Ero sua madre
Napoli, 1990
L'insperato piombò davanti alla sua porta in un afoso mattino di giugno, rendendolo uomo più di quanto avesse fatto il tempo che scorreva inclemente, e lo colse impreparato, ma solerte nel prodigarsi.
«Stringe un po' sulle spalle.» Samuele osservò la sua immagine riflessa nello specchio puntellato dai raggi solari che filtravano dalla tenda d'organza; l'abito scuro dal taglio classico modellava il fisico asciutto, i pantaloni cadevano dritti e fasciavano le gambe toniche mentre la camicia bianca illuminava il viso olivastro e spento. Samuele sollevò le braccia e mostrò allo scettico sarto la veridicità della sua affermazione. Le guance si sgonfiarono emettendo uno sbuffo infastidito, si sentiva impacciato conciato in quel modo, benché sapesse di non poter presentarsi all'altare in jeans e polo.
«Farai un figurone, Sam! A vederti, viene voglia di mettere il cappio al collo pure me. Potrei decidere di sposarmi anche io.» Stefano poggiò i gomiti sui braccioli della poltrona e si sollevò appena per osservare meglio la figura rigida del suo amico; poi, scoppiò in una fragorosa risata per la battuta pronunciata e si affrettò a smentire: «scherzo, non è ancora nata la donna capace d'imbrogliarmi.»
Samuele osservò il suo migliore amico, il ragazzo conosciuto tra i banchi di scuola del liceo Sannazaro diventato l'uomo che aveva lenito i suoi tormenti. Stefano lo aveva sollevato quando era crollato sull'asfalto del suo impervio cammino e neppure la diversa scelta accademica era riuscita a separare le loro strade. Stefano sarebbe stato accanto a lui anche sull'altare per sussurrare al suo orecchio di non cedere quando, invece, avrebbe vacillato, di questo Samuele era sicuro.
«Mi accompagni al ristorante nel pomeriggio? Devo dare le ultime disposizioni per l'assegnazione dei nomi degli invitati sui tavoli e Paola non potrà esserci, ha la prova dell'abito.» Samuele non smise un solo attimo di muoversi mentre il sarto, che scuciva l'imbastitura sulle spalle per prendere nuovamente le misure esatte, lo redarguì affinché stesse immobile. Samuele sbuffò osservando, attraverso lo specchio, la testa pelata dell'uomo e storse il naso dinanzi all'austerità impressa sul suo volto spigoloso, ma si limitò ad annuire e restare inerte.
«Sei pazzo? Devo ricordarti che giorno è oggi? Devo andare al San Paolo, c'è la semifinale dei Mondiali e, a dire il vero, sono ancora arrabbiato con te perché hai deciso di non accompagnarmi. Stasera, li faremo neri, gli argentini!» Stefano, stravaccato sulla poltrona della rinomata sartoria vomerese, innalzò un braccio a mo' di esultanza per un goal non ancora segnato; poi, incrociò le iridi ambrate del futuro sposo riflesse nella lastra di vetro dove si stava ammirando e vide il volto del suo amico impallidire, capì in quell'istante di aver parlato, come di consueto, senza pensare e trasalì, mortificato per quello che aveva appena pronunciato.
«Scusami, scusami, scusami! Sono un idiota e non sono capace di capire quando è meglio tacere, lo dice sempre anche mia madre.» Il ragazzo, prostrato, chinò il capo e attese da parte del suo amico una parola di rassicurazione che tardava a giungere, mentre il sarto inchiodava le nere pupille prima sullo sposo e poi sul testimone allo scopo di capire cosa li avesse turbati tanto.
Samuele aveva smesso di udire le suppliche di Stefano, era lì a osservare la sua immagine nello specchio dove, però, non vi era riflesso un uomo in procinto di sposare una giovane e sensibile donna, rea di averlo ammaliato con la sua gentilezza e compostezza, bensì un ragazzo che aveva appena conseguito la maturità e calpestava per la prima volta il suolo argentino, come premio per l'eccellente prova all'esame di stato.
Vide il Samuele del passato correre alle spalle di una figura minuta, i lisci capelli neri le arrivavano fino alla base della schiena e oscillavano seguendo i movimenti del corpo lanciato in una folle corsa per seminarlo. Avevano attraversato strade lastricate di cemento e viuzze dissestate fino a giungere nella piazza principale, dove Samuele riuscì a ghermire l'esile polso della fanciulla, la catturò ai piedi della Pirámide de Mayo e la sospinse contro il suo petto, animato da un frenetico ritmo per lo sforzo compiuto.
