EPILOGO
Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare; se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare; e se non succede niente si beve per far succedere qualcosa.
Questo era ciò che accadeva a Theodore quotidianamente.
Nonostante fosse stato attento e meticoloso nel non lasciare tracce indossando guanti, preservativo, facendo attenzione a non spargere fluidi corporei di nessun tipo e in nessun modo, il giovane Knepper non fece i conti con la sua dipendenza.
Non resistette a quel bisogno psicofisico incontrollabile di assumere alcol.
Dopo aver acchetato l'impeto dell'uomo malato, dopo aver concluso lo scempio, si ricordò della bottiglia di Vodka lasciata vuota sul sedile della macchina. Certo, l'aveva usata tutta per intontire la donna ma forse un goccetto per festeggiare era rimasto.
Quello sarebbe stato il gesto per il quale si sarebbe poi pentito amaramente.
La saliva trovata sul collo della bottiglia lo aveva inchiodato alla croce. Theodore patì per scherzo crudele del destino proprio a causa del suo legame con quel liquido che tanto amava e tanto gli donava completezza e gratificazione.
«Perché sono qui dentro Mike?»
Michael si voltò di scatto interrotto nei suoi pensieri. Guardò la sua paziente seduta muovere freneticamente le dita sulla coscia scarna e seminuda.
Restò interdetto a fissarla col volto chino: che avesse immaginato quelle parole?
«Perché sono qui dentro Mike?» Ripeté di nuovo, mentre il viso pallido si levò tra le ciocche dei capelli biondi appiccicati al volto.
Stava piangendo ma per il dottor Miller fu una benedizione.
Qualunque fossero le sue reazioni, coscienti e razionali, erano un dono per l'anima di entrambi.
«Sara...»
Quel corpo esile si levò in piedi e lo raggiunse lentamente. Le gambe sottili e fragili sembrava trascinassero un peso enorme.
Michael contenne fra le sue mani quel viso emaciato tra i capelli quasi candidi, quando d'improvviso sentì le braccia di lei raccogliersi nel petto dove affondò la testa in silenzio.
Tremò. La sua agitazione superava il fremito dell'inquietudine della donna che aveva addosso. Come poteva essere solo la sua paziente, come poteva rassegnarsi ad averla persa forse per sempre, a vederla ogni giorno far parte di quella lista di soggetti dai disturbi e dalle malattie più disperate. No. Non si sarebbe arreso, lui.
«Come ti senti?» Chiese flebilmente stringendola appena fra le braccia.
«Meglio, ora.»
«Ti ho tolto tutti i farmaci.» La scostò per guardarla negli occhi. «Ti ho lasciato solo la tua vecchia terapia.»
Sara lo guardò a lungo. In quelle iridi luminescenti Michael riconobbe il tormento, la lenta persecuzione della tristezza, ma identificò la vita e questo ne diede altra alla sua.
Sara alzò il volto e protese la bocca verso la sua. Michael serrò la mascella odiando il suo stesso gesto di diniego: poggiò due dita sulle labbra di lei per poi baciarle la fronte. Negò le sue realtà intime consciamente vissute, dolorose, conflittuali, ma quella stessa realtà lo portò a riflettere sull'effettiva concretezza del momento.
Sara lasciò la sua fronte cadere sul mento dell'uomo e restò tacita nel suo respiro.
«Siediti» le disse indicando la poltrona del suo studio.
«Voglio restare in piedi,» Sara si allontanò verso la finestra, «da qui posso vedere come è fatto il mondo.»
«Lo hai dimenticato?»
«Forse. E il bianco asettico di quella stanza non mi aiuta di certo.» Si soffermò a guardare il piumaggio azzurro di un uccellino posato sul davanzale.
«Ah! Sì. Quello è Martin. Lo riconosco perché ha una cresta grigia da far paura a un gallo.» Michael alzò le spalle. «Cerca da mangiare il furbacchione...» Si diresse verso la scrivania e tirò fuori una fetta di pane tostato. «Tieni,» si rivolse a Sara, «vuoi dargli l'onore di essere sfamato dalla donna più bella che ha visto da quando è qui?»
«Sì, grazie.» Sara tornò a fissare il pennuto. «Come fai a sapere che è un maschio?»
«Semplicemente... Non lo so. Preferisco pensare di avere a che fare con un maschio. Voi femmine siete troppo complicate.» Increspò la fronte: «Preferisci chiamarlo Martina? E così sia!»
