CAPITOLO SECONDO
25 Dicembre 2005
Sara sedette sul letto. Il caffè fumante in una mano e il suo diario nell'altra.
Ricordava bene quel giorno. L'immagine tersa nella mente sarebbe stata più efficiente delle quattro righe scritte in preda allo shock e il tormento della paura.
Idiota!
L'ho sempre saputo che prima o poi ne avrebbe combinata una grossa quello stupido!
Sono scossa e agitata mio Diario.
Papà è in ospedale e sembra che ora sia fuori pericolo, a parte la sua gamba...
Da ieri non faccio altro che piangere mio Diario, il mio papà resterà zoppo a vita!
Stamattina sono stata da lui, soffre molto. Ho visto scorrere due lacrime sul suo finto sorriso.
Voleva rasserenare me, capisci!
Dio mio! Mi ha chiesto scusa se probabilmente non potrà più correre in bici con me, fare le nostre escursioni, le nostre partite di tennis al sabato... Niente!
Niente più di tutto questo. I nostri momenti da soli sono finiti come tutte quelle cose che tanto ci piaceva fare assieme.
Ma non importa mio Diario, l'importante è che sia vivo.
Doveva prenderla lui l'ascia sulla gamba, così avrebbe imparato!
Sara
Lo scritto si concluse così... con un enorme cuore nero, spezzato a metà, che addobbava il fondo della pagina.
Sara si ritrovò ad asciugarsi il volto coperto di lacrime.
Cosa avesse racchiuso allora in quelle righe, ora non aveva per lei molta importanza. Quel che le doleva in fondo al cuore, ancora, era vedere suo padre arrancarsi stanco tra le stanze di casa.
Quell'incidente era costato molto all'uomo, e non solo al fisico.
Non diede mai a vedere l'enorme sofferenza che provò quando fu costretto a lasciare il suo lavoro come cameriere da Aldo. Non mostrò mai il senso di vergogna che provava a farsi mantenere dalla moglie, a dover dipendere da lei, a lasciare a lei tutte le incombenze della famiglia.
Soffocò dentro di sé tutti i suoi sentimenti più aspri e asciutti, ma anche quelli di natura più intima, come il timore, il disagio, il dolore, l'imbarazzo verso se stesso e gli altri.
Non avrebbe mai fatto portare a suo figlio la macchia del rimorso e della colpevolezza.
Quel pomeriggio, Sara sentì le urla disperate di suo fratello venire dal cortile.
Si affacciò rapidamente alla finestra, tuttavia, a parte qualche pedata sulla fitta coltre di neve, non vide nulla.
Le grida del ragazzino continuavano perpetue e assordanti, e l'unica cosa che venne in mente a Sara fu quella di infilarsi le calosce e correre fuori.
La neve, quell'anno, aveva coperto le strade per oltre un metro nella città di Flashy, nel Colorado, e quando la ragazza aprì la porta, lo scenario bianco colorato dal gelo pungente le si infiltrò tra le ossa, così come la voce di suo fratello.
"Papà! Mamma! Aiuto!", continuava a strillare in preda al panico il ragazzino.
Al seguito di Sara uscì Henry in calzini e mezzo denudato.
"Dove sei tesoro!", urlava fremente al centro della corte immobile di bianca natura.
Fu Sara ad alzare lo sguardo, quando un masso di neve le cadde a poco più di una spanna dai suoi piedi.
Il fratello era aggrappato alla canna fumaria, sdraiato sul tetto scivoloso, a oltre otto metri d'altezza.
"Sta' calmo, tesoro! Resisti! Non ti muovere!" Henry supplicò suo figlio Lincoln.
Inebetita e con le mani in mano, Sara restò a guardare il padre arrampicarsi su per la scala.
Saltò dallo spavento quando l'uomo rischiò di scivolare tra i pioli. Un urlo soffocato le nacque dal ventre per strozzarsi nella bocca.
Tornò a respirare solo quando il padre, raggiunto carponi suo fratello, lo aiutò a tornare indietro.
Arrivati ai gradini il peggio sembrava essere passato, ma invece doveva ancora arrivare.
Il ragazzino posò il piede malamente sul piolo, la scarpa slittò sul ghiaccio e il padre, per sorreggere il figlio, si sporse perdendo lui stesso l'equilibrio.
Il volo sembrò interminabile agli occhi di Sara, tra gli urli dispersi nel vento.
Discese sul candido bianco con un tonfo che alla giovane mozzò il fiato. L'impatto fu impetuoso e violento, e la neve cominciò a colorarsi di rosso.
Tentennò scioccata prima di avvicinarsi.
Il terrore le masticava intrepido persino le ossa.
Poi corse, corse per raggiungerlo, mentre suo padre boccheggiava nel dolore.
L'uomo atterrò sul vergine bianco, ma non prima di essersi tranciato la gamba destra sull'ascia appiccata al tronco.
Henry Keach perse totalmente l'arto a seguito di quell'avvenimento.
Per Sara l'esistenza si assopì lì, dove gli urli erano sovrastati dall'assoluto silenzio, dove poteva non ascoltarli: lì, nel palazzo della sua mente, trovò una stanza. La più recondita e solitaria, dove seppellire tutti i brutti ricordi, tutto il dolore, tutta la rabbia. Lì dentro, non avrebbero fatto rumore, non l'avrebbero costretta a pensieri sbagliati, e l'avrebbero lasciata in pace.
Per Sara, il mondo era sprofondato nel suo sonno incantato.
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