Prima parte - La fuga - Cap. 1

Si accodano al semaforo, uno dietro l'altro; si provocano rumorosamente a colpi di clacson e, quando scatta il verde, pestano così forte l'acceleratore da tatuare l'asfalto. Un'impazienza comune a tutti gli automobilisti che, a quest'ora del mattino, sono già nervosi e stressati. Stringo la pashmina al collo e un caldo tepore mette in fuga i brividi che mi porto addosso, questa cinerea mattina d'Ottobre. Non mi abituerò mai al freddo siberiano di questa città.

Lancio un'occhiata all'edificio di fronte, le finestre del quarto piano sono chiuse. Dorme ancora. Sarà rientrata molto tardi ieri sera. Un allenamento dietro l'altro; una lezione dopo l'altra; ritiri; studio; feste; amici. Mi viene il mal di testa solo a pensarci. Basta organizzarsi, dice lei. Magari fosse così organizzata anche con l'ordine. La sua camera è un dedalo di borsoni, scarpe, tute, vestiti, riviste di moda lasciate ammucchiate sul pavimento, sulla scrivania, sul letto o dove capita. In dodici mesi di convivenza, è sempre stata così: un totale disastro. Non la riordina neanche quando invita le ragazze della Safety per un pigiama party. Ester e l'ordine sono incompatibili, come la panna montata sulla granita di limone. Il giudizio altrui non le interessa, se a qualcuno non sta bene il suo modo di essere, non è lei a dover cambiare.

Io sprofonderei nelle sabbie mobili dell'imbarazzo e farei un enorme fagotto di tutte le cianfrusaglie sparse in giro, nascondendolo nell'armadio. Uno sguardo inquisitore mi uccide. Devo nascondermi, dietro l'apparenza, l'ipocrisia o la falsità. Non ha importanza, non voglio che mi trovi per questo mi rifugio qui. E' come se il mondo ruotasse intorno a me senza mai afferrarmi, così è più facile rendermi invulnerabile a qualsiasi attacco minaccioso.

Oggi sono in anticipo e non costringerò il conducente ad una sosta extra. Compassione? No, penso si tratti di solidarietà tra conterranei, anche lui proviene dal Sud e lì, quelli puntuali, non sono mai i mezzi pubblici. Ma nessuno si lamenta, l'attesa fa parte della routine quotidiana, un modo come un altro per passare il tempo, parlando del più e del meno con chi ti è accanto. Altro che stress.

Il 29 passa di qui alle otto in punto, mancano pochi minuti ormai. Mi guardo intorno. Sono circondata da anziani che fissano l'orologio con una certa irrequietezza; studenti che stanno già abbozzando un reclamo alla Trieste trasporti; una mamma con passeggino al seguito, che sta meditando seriamente di acquistare un'auto, magari usata. L'essere imbottigliata nel traffico è sempre meglio che starsene qui, in attesa di diventare un igloo. Stacanovisti che non contemplano il ritardo. Risiede altrove, probabilmente in piena via lattea, costellazione di Cassiopea, a sud di Andromeda, a nord di Cefeo. Sarà colpa della bora. A nessuno piace essere schiaffeggiato, soprattutto di prima mattina.

Ecco l'autobus. Un minuto di ritardo. Occhiate di fuoco inceneriscono l'autista. Poverino, non vorrei trovarmi al suo posto, la solidarietà la pensa come me e mi segue alla svelta in fondo al mezzo, lontano da sguardi indiscreti. Vorrei sparire nel nulla, fisso il finestrino e tutto il resto scompare, per cedere il posto a ciò che voglio realmente vedere.

Ci sono posti liberi ma resto in piedi, tanto lo cederei al primo bisognoso che avrei di fronte. Non mi sentirei a posto con la coscienza se dovessi restare comodamente seduta mentre un anziano, una signora incinta o un diversamente abile venissero continuamente sballottati da frenate a singhiozzo.

Un ragazzino goffo e occhialuto aggrappato alla sua console mi viene addosso, spostando la mia attenzione sui passeggeri a bordo. Due ragazze ridacchiano tra loro, poi guardano in direzione delle porte.

Seguo la linea del loro sguardo e mi accorgo di una figura imperturbabile, con il fascino di un dio e l'eleganza di un principe. Contempla il paesaggio che, fuggevole, gli scorre davanti come la pellicola di un film. Il profilo del suo viso mi attrae come un magnete, per non apparire sfacciata tiro fuori dalla borsa un libro e fingo di leggerlo. Giro una pagina, un'altra ancora, poi non resisto e alzo furtivamente lo sguardo. Proprio in quell'istante, i suoi occhi incontrano i miei. Mi volto di scatto, mentre un calore improvviso assale le mie guance. Che idiota, non mi resta che fare le fusa e aspettare una grattatina tra le orecchie. Passano pochi minuti poi, senza rendermene conto, i miei occhi sono nuovamente su di lui. Il suo sguardo è rimasto immobile dove l'ho lasciato, su di me. Una breve schermaglia di occhiate, un timido sorriso e mi perdo nella profondità dei suoi occhi azzurri.

