Il deserto (parte 1)
"Poi sognò la città.
Non subito, prima vide il deserto. Una distesa
vuota di sabbia azzurra e nera che gli pungeva
le piante dei piedi mentre camminava, che il vento
gli mandava negli occhi, nel naso e nei capelli.
Sapeva di essere già stato in quel luogo.
Il suo io sognante riconosceva il paesaggio
di dune aride, senza alberi né abitazioni
a interromperne la monotonia."
Dal racconto Nella carne di Clive Barker.
Il bianco aveva cancellato il mondo intero. In qualunque direzione mi girassi, ovunque posassi lo sguardo, non vedevo altro che bianco: una distesa immensa, senza fine, una vastità schiacciante di sabbia bianca mi circondava da ogni parte, opprimendomi la mente, facendo vacillare la mia ragione. Com'era possibile? Come!? Giravo e rigiravo su me stesso come una trottola impazzita, ancora incredulo, con la paura che si infiltrava nei miei pensieri come una malattia. Non riuscivo più a connettere. Mi resi vagamente conto di avere la bocca aperta per lo stupore, in un atteggiamento da povero scemo, e la richiusi con violenza. Il suono secco che seguì fu assai simile ad un colpo di pistola in quel silenzio di tomba.
Alzai gli occhi in alto, in una preghiera muta e disperata, ma il cielo di un azzurro scolorito, quasi metallico, non mi fu di alcun conforto. Il sole era una palla di fuoco insopportabile, che mi costrinse ad abbassare subito lo sguardo, prima di ridurmi gli occhi a due tizzoni ardenti. Sudavo, e non solo per il caldo torrido: non riuscivo più a formulare pensieri coerenti, mi sentivo un animale in gabbia. E che la gabbia fosse tanto grande da parere infinita non mi rassicurava affatto. Ancora incredulo osservai la mia auto, con le ruote quasi del tutto affondate in quella maledetta sabbia biancastra, impossibilitata a procedere. Pareva un relitto. Tirai fuori da una tasca dei jeans il cellulare, ma dovetti constatare che lì non c'era campo. Ero solo in mezzo al nulla, il più solo degli uomini. Tornai allora con la memoria a pochi minuti prima, quando all'improvviso mi ero ritrovato nella situazione più assurda dei miei trentanove anni di vita.
Erano le nove del mattino e guidavo verso casa, reduce da una nottata di lavoro, quando il paesaggio davanti ai miei occhi stanchi aveva cominciato a mutare in modo inquietante: attraverso lo schermo del parabrezza avevo visto i palazzi farsi sempre più radi, così come i passanti e gli altri veicoli; nel giro di una manciata di minuti il mondo si era svuotato, neanche fosse vittima di un incantesimo maligno. Ad un certo punto non rimaneva che la strada, diventata in pochi istanti sempre più bianca, spettrale, come se vi avessero gettato sopra tonnellate di sale... E poi nient'altro che il deserto, di un bianco nullificante, annichilente. Ero riuscito a percorrere ancora pochi metri prima di riprendermi dallo stupore, e realizzare che la macchina si era ormai impantanata nella sabbia. Le ruote giravano a vuoto, schizzando dappertutto granelli biancastri. Avevo spento il motore ed ero uscito a malincuore dall'abitacolo.
Questo, più o meno, ciò che riuscivo a ricordare di quegli attimi concitati. Era tutto troppo insensato per accettarlo come reale, volevo convincermi di stare sognando, o di essere vittima di un'allucinazione. Stavo per darmi il classico pizzicotto, quando invece mi chinai e immersi la mano destra nella sabbia. Scottava, e quando ritirai la mano vidi i granelli scivolarmi fra le dita, mentre alcuni di essi si erano attaccati alla pelle. Mi pulii sfregandomi sulla maglietta e mi rialzai. Era tutto vero, non potevo che accettarlo.
Tornai allora alla macchina, per cercare qualunque cosa potesse essermi d'aiuto; ma a parte un bottiglietta d'acqua minerale non trovai nulla di utile. Ci misi un po' a decidermi, ma alla fine feci l'unica cosa che avesse un senso: abbandonai recalcitrante la mia auto, e mi incamminai in una direzione a caso, tanto in quel nulla senza punti di riferimento una parte valeva l'altra. Guardai perplesso i miei piedi affondare in quella strana sabbia chiara, e mi chiesi come mai fosse così bianca... Una domanda oziosa che sapeva di pazzia, come tutto il resto, d'altronde.
Già da un po' mi pareva di avvertire dei suoni, per quanto deboli, ma non ci avevo fatto troppo caso, vista la situazione; ma più andavo avanti, e più mi sembrava di riconoscere una voce, per quanto lontana, anche se non riuscivo a distinguere le parole. Era l'assurdità finale in quel concentrato di irrealtà: ormai ero sicuro, era la voce di mia moglie. Ma lei non poteva essere lì, non era proprio possibile, per quanto fantastico potesse essere quel posto. Perché mia moglie era morta.
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