dov'è lui?» chiese.
Per un istante non capii a chi si riferisse con quel "lui", poi compresi che stava parlando di John.
«È caduto nel fiume», risposi, cacciando indietro le lacrime con uno sforzo di volontà titanico.
Hawthorne fece segno ad uno degli sgherri che si era portato dietro. Quello si distaccò dal drappello e mosse alle mie spalle. Udii i passi frettolosi sul pontile.
«Dovete aiutarlo, dovete...»
«Silenzio!» tuonò Hawthorne.
Quegli occhi... Dio del Cielo! Erano come quelli di un idolo primevo e spaventoso. Scolpiti nella pietra di quel volto austero, sembravano avere il potere di scandagliare le profondità dell'animo umano e portare a galla tutti i terrori in esso contenuti.
«Non so come abbiate fatto a sfuggirmi tanto a lungo, ma la vostra fortuna termina stanotte.»
«Non è stata fortuna», dissi, sprezzante. «John è riuscito a mettere nel sacco tutti voi.»
Stavolta vidi la mano scattare ma non riuscii a fare nulla per evitarla. L'impeto del colpo mi costrinse a ruotare la testa così rapidamente che udii le vertebre del collo gemere.
L'uomo che era andato a controllare il fiume tornò. Hawthorne lo interrogò con lo sguardo. La risposta dell'attempata sentinella fu un gesto del capo. Lo mosse prima verso destra, poi verso sinistra in segno di diniego.
«No...» dissi.
Un macigno mi si depositò nello stomaco e le gambe cedettero. Le braccia che mi tenevano faticarono per un momento a sostenere l'abbandono del corpo, poi mi tirarono su.
«John...» mormorai.
Lo scagnozzo di Hawthorne mi portò via e io presi a dimenarmi. Urlai parole irrepetibili, pronunciai maledizioni all'indirizzo di Hawthorne che fecero sussultare le mani che mi ghermivano. Poi il padrone di Salem non mi si avventò contro e, strattonandomi per i capelli, pronunciò la sua sentenza.
«Sarai impiccata, maledetta mocciosa», sibilò.
Gli sputai in faccia per tutta risposta e, anche se non ne vado fiera, provai un'enorme soddisfazione nel farlo. Il suo viso si accartocciò come una pergamena stritolata in un pugno. Una collera viscerale sgorgò in quegli occhi tremendi. Mi colpì con tanta forza da scalzarmi dalla presa che mi bloccava. Rovinai a terra. Sentivo il sapore del sangue in bocca. Udii dei passi, poi una sorda eco esplose dalla nuca e sprofondai in una tenebra densa come pece.
Quando ripresi conoscenza, sopra di me incombevano facce che non avevo mai visto. Si fecero da parte quando sollevai le palpebre. Mi alzai a sedere. La testa mi doleva. Provai a mettermi in piedi ma barcollai. Due braccia mi evitarono una brutta caduta. Voltai il capo e per un lungo istante non riuscii a parlare.
«Abigail...» mormorai infine.
La sensazione di essere prigioniera di un sogno acuì il mio malessere. Ondeggiai come una goletta scalzata via da un'onda portentosa. Solo grazie al pronto sostegno di Abigail, che mi aiutò a sedermi, non finii a terra. Posai la schiena contro la nuda parete di pietra e, quando feci lo stesso con la nuca, una folgore di dolore mi fece tremare e squittire.
«Fa' vedere», disse Abigail. Mi spostò delicatamente e guardò. «Ti hanno dato una bella botta.»
Sfiorò con la punta delle dita il bozzo e di nuovo avvertii un brivido di dolore.
«Perdonami», disse.
La cella nella quale eravamo confinate non era piccola, ma la quantità di prigionieri stipati al suo interno la faceva apparire tale. C'erano molte donne. Pallide ed emaciate, fissavano il vuoto o l'apertura munita di sbarre dalla quale filtrava l'argento lunare.
«Tutte queste persone...» dissi, guardandomi intorno.
Abigail annuì. «Sta assumendo proporzioni gigantesche.»
La mia compagna di sventura mi spiegò che, alle dichiarazioni che avevano condannato Sarah Good e Dorothy Perkins, molte altre avevano fatto seguito. Le denunce pervenute a Keene erano sempre più numerose, tanto che il magistrato aveva richiesto l'aiuto di un edotto in materia di arti occulte, che potesse dipanare quell'enorme intrico.
