Senza tregua (parte 5)
Spedii un sms ansiogeno dal cellulare di Martina, diretto ad un certo dentista: "Vieni subito a casa mia. E' urgente, ti prego.", a cui feci seguire l'indirizzo. Non potevo sapere se Mario lo conoscesse o meno (o se magari fosse stato in casa nostra durante la mia assenza) e quindi preferivo andare sul sicuro. Potevo solo sperare che non si allarmasse così tanto da chiamare qualcun altro, magari la polizia... Ma per quanto accorato fosse quel messaggio, era anche piuttosto ambiguo, non parlava di nessuna minaccia specifica. Era allarmante ma non troppo, questo mi ripetevo durante l'attesa più straziante della mia vita.
Prima che arrivasse il mio rivale aprii la porta di ingresso giusto di uno spiraglio, in modo che potesse entrare da solo. Quindi mi nascosi dietro la porta della camera da letto lasciata spalancata, pronto a colpire. Come da copione Mario replicò al messaggio quasi subito, ma naturalmente io non risposi. Tentò anche di telefonare più volte, e sperai con tutto il cuore che la smettesse di cercare spiegazioni e venisse a farsi ammazzare, una buona volta. In quei momenti drammatici ebbi tutto il tempo di rendermi conto di ciò che stavo facendo: anche se restavo dietro quella porta pressoché immobile, dritto come un palo, dentro tremavo, e ne avevo ben donde; mi ritrovai addirittura a pregare che niente andasse storto, e forse da qualche parte un dio malvagio ascoltò le mie preghiere.
Dopo neanche dieci minuti Mario piombò in casa. Suonò a vuoto il campanello una sola volta, poi lo sentii vagare per un po' in soggiorno, prima che si precipitasse in camera da letto. Vide subito la sua amata stesa sul letto, morta e sanguinante. Un urlo strozzato gli uscì dalla gola, simile ad un rantolo di agonia. La sua angoscia era straziante a vedersi, eppure non era neanche la metà di quella che provavo io.
- Martina! - riuscì a dire prima che sgusciassi da dietro la porta senza fare il minimo rumore. Non mi sentì né mi vide, era troppo preso da quello spettacolo penoso. Stava per toccare il cadavere, quando gli puntai la pistola non lontano dalla tempia e feci fuoco. Una parte del suo cervello schizzò sul muro, per poi scivolare lentamente verso il basso, lasciando una scia rossastra. Mario si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto, senza neanche accorgersi della propria morte. Gli misi quindi la pistola in mano, serrando le dita intorno al calcio dell'arma, prima che sopraggiungesse il rigor mortis. Feci premere l'indice sul grilletto, e un proiettile andò a conficcarsi nella parete opposta. In quel modo l'esame dello stub avrebbe rivelato che aveva effettivamente sparato; il colpo a vuoto sarebbe stato attribuito ad imperizia, o a momentanea mancanza di coraggio nel togliersi la vita. O almeno così mi auguravo. Ancora una volta ascoltai con attenzione, ma i vicini continuavano ad essere lontani, o a farsi i fatti loro. Un miracolo, più o meno.
Aggiunsi quindi il tocco finale, il cuore del mio piano improvvisato, la mossa che avrebbe dovuto scagionarmi da qualsiasi indagine: raccattai dal tavolo del soggiorno il messaggio di addio senza destinatario, e lo ficcai in tasca al defunto dentista, in modo che la polizia credesse che quello scaricato fosse lui. Avrebbero creduto che Martina, pentita, avesse deciso di restare con me, e che Mario non fosse riuscito ad accettarlo, da cui il tragico epilogo.
Cancellai i messaggi compromettenti da entrambi i telefoni e disfeci le valigie. Uscii dalla camera dell'orrore e mi tolsi i guanti, per poi correre in bagno a lavarmi le mani, tentando così di cancellare ogni residuo di polvere da sparo, ammesso ce ne fosse. Mi guardai allo specchio sopra il lavandino e stentai a riconoscermi: l'uomo che vidi riflesso aveva un aspetto tanto stravolto da poter passare per un tossicomane in crisi di astinenza, o per un evaso dal manicomio. Iniziai a tremare senza riuscire a smettere, il calo di tensione arrivò di botto, simile ad una scossa elettrica. Mi versai allora una generosa dose di coraggio liquido, rischiando di frantumare bottiglia e bicchiere. Stetti per un po' seduto cercando di rilassarmi; certo non era facile con due cadaveri ancora caldi nell'altra stanza. Quando fui tornato padrone delle mie azioni abbandonai l'appartamento.
Corsi in auto in una zona fuori mano, piuttosto lontano dalle mie parti, e buttai i guanti in un cassonetto, per poi raggiungere la band per crearmi un alibi. Dissi loro che stavo meglio, e riuscii anche ad apparire più o meno normale, anche se avevo l'aria stanca, tipica di chi è stressato. Certo era un alibi piuttosto zoppicante, con un bel buco temporale nel mezzo, ma non potevo permettermi niente di meglio.
Quell'assurdo piano realizzato su due piedi pareva a prova di bomba, ma col passare delle ore iniziava a mostrare parecchi punti deboli: per prima cosa dovevo sperare che (a parte Mario) nessuno conoscesse le intenzioni di Martina; dovevo inoltre sperare non ci fossero testimoni di alcun genere, né telecamere che mi avessero ripreso in azioni sospette (tipo buttare un paio di guanti dall'altra parte della città), né che fosse rimasta della polvere da sparo sulle mie mani assassine... E magari altri dettagli compromettenti, forse inimmaginabili per un'ottusa mente criminale. Forse i motivi di incertezza erano troppi per riuscire a farla franca, ma solo il tempo avrebbe potuto dirlo. Non mi restava che aspettare, e recitare la mia parte.
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