Sara aprì il volto in un sorriso e prese il pane fra le mani: «Ma non scappa? Non ha paura?»
«Perché dovrebbe.» Iniziarono a sbriciolare il pane mani nelle mani. «Cos'è la paura Sara? Se non una gabbia che noi stessi costruiamo intorno alle nostre debolezze. Lui non ha paura, vedi?» Michael aprì la finestra e Martin piegò il collo in attesa. «È libero Sara, libero da ogni gabbia.»
«Le mie gabbie?» Chiese distratta dallo sfamare il volatile. «Potrò mai liberarmene Mike?»
Michael avvertì un tuffo al cuore. Sapeva benissimo che alcune prigioni restavano tali per sempre. Dovette elaborare al meglio la sua risposta. «Se veramente lo vogliamo possiamo liberarcene Sara, o magari trovare anche solo la chiave per lasciare le sbarre aperte.» Sentì stringersi le mani forte da quelle di Sara. Esitò, per poi proseguire: «Lasceremo il varco, cosicché quando la paura ci coglierà di sorpresa sapremo da dove uscire.»
«Lincoln sarà la mia gabbia per sempre» sussurrò, nel timore di dover affrontare la sua più grande paura.
«Ti parla ancora?»
«Ora no. E spero non lo faccia più.»
«Gli hai dato quelle risposte che cercava?» Michael insistette sperando nell'apertura di Sara al dialogo.
«Sì» Il pianto cominciò a scendere copioso sul volto scolorito di Sara. «E ha ragione a odiarmi.»
«Magari non ti odia, Sara.» Michael la voltò fra le sue braccia. «Magari sei tu che lo credi. Forse sei tu a essere ostile verso te stessa o qualcosa che hai fatto.»
Sara infuocò nel volto. Le gote rosse donarono un colorito dettato dall'anima.
«Sii padrona di te stessa e non esserti avversa. Io sono qui per aiutarti Sara e lo farò finché non tornerai a volare come Martin.»
Sara volse un ultimo sguardo verso il pennuto che ancora beccava briciole. Annuì, e andò a sedersi sulla poltrona.
«L'ultima volta che l'ho visto è stata quella notte dell'appuntamento con Gretchen.» Sara iniziò a trepidare. «Mi ha fatto davvero paura Mike.»
Il dottore si avvicinò e prese posto accanto a lei: «Ti ricordi cos'è accaduto quella sera?»
«Poco.» Scosse la testa. «Perché ho questi maledetti vuoti di memoria, Mike! Mi sembra di avere il cervello bucherellato come un groviera.»
«Potrebbe essere solo una conseguenza dello shock.»
Sara si arrese in una smorfia rassegnata. «L'ultima cosa che ricordo è quella maledetta radio.»
Michael le porse un bicchiere d'acqua. Sara ne bevve un sorso poi tornò a parlare: «Ero in macchina ad attendere che Gretchen arrivasse sul luogo dell'appuntamento».
«Ricordi dove?»
«West Evenue. Al Liquors Friends. Come dimenticare quel posto squallido.»
«Perché ti ha chiesto di vedervi proprio lì?»
«Probabilmente perché è il posto in cui ci siamo incontrate per la prima volta. Forse credeva che da lì avessimo potuto ricominciare.»
Michael annuì e Sara riprese: «Mi aveva inviato un messaggio che avrebbe ritardato di un po' ma non potevo risponderle perché stavo guidando. Quando sono arrivata ho parcheggiato e ho acceso la radio per avere un po' di compagnia. Quel luogo mi metteva i brividi».
«Ricordi che mi hai chiamato?» Michael fece la domanda per valutare se quelle che erano state le sue impressioni fossero corrette. Sara durante quella telefonata gli era sembrata agitata ma comunque relativamente presente nella realtà del momento.
«No.»
La risposta secca lo fulminò seduta stante. Probabilmente era già nel pieno del suo delirio. Si contenne nell'espressione e fece cenno di continuare.
«Ricordo che la radio passava True Colors.» Michael asserì, l'aveva sentita in sottofondo. «Poi a un tratto ha cominciato a gracchiare e... ho sentito la voce di Lincoln.»
Sara prese la mano di Michael e la strinse forte. Lui con un gesto rassicurante le spostò i capelli dal volto per poi rasserenarla: «Sono qui Sara. Non temere. Ormai è tutto finito».
Si portò la mano di Michael al volto e poggiò le dita sotto lo zigomo. Si appagò del caldo tepore che emanava.
