Terza parte. Il sogno - Capitolo 30
Il tempo, prima o poi, passa. Anche se sembra scorrere lento, così lento da farti ascoltare il rintocco di ogni singolo secondo. E in ogni singolo secondo percepisci i mutamenti dentro e fuori di te.
Caro diario,
l'inconscio è un sentiero imprevedibile e rischioso. Mi ha guidata verso la consapevolezza, attraverso un viaggio in un paese che credevo di conoscere.
Me stessa.
Di tanto in tanto, sono inciampata in qualche sassolino di incertezza, cadendo e ferendomi, ma sono riuscita a rialzarmi, con la sola forza della mia volontà. Barcollavo ma, reggendomi al bastone della mia tenacia, ho guardato avanti e ho scorto un traguardo.
Il mio risveglio.
Lasciandomi alle spalle la paura che mi teneva ancorata al passato come una pesante zavorra, mi sono avventurata su di un pendio ripido già battuto, la cui segnaletica era stata rimossa dalla mia mappa mentale. Ho perso il conto delle cadute, ma so con certezza quante volte, stringendo i denti, io mi sia rialzata.
Alla fine del viaggio, ho trovato ad attendermi una giovane fanciulla. Non l'ho riconosciuta subito, malconcia com'era. Coperta da tanti graffi ed ecchimosi, ma le ferite più profonde e dolorose erano già in via di guarigione. Le sono andata incontro e, guardando i suoi occhi luminosi e animati da una contagiosa voglia di vivere, non ho avuto dubbi su chi fosse.
La nuova me.
I tanti piccoli frammenti, dalla consistenza fragile ed eterea come i sogni, in cui si era frastagliata la mia anima, finalmente si erano consolidati tra loro, cancellando anche la più piccola cicatrice. Un lungo sonno l'aveva ibernata, narcotizzandola da ogni sofferenza, ma il risveglio le ha permesso di ritrovarsi.
S.
Serena non riusciva a stare seduta, un illogico e costante senso di fastidio fisico la tormentava, senza darle un attimo di tregua. Preferì alzarsi e cedere il posto ad un altro passeggero. Quella era una situazione nuova, ma non fu facile abituarsi. Era tornata a vivere, dopo un anno trascorso in una prigione fatta di paura e sofferenza, chiamata amnesia.
Ad ogni sosta esaminava la gente che saliva a bordo. Si guardava attorno con una certa precauzione, come se le persone potessero accorgersi della sua presenza e osservarla al solo scopo di indagare su di lei. Era nel mondo reale, completamente nuda sotto i loro sguardi curiosi. Solo dopo qualche minuto, fu consapevole del fatto che i passeggeri si ignoravano e che ignoravano soprattutto lei. Così, focalizzò l'attenzione su quella minuscola porzione di umanità che la circondava. Non l'aveva mai fatto prima, di solito si perdeva in pensieri o sogni ad occhi aperti su cui aveva poco controllo, tutto il resto non le interessava.
Tra la marea dei tanti, iniziò a distinguere ogni singolo individuo: una signora seduta dietro l'autista, con il carrello della spesa al suo fianco; un ragazzo intento a inviare messaggini con il suo cellulare; due ragazze che parlavano tra loro. Dopo aver fatto girovagare lo sguardo tra quella gente, si rese conto che della sua vecchia paura non c'era più alcuna traccia. Fece un lungo respiro di sollievo e, per il resto del tragitto, si godette la libertà appena ritrovata.
Di tanto in tanto, lanciava occhiate curiose al finestrone per vedere la città che non aveva mai guardato veramente. Era lì da un anno, ma la conosceva al pari di una turista. La mente aveva scelto di vivere altrove, in un mondo in cui il dolore non l'avrebbe uccisa. Quel pensiero rievocò Demi. Il suo ricordo aveva reso le ultime settimane strazianti ma, grazie a Diana, il vuoto che Serena aveva dentro e quell'esperienza di cordoglio incominciavano ad essere più tollerabili.
In seguito all'arresto improvviso del mezzo, che si era fermato per far salire a bordo un passeggero ritardatario, un ragazzino goffo e occhialuto, aggrappato alla sua console portatile piuttosto che al corrimano, le andò addosso mettendo in fuga i suoi pensieri. Improvvisamente, Serena provò un forte senso di familiarità nei confronti della scena appena vissuta, come un dejà vu. Cercò di cancellare quel ricordo dalla mente, tentando di leggere il libro che stringeva in mano.
«Sere?»