La ragazza non poté soffocare una risata modellando il suo volto sul possente torace di Samuele, gli cinse i fianchi con le braccia e alzò il viso quando lui posò i polpastrelli alla base del suo mento, lo ammirò tra le palpebre schiuse e le lunghe ciglia incurvate.
Samuele tracciò con le dita i dolci lineamenti della ragazza: le sopracciglia modellate con cura, gli zigomi pronunciati, le guance scarnite e le labbra piene su cui si soffermò a lungo. Le accarezzò con accortezza, affondando i polpastrelli nella carne tenera; i palmi delle mani si spostarono sui lati del mento e Samuele abbassò il volto per catturare la bocca della ragazza tra le sue labbra schiuse. Le diede il tempo di fuggire da quel bacio inaspettato, benché anelato dal loro primo incontro, ma lei non si scostò e attese, impaziente, di sentire quel contatto.
«Sam, mi dispiace, non volevo rattristarti con i ricordi del passato.» La voce contrita di Stefano lo riportò tra le mura di una sartoria che affacciava su Piazza degli Artisti, la giovane era sparita ma l'odore della sua pelle deliziava ancora le narici dilatate di Samuele.
«Sam...» Stefano si alzò dalla poltrona di similpelle nera e lo raggiunse, scrollò appena il suo braccio e l'obbligò a voltarsi.
«Non ti preoccupare, Stefano, non è successo nulla. Vado nel camerino a spogliarmi così possiamo andare.» Samuele trascinò i piedi fino a raggiungere lo spogliatoio nella stanza adiacente e si nascose oltre la tenda grigio perla; sprofondò sul morbido sgabello e poggiò la testa tra le mani prima di consentire alle lacrime ferme agli angoli degli occhi, laddove le ciglia si fondevano con la carne, di solcare le guance.
Stefano attese qualche minuto, il tempo necessario affinché l'amico potesse sfogarsi e lui maledirsi, prima di pronunciare il suo nome a mo' d'esortazione e indurlo a uscire da quell'angusta stanza.
I due amici lasciarono il negozio poco dopo e s'incamminarono attraverso la verdeggiante via Scarlatti in un mortificato silenzio, Samuele notò il rammarico sul volto del suo amico sebbene fosse consapevole che non era colpa sua. Ci sarebbe sempre stato un gesto, una parola o un ricordo che lo avrebbero portato ad avvolgersi tra i detriti del rimpianto.
«Vogliamo prendere una sfogliatella da Bellavia?» Stefano provò a prenderlo per la gola, spingendo sulle tentazioni a cui Samuele amava cedere.
«Solo se sia tu a offrire, io la voglio frolla.» Samuele accantonò il passato, affinché l'afflizione solleticata dai ricordi non pesasse sul suo amico, e mostrò una rinnovata e illusoria serenità. Stefano sorrise e annuì solerte all'offerta di pace, sospinse l'amico all'interno del locale e raggiunse, soddisfatto, la cassiera.
Tornarono in strada dieci minuti dopo e, con le papille gustative deliziate, continuarono a camminare l'uno accanto all'altro, mentre il sole bruciava sulla loro fronte, inumidendola con il sudore. Si salutarono e separarono pochi metri dopo, dinanzi a un massiccio portone di legno di quercia, quello dello stabile dove Samuele ancora viveva con suo padre e che avrebbe abbandonato, per trasferirsi in un attico nella via parallela, appena sposato.
«Papà, sono tornato. Ti preparo qualcosa per il pranzo e poi esco di nuovo. Devo andare al ristorante, vorrei che questi preparativi finissero quanto prima per...» il trillo acuto del campanello sovrastò le parole di Samuele.
Si avviò alla porta d'ingresso, certo che fosse uno dei condòmini poiché nessuno si era annunciato citofonando. Spalancò l'uscio e il benevolo sorriso spuntato per l'occasione perì sulle sue labbra.
La mano sudata agguantava lo stipite della porta, le palpebre inumidite pizzicavano le pupille ottenebrate dal rimorso, il volto oscillava come se la figura innanzi a sé fosse un'effimera illusione pronta a dissolversi in un batter di ciglia.