Il fragore delle gomme che stridono sull'asfalto disperde i miei pensieri, come coriandoli a Carnevale. Il libro è a terra e mi chino per recuperarlo, ma sfioro la mano di qualcuno che lo raccoglie per me. Alzo lo sguardo e lui è qui.

«E' tuo?», domanda con una voce morbida come cashmere.

Accenno un sì con la testa e allungo la mano. Lo sconosciuto mi restituisce il libro, sfiorandomi le dita. Quel contatto mi provoca una piccola ma intensa scossa, come quella della macchina quando richiudi lo sportello.

Causa-effetto.

Un flash mi abbaglia, l'immagine sbiadita di un ricordo si trascina a fatica nella mia mente. Questa volta è l'effetto ad aver avuto un'azione sulla causa, un'azione di ritorno che sento di aver già vissuto.

«Io sono Gabriel» dice, porgendomi la mano.

Contraccambio la stretta, in preda ad un attacco precoce di Parkinson; sto per dire il mio nome, ma lui mi precede.

«Serena.»

«Come fai a saperlo?»

«Io e te ci conosciamo». Il suo sorriso malizioso la dice lunga sul tipo di relazione a cui sta alludendo.

«Mi hai scambiata per un'altra.»

«No, sei proprio tu.»

Avvinghio le mie dita al corrimano con una presa salda, il cuore continua a scalciare come un puledro. «Credimi, ti stai sbagliando. Io non ti conosco.»

Gabriel inarca un angolo della bocca e gli sfugge un sorriso amaro, sembra ferito e questo mi mortifica.

Istigo la memoria a fare il suo dovere ma, quando l'immagine di un volto mi sfreccia davanti, una fitta di dolore mi pervade e avverto l'impulso di ricacciarla indietro.

Lui si sporge verso di me e i nostri nasi si sfiorano, poi mi solleva il mento per costringermi a guardarlo. «Non accadrà all'improvviso.»

«Cosa...» indugio, non sono sicura di volerlo sapere, ma lui mi accarezza una guancia come a invitarmi a proseguire. «Cosa non accadrà?»

«Non è un problema se non ti ricordi chi sono, ci vorrà del tempo» ammette con un tono quasi indifferente, mentre i suoi occhi, due fulmini che squarciano un cielo sereno, mi stanno implorando di ricordare. «Non devi avere paura di me, non potrei mai farti del male.»

Lo guardo perplessa e riesco a fatica a trattenermi dalla voglia di chiedergli che problema abbia, ma lo ignoro, così mi lascerà in pace.

«Vorrei che tornassi ad essere quella di un tempo.»

Questa volta l'espressione che ho sulla faccia riesco a vederla anche senza uno specchio: sono sbalordita. Mi limito a sbuffare e, con nonchalance, porto in avanti i capelli a nascondermi il viso.

«Non smettevi mai di sorridere» mormora, prima di lasciarsi andare a un lungo sospiro. «Non sei più la stessa.»

E' qui solo da pochi minuti e spara sentenze su di me? Mi volto di scatto per ribattere a dovere, ma quando incontro i suoi occhi resto di stucco. E' palese il suo sforzo di impedire alle lacrime di abbattersi sul suo viso, come schizzi di tempere su una tela bianca. Non ho più il coraggio di dire niente, sarà colpa di questo fastidiosissimo nodo alla bocca dello stomaco.

Mi prende una mano, l'accarezza con affetto e glielo lascio fare. Adesso sono io ad avere voglia di piangere, la sua dolcezza sta sciogliendo la brina che mi avvolge. Una goccia che cade, il cuore che riprende a pulsare.

«Devi ascoltarlo.»

«Di cosa parli?»

«Del tuo cuore» bisbiglia, puntando il dito contro il mio petto.

Rabbrividisco a quelle parole e lui mi fa scivolare un braccio intorno alla spalla; mi tiene stretta, come se con quel gesto affettuoso volesse dare una sferzata ai ricordi. Sento il suo cuore fremere, vorrei guardarlo ma, se lo facessi, le lacrime si tufferebbero in tripli salti mortali con avvitamento. Faccio un respiro profondo e mi abbandono al suo tenero abbraccio, così familiare da infondermi una serenità che mi manca, così penetrante da far emergere un'improvvisa nostalgia.

NOTE DELL'AUTRICE:

Per la riproduzione di immagini e video in quest'opera mi appello al "PRINCIPIO DELLA LECITA CITAZIONE" come previsto dal comma 1-bis, art. 70 della legge 633 del 1941.

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