La tomba del mondo (parte 6)


Correre in mezzo al nulla equivaleva a perdersi nella propria mente: quel paesaggio arido e sempre uguale non era altro che lo specchio della mia anima tormentata. Crollai al suolo, sfinito. Ero esausto, non solo nel corpo, ma soprattutto nella mente. Eppure mi rialzai per l'ennesima volta, senza sapere dove trovassi la forza. Davanti a me solo grigia terra e polvere; eppure scrutando con attenzione notai qualcosa, anche se distante. Mi avvicinai con cautela. Era l'ennesima tomba. La lapide sbucava dalla terra simile ad un grosso dente, l'unica da quelle parti.

Era la tomba di Martina: lessi il suo nome a voce alta per sentirmi meno solo, ma non pronunciai la data di morte, né il mio dannato nome. Sentii allora una presenza alle mie spalle, e mi girai di scatto, senza pensarci. Mia moglie era lì, quasi l'avessi evocata con il solo potere della parola. Non era terribile e vendicativa come nell'incubo di un paio di notti prima, appariva semmai fragile e malinconica: era bianca come neve, la sua pelle ricordava la porcellana, e sembrava altrettanto delicata; i biondi capelli si muovevano ad ogni alito del debole vento, quasi avessero vita propria. Indossava il vestito con cui era stata sepolta, un leggero abito primaverile con una fantasia floreale turchese, unico vero colore che rompeva la monotonia del paesaggio cupo, apparendo quasi irreale.

- No, ancora... - mormorai con un filo di voce, mentre arretravo di un passo, sfiorando la lapide.

- Ultimamente il mio riposo è stato turbato da strani sogni. -

La voce della donna che avevo di fronte (ma era davvero lei?) aveva lo stesso suono di quando era in vita, anche se una nota dolente incrinava ogni singola parola.

- Sei un altro trucco di Zosser! – protestai dubbioso, mentre una vana speranza si faceva largo nei miei pensieri, sempre più caotici.

- Chi è Zosser? -

La sua sorpresa pareva autentica. Volli crederle, anche perché ne sentivo il bisogno.

- Martina! - pronunciai il suo nome come un assetato che invochi dell'acqua – Mi hai spezzato il cuore. - ebbi l'impudenza di aggiungere.

- Ci siamo fatti del male a vicenda. - rispose mentre si avvicinava osservandomi con curiosità, a sua volta incredula del nostro incontro. Sembrava confusa e perplessa, come chi si è appena destato da un lungo sonno. Esaminando il suo volto da vicino, constatai che la pelle era così sottile che riuscivo ad intravedere le ossa sottostanti, quasi fosse trasparente.

- Sono io quello che ti ha fatto del male. - ammisi in un soffio, per poi portarmi una mano sulla bocca in un gesto infantile, quasi a voler cancellare l'enormità di quella ammissione.

- Ma la tua morte è stata peggiore della mia. – affermò la donna che mi stava davanti mostrando pietà, senza alcuna traccia di rancore. Aveva detto la verità, pura e semplice: come sempre arrivava subito al cuore delle cose.

- Sei migliore di me. – ammisi, volendo essere sincero, almeno per una volta – Lo sei sempre stata. -

- Sei in pericolo. -

I suoi occhi verdi si fecero grandi, quasi a sottolineare la minaccia che incombeva. Sentii perdermi in essi, e la sottile speranza di poco prima si fece più grande, più forte. Martina era lì per salvarmi, non c'era altra spiegazione.

- Per aiutarti a ricordare. - disse facendomi scivolare qualcosa in tasca. Non mi curai di che fosse né di cosa avrei dovuto ricordare, in quel momento esisteva solo il miracolo di Martina, di nuovo insieme a me. Mi resi conto di amarla ancora, nonostante tutto. Desideravo non se ne andasse, sentivo bruciante il bisogno di lei come dell'aria che respiravo, tanto che le chiusi le dita intorno al polso, a volerla trattenere. Era stato un puro impulso dettato dall'urgenza. Ma la sua pelle era talmente glaciale che ritrassi subito la mano, quello era il freddo della morte. Un abisso ormai ci separava, e anche se in quel momento eravamo vicini, in realtà non avremmo potuto essere più distanti. Lei apparteneva al regno delle ombre e del ricordo, in me scorreva ancora sangue caldo nelle vene.

Ci guardammo negli occhi a lungo, senza proferire parola. Non c'era altro da dire. La vidi chinare il capo, afflitta, per poi andarsene senza voltarsi indietro. La guardai diventare sempre più piccola ad ogni passo che ci separava, per poi sparire nel grigio e nel vuoto. Aveva portato via con sé ogni traccia di colore. Non restava che tenebra.

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