Mentre mi portavano in cella, Abigail aveva udito pronunciare il nome di Cotton Mather da una delle guardie. Aveva già udito quel nome in occasione di una cena tenuta a casa Hawthorne, a poche ore di distanza dal suo arresto. Le era rimasto impresso perché Hawthorne ne parlava con profondo rispetto e, avrebbe giurato, una punta di timore. Secondo il padrone di Salem, Mather era un eccelso oratore, capace di infervorare anche gli animi più frigidi. La sua cultura lambiva i porti più disparati. Possedeva nozioni in campo chimico e fisico. Arti come la pittura e la scultura non gli erano precluse, ed aveva basilari conoscenze astronomiche. Era molto attivo in campo politico e sembrava godere dei favori del Governatore, motivo per il quale stavano pensando di richiederne l'aiuto. Il Governatore era molto scontento di come stavano gestendo la faccenda.
Abigail mi disse che il nome di Mather era stato pronunciato quando una delle guardie che mi trascinavano in cella aveva espresso dubbi sul sovraffollamento delle celle.
«Se va avanti di questo passo, dovremo erigere un'altra prigione», aveva detto.
«Ci penserà Mather a fare pulizia», aveva risposto l'altro.
Abigail aveva messo insieme quel che aveva udito durante la cena a casa Hawthorne e aveva dedotto che quell'affermazione poteva significare solo una cosa: Mather avrebbe dato il suo contributo a quella scellerata caccia alle streghe. E la mia compagna di viaggio aveva il sentore che avrebbe messo piede a Salem molto presto.
«Ringrazio il Cielo che almeno John sia al sicuro», disse Abigail. «Casa Hawthorne non sarà un ambiente salubre, ma almeno lì non può accadergli...»
Si interruppe quando si accorse che piangevo.
«Mercy?» Mi cinse le spalle con un braccio e mi attirò a sé. La lasciai fare. «Devi farti coraggio. Il nostro destino è nelle mani di Dio, e Lui proteggerà le nostre anime.»
«Non è la consapevolezza di ciò che mi attende a gettarmi nello sconforto più nero», dissi.
«E cosa, allora?»
«Abigail... John è morto.»
Sentii il suo braccio farsi rigido come un legno.
«No...» disse tirandolo via e prendendosi il volto tra le mani.
Le raccontai ciò che era accaduto.
«Mio Dio...» mormorò alla fine.
«È colpa mia», dissi.
«Non sei stata tu a sparargli.»
Era vero, ma ripensando ai miei discorsi sulla speranza e la predestinazione, mi chiesi se non l'avessi spinto a fare qualcosa di sconsiderato. Confidai ad Abigail i miei dubbi.
«Mercy», mi disse. «Porti un fardello che non ti appartiene. Le cose accadono, e non v'è sempre una ragione. Né è sempre possibile assegnare una colpa.»
«Non parli come una puritana», dissi, e non riuscii a trattenere un sorriso, che spuntò come un raggio di sole in una coltre di nubi.
Avevo usato le stesse parole di John.
«Seduta qui, in questa cella, con lo spettro della morte che aleggia come un pigro insetto, ho avuto modo di riflettere. Dalle riflessioni è germogliato un fiore. Non so spiegartelo a parole, posso solo dirti che ho provato una sensazione singolare, come se qualcuno avesse sbloccato una serratura nascosta nella mia mente.» La vidi riflettere. «Lentamente si è fatta strada in me una consapevolezza che, come un padrone di casa ospitale, mi ha subito messa a mio agio con talune verità che ancora mi erano sconosciute.»
Assunse un'espressione solenne.
«Fuori di qui, in quella colonia che uomini superbi e senza Dio hanno eretto con la pretesa di farne la nuova Gerusalemme, si perpetrano crimini abominevoli. Questi uomini, che usano la Parola di Dio come uno scudo contro il fuoco di un drago, ne contravvengono i principi con la noncuranza di un miscredente e non provano rimorso nel farlo. Ho visto i loro sguardi mentre osservavano quelle povere anime bruciare sul rogo di ipocrisia puritana che avevano allestito con tanto zelo, e non ho scorto ombra alcuna di compassione.»
Era come se avessi davanti una sconosciuta che avesse preso in prestito le fattezze e la voce di Abigail. L'ardore che riversava in ogni parola era qualcosa di nuovo e singolare, che contrastava con il ricordo che avevo di lei. La prima volta che l'avevo vista mi era parso di guardare un topolino in trappola. Ora quell'animaletto indifeso si era liberato. Dignitosa nelle proprie convinzioni, Abigail sembrava quella che aveva sempre voluto essere ma che non aveva mai avuto il coraggio di diventare.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top