«Che ci fai qui?» rispose a quella voce, dopo essersi accorta con sorpresa che il passeggero ritardatario era Ester.
«Ho dimenticato di consegnare la tesina» rispose lei, avvolgendosi il collo con la sciarpa e lasciando che l'aroma del suo profumo si disperdesse nell'aria.
Il bus riprese la sua corsa, ma un'altra frenata fece scivolare il libro di Serena sotto un sedile. Si chinò per recuperarlo, ma sfiorò la mano di qualcuno che lo raccolse per lei.
Alzò lo sguardo e, in quell'istante, il tempo si fermò. Sentì dei piccoli cubetti di ghiaccio attraversarle le vene e rabbrividì. Un solo movimento e sarebbe svanito.
"È un sogno", pensò.
Lo sconcerto la percorse, lasciandola senza parole.
«È tuo?» le chiese il ragazzo di fronte a lei.
Serena annuì.
Sapeva che non era educato fissare qualcuno in quel modo, ma non riusciva a smettere. Gli occhi azzurri graffiati di grigio di quel ragazzo brillarono e un sorriso gli illuminò il viso. Identico a come lo ricordava, lo stesso che stava sfidando la sua lucidità. Stava tentando di contrastarlo in ogni modo, ma falliva miseramente. Non poteva essere reale, no certo che no. Sbatté le palpebre una, due, tre volte, ma il sogno era sempre là. La sensazione che stava provando, però, non era la stessa. Nei sogni si sentiva a suo agio, ci si smarriva volentieri, perché bastava aprire gli occhi per essere di nuovo a casa. Non c'era niente di minaccioso lì, solo la sicurezza di un rifugio accogliente dove nascondersi tutte le volte che voleva. Serena, però, non riusciva più a svegliarsi. Il sogno stava diventando un incubo.
La mente le si svuotò di tutti i pensieri, scivolati via come in un vortice d'acqua quando si strappa via il tappo dal lavandino.
"Perché continui a perseguitarmi?"
Serena iniziò a temere di essere stata colta da un'allucinazione.
"Sto diventando pazza?"
Si definisce così qualcuno che crede di vedere un ragazzo che è esistito solo nei suoi sogni. Dal giorno in cui aveva detto addio all'amnesia, non aveva più pensato a lui o, perlomeno, ci aveva provato. Ogni tanto, si intrufolava tra i suoi pensieri e, anche se con molta fatica, cercava di cancellarlo come una gomma tenta di eliminare ogni traccia di un'immagine che non si vuole più vedere. Credeva di aver rimosso anche tutte quelle emozioni che l'assalivano nei sogni, ma si sbagliava. Avevano preso il sopravvento e si sentì opprimere dall'ansia. Aveva un secondo per scegliere, l'autobus stava per ripartire.
Quel ragazzo non era reale e non doveva incoraggiare quell'allucinazione. Fece un respiro profondo, agguantò con tutte le forze l'autocontrollo e si voltò verso Ester, sbalordita. Lei aveva quell'espressione che a volte le si disegnava sul volto, lievemente enigmatica.
«Che ti prende?» le domandò Serena.
«Guarda quel ragazzo» sussurrò, avvicinando le labbra al suo orecchio. «È il sosia di Pattinson incredibile.»
«Ma chi?»
«Quello che ti ha raccolto il libro.»
Serena sbatté più volte le palpebre e lo scrutò, con un ombra di sorpresa sul viso. Lui continuava ad avere il suo volto. Quel vortice di emozioni tornò alla riscossa e lei fu incapace di opporgli resistenza. Il suo viso, così straordinariamente bello, aveva risvegliato tutto ciò che, per settimane, aveva tentato disperatamente di seppellire.
Non doveva lasciarsi annientare dal suo ricordo. Diana le ripeteva fino alla nausea che era lei a trattenerlo, a fissarlo come un chiodo nella testa. E solo quando avrebbe avuto il coraggio di dirgli addio, lui sarebbe volato via come un palloncino, finalmente libero da quel filo invisibile a cui l'aveva legato.
Serena ebbe paura.
Paura di perdere quell'equilibrio mentale che aveva raggiunto, con tanti sacrifici e tanto dolore. Paura di non riconoscere più il confine tra il sogno e la realtà. Quel confine che aveva finto di non vedere pur di vedere lui. Che aveva superato consapevolmente per vivere un amore irreale, da cui si era resa dipendente.