«Continuava a ripetermi di andare via da lì. La sua voce mi pugnalava la testa Mike!» Iniziò a sfregarsi la mano libera fra i capelli. L'uomo la prese e la riportò con calma sulla coscia tenendola stretta ancora, senza dir nulla.
«Alla fine mi ha detto la solita frase: Cerca le risposte e ci salveremo. Poi non ricordo più nulla Mike. Ho un vuoto. Ricordo solo di essermi ritrovata in uno spazio stretto, forse il bagagliaio di una macchina, e poi su quelle sterpaglie nella foresta.»
«Non sai se qualcuno ti ha fatto intenzionalmente del male o se ci sei arrivata da sola lì.» Michael sperava davvero che ora Sara non ricordasse. Non era il momento per affrontare altro dolore.
«No. Non lo so Mike. So soltanto che puzzavo di alcol tanto che ho creduto che mi avessero cosparsa di quel coso per darmi fuoco.»
Non era da escludere se non fosse stato per il fatto che lei stessa l'avesse acquistato.
«Hai comprato una bottiglia di Vodka in quel bar, Sara. Ed è stata rinvenuta nella tua macchina insime a una scatola di Tepharol. Erano vuote entrambe.»
Sara alzò lo sguardo atterrita: «Vodka? Io non bevo Mike! Non... Non è possibile che sia stata io a comprarla...»
«Calmati Sara.» Michael la carezzò. «Potrebbe essere che lo shock e il disorientamento per quanto ti era accaduto con Lincoln ti abbia portato a fare quel gesto. Non credo tu l'abbia intenzionalmente.»
«Non avrei mai preso quelle pasticche Mike.» Sara iniziò a piangere sommessamente. «Tu sai che non l'avrei mai fatto...»
«Sh! Veni qui.» Michael la strinse di nuovo a sé. «Lo so, Sara. Io ti credo.»
La donna di nuovo si perse nel caldo abbraccio per poi alzare ancora il volto e cercare con determinazione quelle labbra che l'avrebbero portata a respirare di nuovo.
Michael stavolta non si tirò indietro.
Con il dito arrivò a stento sul bottone dell'aggeggio che continuava a registrare.
Lo scatto fermò il nastro. Il mondo di Michael si fermò ai suoi piedi.
Nulla aveva più un senso, forse nemmeno ciò che stava facendo lui, ma il cuore gli restò incastrato e a fatica balzava tra le costole compresse.
«Credo di amarti Mike.» Sara lasciò le sue labbra per pronunciare timidamente la frase sugli orli cutanei ancora umidi.
«Sara... Non...»
Lei lo mise a tacere portandosi il dito sulla bocca. Poi riprese: «Credo sia giusto tu sappia che ti sei innamorato di un mostro, Mike.»
L'uomo restò impietrito e silente, sapeva già quali parole avrebbero seguito quella frase.
«L'ho ucciso io Mike. Io ho lasciato che mio fratello cadesse da quel dirupo. D'improvviso sono rimasta immobile come un sasso, non ricordo che diamine mi è preso. Non ho fatto nulla per aiutarlo, e ora è giusto che paghi la sua morte.»
Inserì il volto fradicio nell'insenatura del collo dell'uomo. Restò a inspirare il suo odore nell'incertezza di non poterlo sentire ancora una volta.
«Stai già pagando, piccola mia. Stai già pagando.»
«Aiutami a ricordare...»
Michael le carezzava la testa nell'assoluta assenza di rumori. Sara si levò in piedi trascinando con sé il corpo di lui.
Cercò il contatto, lo ottenne. I loro corpi si unirono stretti e le loro anime si legarono in un respiro.
«Non mi lasciare Mike. Promettimi che resterai con me» sussurrò sul suo petto.
«Non potrei mai fare altro, Sara. Tu sei sempre stata parte di me.»
Il volto di Sara si dipinse di serenità. In quello sguardo Michael rivide la quiete dell'animo. Come sarebbe riuscito a farle ricordare. Era convinto e consapevole che le parti mancanti fossero le più traumatiche, per questo si ostinava a rimuoverle. Quale coraggio avrebbe cercato e trovato negli anfratti più reconditi del suo io, per portare alla luce i pezzi mancanti che a Sara servivano per completare il puzzle. Dove avrebbe trovato la forza di privarla di nuovo di quella serenità. Ammesso che Dio gli avrebbe dato ancora vita per via della sua malattia.
«Voglio tornare a casa Mike.»
«Ci torneremo.»
Fine
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