Scrutò la donna ferma sul luminoso pianerottolo del suo piano con minuziosa attenzione, non tralasciò di osservare neppure un dettaglio del volto e del corpo: aveva lunghi capelli neri raccolti in una treccia a spina di pesce, le sopracciglia erano sottili e curate, le ciglia erano incurvate da un abbondante strato di mascara, le iridi smeraldine erano circondate dalla sclera arrossata da un recente pianto, la dritta linea del naso terminava con la punta leggermente innalzata, poco più su delle labbra carnose. Aveva notato il corpo minuto ed esile nascosto nel vestito di seta nera, si era soffermato sulle dita affusolate e aveva intravisto due vere nuziali adornare l'anulare della mano sinistra.
Fiera e composta, la donna stringeva tra i palmi tremuli un quaderno rilegato in pelle dove lui poté osservare una piccola incisione che non riuscì a decifrare. Aveva un portamento rigido, le spalle erano dritte e la testa innalzata. Non un accenno di sorriso era disegnato sulla bocca, gli occhi erano velati dalla commozione e adombrati dalla perenne afflizione.
La luce, che in passato rischiarava il volto della donna, era svanita da anni, ormai. Tornava a brillare, momentaneamente, solo quando marciava a passo spedito tra le vie della sua città, accompagnata da donne che non aveva mai visto ma a cui era legata dallo stesso crudele e innaturale dolore, con le dita strette sui bordi di uno striscione e con un fazzoletto bianco a coprire i capelli, che aveva sostituito il pannolino di tela del proprio figlio, . Una marcia pacifica, a cui non era mai mancata, che si svolgeva ogni giovedì pomeriggio e si concludeva dinanzi alla Casa Rosada.
Un movimento silenzioso e pregno di dignità che non le avrebbe restituito l'unica e adorata figlia, sparita nel nulla tredici anni prima, benché le donasse la sensazione di essere nuovamente viva non appena i suoi piedi si muovevano per avanzare, insieme alle altre madri, verso la verità e la giustizia.
Aveva condiviso ogni tormento e dolore con le altre donne, almeno fino alla scissione avvenuta sei anni prima, quando una fazione del movimento aveva accettato la riparazione economica che lei aveva aborrito nonostante non avesse mai giudicato chi era stato costretto ad aderire, strozzato dalla crisi economica che aveva investito il paese.
Eppure, quello che provava quando lottava insieme agli altri membri dell'associazione era l'illusione di una vita giacché, al calare delle tenebre, tornava a essere morta dentro. Era stato il ritrovamento del diario segreto di sua figlia, accuratamente celato sotto una mattonella cigolante del seminterrato, a ridarle la speranza. Lo aveva letto, dopo mille ripensamenti, per rinascere attraverso le parole di sua figlia, voleva vivere quella vita che le era stata strappata troppo presto. Voleva essere lei.
Erano state le ultime pagine a illuminarla sulle vere cause della sua prigionia e a fornirle i dettagli per giungere da quel ragazzo, diventato ormai uomo, che non le avrebbe negato il suo aiuto. Era uno scritto che le restituì il respiro, una fonte zampillante dove dissetarsi grazie a quanto aveva scoperto: un motivo che avrebbe ridato la luce alla figlia scomparsa, a lei e all'uomo dinanzi a sé, inconsapevole di quello che Mariam gli aveva taciuto e che era impresso con inchiostro nero sui fogli ingialliti dal tempo di quel piccolo diario stretto tra le sue mani come un prezioso cimelio di famiglia.
Samuele era ancora lì a osservarla e lei si era sentita spogliata di ogni maschera, indossata da quando la sua lenta agonia era iniziata, sotto il suo sguardo accorato, smarrito e, ancora, innamorato della sua bambina.
Una lacrima era sfuggita dall'angolo dell'occhio dell'uomo, aveva rasentato il bordo del naso e si era infranta sul labbro. Samuele l'aveva asciugata strofinandovi il labbro inferiore e aveva percepito un leggero sapore salato.
Era stata quella piccola perla liquida a infondere alla donna la consapevolezza di essere dinanzi all'uomo che cercava. Una dimostrazione che le confermò, al di là di ogni parola non proferita, la disponibilità dell'uomo a camminare al suo fianco nella battaglia che si accingeva a intraprendere.
Si era schiarita la voce, aveva inspirato con urgenza, la testa era scattata verso l'alto, le parole avevano graffiato le corde vocali prima di posarsi sulle labbra seccate dall'affannosa respirazione e aveva inchiodato le sue pupille in quelle dell'uomo prima di pronunciare fiera: «Ero sua madre.»
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