Probabilmente, stava solo sognando e si era trascinata dietro anche Ester. Non aveva altra scelta che eseguire un test di realtà, per stabilirlo con certezza. Trattenne il respiro per alcuni secondi.
Era in apnea.
Non stava sognando. Quel ragazzo esisteva davvero. Stava sguazzando in un mare di confusione, dal quale non riusciva a venire fuori. Incominciò a martoriarsi il braccio, aumentando l'intensità ad ogni pizzico, ma non fu sufficiente a svegliarla. Se ne tirò un altro, non poteva arrendersi di fronte alla pazzia, ma l'unica cosa che ottenne fu un braccio indolenzito. Stava provando dolore. Non poteva essere vero. Nei sogni non si soffre. Ci riprovò e, tanto per essere sicura, questa volta ci affondò le unghie.
"Ahi!"
Faceva male davvero, ma non smise per quello. Ester le rivolse un'occhiataccia, anche lei incominciava a sospettare che non fosse più sana di mente e Serena avrebbe accettato volentieri il suo consiglio di trovarsi un buon psicanalista, se non l'avesse già fatto. Il comportamento che aveva assunto negl'ultimi cinque minuti doveva averla seriamente preoccupata. Non riusciva a biasimarla per questo, Serena era più spaventata di lei.
«È lo stesso ragazzo del mio sogno» si decise a confessare alla fine.
«Stai scherzando?» ridacchiò Ester, coprendosi la bocca con la mano. «Guarda, non ti toglie gli occhi di dosso.»
Serena si voltò e una scarica elettrica le defluì nelle vene; l'azzurro profondo dei suoi occhi meravigliosi la risvegliarono dal buio.
«Ciao». Il suo viso splendente era amichevole, le stava sorridendo. Serena s'innamorò all'istante di quel sorriso, che incorniciava le sue labbra morbide e perfette. Desiderò baciarle. «Io sono Gabriel.»
«Se-Serena» balbettò lei, scioccata.
«Hai uno strano accento, non sei di Trieste. Vero?»
«Vero, sono di Bari.»
«Motivi di studio?» le domandò lui, lanciando un'occhiata al libro galeotto che aveva in mano.
«Sì, frequento Psicologia insieme alla mia amica Ester» affermò, indicandola con lo sguardo.
Ester scosse il capo in segno di saluto.
D'un tratto, Serena sentì gli occhi di tutti i passeggeri di sesso femminile, iniettati di pura invidia, puntati contro. Probabilmente, tutte si stavano domandando come mai quel ragazzo così attraente avesse scelto proprio lei per tessere una conversazione.
Se lo chiese anche lei.
Fino a quel momento, nessuno si era accorto di quella ragazza con lo sguardo perso nel cielo infinito a rincorrere i suoi sogni. Chi avrebbe mai voluto scambiare due chiacchiere con qualcuno che amava la solitudine, tanto da rendersi invisibile? Le cose, però, erano cambiate. Serena era cambiata e, da quella realtà, per la prima volta nella sua vita, non voleva evadere.
«Ti trovi bene qui?»
«Benissimo, mi piace Trieste» rispose eccitata, mentre il vociare alle sue spalle aumentava a dismisura.
«E i triestini?»
«Anche.»
«Io sono triestino» dichiarò lui, con un sorriso malizioso che gli veleggiava sulle labbra.
«Ah sì? Non l'avrei mai detto. Di solito i triestini parlano solo triestino.»
«Il mio dialetto lo maschero molto bene» dichiarò con un sorriso così letale, da richiedere un porto d'armi. «Parlo inglese undici mesi l'anno.»
«Sere, la nostra fermata.»
Serena sorrise a quello sconosciuto e si allontanò con Ester, per raggiungere l'uscita. In quel momento, sperò che quella fosse anche la sua fermata e che lui frequentasse la sua stessa università, ma fu costretta a reprimere sul nascere quel bocciolo di speranza, quando si accorse che Gabriel era rimasto al suo posto. Emise un sospiro amaro e si rassegnò all'idea di non vederlo più. Il destino continuava ad accanirsi ferocemente su di lei, voleva proibirle ad ogni costo di essere felice.
«Serena?»
Lei si voltò e vide Gabriel al suo fianco.
«Potrei avere il tuo numero?» le chiese, con in mano il cellulare.
Serena si ammutolì, intrappolata all'interno di una sorpresa che, improvvisamente, trasformò il chiacchiericcio dietro di lei in un ruggito. Non si aspettava quella richiesta che aveva scatenato l'ira funesta di molte donne sulla corriera. Con un forte scossone al braccio, Ester la fece rinvenire.
