CAPITOLO TREDICESIMO
Non era stato facile raggiungere Miller in quelle condizioni.
Oltre al maltempo che non veniva in suo favore buttando giù acqua in modo copioso, l'ansia e l'agitazione avevano reso l'impresa ancor più ardua.
Nonostante le fosse più vicina casa di Michael piuttosto che la sua, a Sara sembrò un lungo viaggio. La pioggia aveva coperto la visuale per tutto il tragitto, costringendola a rallentare. Il vento forte l'aveva fatta viaggiare con i finestrini ben serrati, e i fulmini che squarciavano il cielo l'avevano allarmata e spaurita il più delle volte.
Poi il panico. E quel tremore costante che continuava ad assillarla.
Colpì con le mani il volante. Se fosse servito a vederle ferme le avrebbe persino legate, quelle maledette.
Parcheggiata la macchina, abbassò il finestrino e restò qualche istante appoggiata allo schienale del sedile. A occhi chiusi cercò di incamerare aria; addirittura il cervello sembrò chiederle ossigeno.
Una strana sensazione la ridestò. Una di quelle che si avverte quando si ha l'impressione che qualcuno ci stia osservando di nascosto.
Tirò lo sguardo di fronte a sé e quella che era una sensazione divenne convinzione. Al di là del parabrezza riuscì a intravedere nella semioscurità la sagoma di una persona. A un tratto cominciò ad avvicinarsi ma sembrava barcollare. Solo allora Sara notò che la gamba voltava innaturalmente nel verso opposto mentre tentava di trascinarsela per camminare.
Avrebbe voluto rivolgere parola a quella figura, o forse avrebbe tenuto solo la bocca aperta senza fiatare, ma lui alzò le mani e le fece cenno di restare in silenzio.
Quando fu accanto allo sportello, il suo viso fu illuminato dalla luce gialla del lampioncino.
Sara lo riconobbe subito, e il cuore le si fermò di nuovo nel petto. La paura le stava scritta in faccia.
«Eri... Eri tu...»
Di fronte a lei c'era Lincoln. Mostruosamente sfigurato. Nei suoi occhi neri non c'era il minimo segno di vita. Erano coperti da uno strato lattiginoso che denso gli colava lungo il viso gonfio e livido.
Lincoln aprì la bocca e le labbra si liberarono da una crosta di sangue.
"Perché ti senti in colpa?" le domandò la voce, simile a un crepitio che risaliva dagl'inferi.
Sara rabbrividì. Non sopportava il tormento e l'orrore di vedere il cadavere di suo fratello. Finora nei suo incubi l'aveva sempre tormentata la sua morte, stavolta Sara contemplava la risposta alle domande che mille volte aveva formulato. Dove era finito? Incastrato tra il regno dei morti e quello dei vivi? Oppure fluttuava nello spazio azzurro dell'aldilà?
La sua anima risiedeva accanto a lei, e non era affatto una bella sensazione.
«Vattene!» sibilò a quella figura inquietante. Ma quest'ultima continuava a fissarla con gli occhi della morte. «Ti prego... Sparisci.»
"Perché ti senti in colpa?" le domandò di nuovo.
Ma non era la voce di Lincoln.
Era la voce di un essere che albergava sotto il limite che separa la realtà, la razionalità, la consapevolezza, da tutto ciò che è ignaro alla psiche; il profondo abisso, dove cumuli di cenere oscurano e nascondono angoli terrificanti, dove risiedono fiamme e tormenti.
Era la voce del suo subconscio, che cercava di esprimersi in quel modo orrendo.
Eppure le parve che l'odore di putrefazione fosse reale... mescolato al profumo di quello shampoo, che gli aveva riportato il vento l'ultima volta al monte.
Lincoln allargò il braccio a brandelli e Sara, piena di orrore, vide il frammento della clavicola rotta che gli sporse dalla spalla.
Si ritirò sul sedile del passeggero, da dove sperava di riuscire a scappare. Ma aveva le ossa e la carne rigide come una pietra, e il suo cervello non elaborava più quasi nessun pensiero.
Sentì invece le dita gelide di Lincoln toccarle il volto madido di sudore, mentre con movimenti scomposti si sporse dentro l'abitacolo. Il cuore di Sara batteva all'impazzata.
"Cerca le risposte e ci salveremo" le mormorò.
Poi finalmente si dissolse nell'oscurità.
Sara rinsavì con le viscere contorte. Un groviglio di agghiaccianti sensazioni, paure, le annodava il ventre fino a farle mancare il fiato.
Si schiacciò contro la tappezzeria e guardò il bianco della porta di Michael che rifletteva nell'oscurità.
Respirava a fatica.
La sua auto l'angosciava. Le sembrò di essere rinchiusa in un loculo, dove le pareti sostavano a un centimetro dalla sua carne.
Probabilmente, questa volta, anche se si fosse trovata in un enorme spazio si sarebbe sentita reclusa, perché la sua vera prigione alloggiava dentro di lei, nutrendosi di tutto ciò che l'avrebbe potuta far sopravvivere.
«Devo uscire da qui! Sto per soffocare!»
Scese frettolosamente dalla macchina e inspirò a pieni polmoni l'aria della notte. Il nodo alla gola sembrò allentarsi e affannata poggiò le mani sulle ginocchia compiendo respiri corti e frequenti.
Perché ti senti in colpa, le aveva domandato il Lincoln dei suoi incubi.
Aveva il rimorso sulla coscienza per la sua morte, questa era la risposta. Non era stata in grado di proteggerlo e nel momento decisivo, di salvarlo.
La notte era compatta e penetrante. Sara ebbe la sensazione di essere immersa in un'enorme bolla nera. Era accompagnata dai rombi dei tuoni, e proprio uno di questi, non molto lontano, le risvegliò il raziocinio.
La pioggia scendeva abbondante. Le gocce la colpirono in faccia e si mescolarono alle lacrime del viso, per poi disperdersi sul terreno erboso.
Sara pregò a denti stretti affinché anche le sue paure si dissolvessero come quell'acqua.
Le sembrò nuovamente di sentire la voce di suo fratello; la voce di quella creatura mostruosa.
Cerca le risposte e ci salveremo.
«Quali risposte? Dannazione, quali risposte!»
Cosa doveva cercare una volta per tutte?
Un lampo squarciò le coltri di nubi, seguito da un tuono fragoroso come un terremoto. La pioggia aumentò mentre il vento le ululava nelle orecchie.
Sara capì che era giunto il momento di affrontare i suoi timori. Se voleva sopravvivere, doveva tornare alla realtà. Non le sarebbe servito altro tempo per comprendere che era un errore continuare a scappare. Si infilò nel cancello, attraversò il cortile, e raggiunse il portone d'ingresso di Miller.
Indugiò un momento. Forse non era il caso di presentarsi così, nel cuore della notte. Ma a Sara sembrò ancora di poter sentire il fetore della decomposizione tra le narici, le sembrò ancora di poter avvertire quella voce nella sua testa. Sul suo collo perseverò un alito freddo, ghiacciato. Si irrigidì ma non volle voltarsi per capire. E se fosse stato di nuovo Lincoln?
Si fece coraggio e suonò al campanello del dottore. Michael avrebbe capito.
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