«Sì, certo». La sua mano era in preda ad un attacco precoce di Parkinson, mentre digitava il numero.
«Allora, a presto.»
Le due amiche scesero dall'autobus e, strette in un tenero abbraccio, si avviarono verso la Facoltà. Serena trascorse l'intera mattinata a pensare a lui e ai suoi sguardi.
Entrata in sala mensa con Ester, vide Emis sbracciarsi dal suo tavolo. Lo raggiunsero, poi si lasciò cadere sulla sedia. Possibile che quello che aveva vissuto alcune ore prima fosse reale? Temeva che si sarebbe risvegliata da un momento all'altro, trovandosi distesa sul suo letto. Non poteva essere altrimenti, solo in un bellissimo sogno avrebbe potuto attirare l'attenzione di un ragazzo e non di uno qualsiasi, ma di uno semplicemente meraviglioso.
Iniziarono a mangiare; Emis ed Ester ciarlavano dei loro soliti allenamenti, ma Serena non li ascoltava. Era completamente immersa nei pensieri, da non sentire neanche il caotico vociare degli altri studenti.
«Sere?». Ester la riportò sul pianeta Terra.
«Sì?»
«Il cellulare.»
«Accidenti! Dove sei finito!» esclamò, mentre rimestava frettolosamente nella borsa. Dopo aver rovesciato sul tavolo tutto il suo contenuto, lo trovò. «Pronto?» rispose, cercando di controllare un leggero affanno. Si era allontanata rapidamente dalla mensa alla ricerca di un posticino più appartato.
«Serena?»
La voce dall'altra parte aveva qualcosa di familiare, ma lei non riuscì subito a riconoscerla.
«Sì, sono io. Chi parla?» chiese, mentre giocherellava nervosamente con la frangia della pashmina.
«Sono Gabriel». Fece una pausa, lunga quel tanto che bastò a Serena per chiedersi se le era mai capitato di sognare una conversazione telefonica. «Ti ricordi di me?»
«Certo!» esclamò lei, febbricitante. «Il triestino che parla inglese.»
«Sei libera oggi pomeriggio? Mi piacerebbe rivederti.»
Stava sognando. Dopo quella proposta ne ebbe la certezza. «Questo pomeriggio?» domandò, con il cuore che sembrava volesse schizzarle fuori dalla gola.
«Sì.»
«Mi dispiace, non posso.»
«Non ti va di uscire con me?»
«No, non è per quello», dichiarò affranta. «Vedi, oggi è il compleanno del mio migliore amico e non posso assolutamente mancare.»
«Peccato» ribatté lui, deluso. «Posso richiamarti domani?»
«Ci conto». Serena lo salutò, restando immobile a fissare il cellulare.
Era in trance.
Il ragazzo meraviglioso l'aveva chiamata e voleva rivederla. Era talmente eccitata da sentirsi la febbre addosso. Il cuore iniziò a batterle forte, le orecchie le ronzavano e aveva le mani sudate. Cercò di darsi una calmata e raggiunse la mensa praticamente di corsa, per non lasciarsi sovrastare dal formicolio mentale che si era impadronito di lei, dopo la telefonata.
«Emis?»
«In bagno» le rispose Ester, con uno sguardo carico di sottintesi. «Era lui al telefono?»
«Sì» le rispose, dopo essersi seduta. Il suono armonioso della voce di Gabriel aveva trasformato le sue gambe in una morbida e inconsistente gelatina.
«Allora?»
«Vuole rivedermi.»
«Quando?»
«Oggi.»
«Hai un appuntamento!» esultò Ester, dondolandosi sulla sedia con un movimento tanto maldestro da rischiare di cadere. «Non ci posso credere! Un sogno che diventa realtà!»
«Ho rifiutato» mormorò Serena, con occhi bassi. Aveva timore d'incrociare il suo sguardo, come in fuga da una ramanzina che sapeva sarebbe arrivata, come un'interrogazione quando non hai studiato.
«Che cosa hai fatto?» tuonò l'amica, incenerendola con un'occhiata rovente.
Serena la guardò di sottecchi. «Gli ho detto di no.»
«Hai detto di no a Pattinson?». Ester sembrava sull'orlo di uno svenimento. «Perché?»
«La festa di compleanno». Serena emise un sospiro. «E poi, non è Pattinson.»
Serena guardò l'orologio, i corsi stavano per riprendere. Le due ragazze aspettarono Emis, poi si recarono in aula.
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