Capitolo undici

Entrata in cucina salutò Ester, in piedi davanti alla finestra. Tirò fuori dalla credenza la busta del pancarré, ne infilò due fette nel tostapane e si diresse verso il frigo. Afferrò il cartone del latte e il vasetto della marmellata, richiuse lo sportello e, solo allora, Serena si accorse dello sguardo dell'amica perso nella foschia mattutina.

Ester stringeva tra le mani un tazzina di caffè ancora intatto, sul viso un'espressione difficile da leggere.

«Bella Addormentata, sai che fine ha fatto la mia amica?»

Ester sobbalzò. «Ehi, Sere. Già in piedi?»

Serena appoggiò le spalle al muro e incrociò le braccia sul petto. «E' tutto okay?»

«Sì, perché me lo chiedi?» brontolò lei, infastidita.

«Non lo so, sembri abbioccata.»

«Ho dormito male», tagliò corto Ester. «C'è del caffè ancora caldo nella moka». Bevve tutto d'un fiato il suo, fece scivolare la tazzina nel lavandino e si diresse verso il bagno.

«Ester?»

Lei si fermò all'istante, ma impiegò diversi secondi a girarsi. «Sì?»

«C'è qualcosa che devi dirmi?»

Ester trafisse l'amica con un sguardo che non le aveva mai visto. «No.»

«Credevo fossimo amiche.»

«E' così.»

«Allora perché stai mentendo?»

«Sere mi dispiace, ma non posso dirti niente» dichiarò, prima di abbandonare la stanza.

Serena versò il resto del suo caffelatte nel lavandino e lavò la tazza con una tale forza da scorticare persino il suo nome inciso sopra. Sparecchiò frettolosamente il tavolo dalla colazione e si gettò a capofitto nelle faccende di casa, per tenere occupata la testa. Spazzò il pavimento della cucina e aprì la finestra, c'era aria viziata. Come al solito, il cesto dei panni sporchi era stracolmo ed Ester non sarebbe rientrata prima di sera, per cui ci dovette pensare lei. Riempì la lavatrice ma, prima di farla partire, tornò in camera sua e diede un'occhiata in giro. Aveva tempo, prima di recarsi al lavoro.

***

Incatenò la bici ad un palo, prima di raggiungere il civico 46 e suonare il citofono. Salì in tutta fretta sei rampe di scale, ovviamente a piedi; l'ascensore in quella città doveva essere un bene di lusso.

«Come sta il mio cucciolone preferito?» domandò, afferrando il guinzaglio che le stava porgendo una signora anziana.

«Oggi è un po' giù, non so perché» affermò lei, preoccupata.

«Tranquilla, Signora. Una lunga passeggiatina lo rimetterà in sesto, vero Guss?». Serena guardò con un'occhiata d'intesa il pastore tedesco che garantiva i suoi guadagni. «Saremo di ritorno fra un paio d'ore.»

Dopo qualche isolato, Serena e Guss raggiunsero il giardino del rione di S. Giacomo - Ponziana, il loro posto preferito. Superarono l'area giochi, presa d'assalto dai bambini nonostante il freddo; Serena affondò le scarpe nella ghiaia cosparsa di foglie ingiallite, che portava ad una zona della pineta ombrosa e piuttosto tranquilla, con le panchine attorno ad un'aiuola triangolare; era lì che le piaceva fermarsi per una breve sosta, all'ombra di un grande platano, ad ascoltare il cinguettio dei passeri, seduta su di una panchina un tempo di un verde brillante, sbiadito dalle intemperie e macchiato dall'inchiostro persistente di alcune incisioni: Ema t.v.b.; Fili sei la mia vita; Gabri ti amo.

Si era appena sollevato un fastidioso vento che ululava come un lupo alla luna, i capelli di Serena si agitavano continuamente. Si avvolse la pashmina intorno al collo e, d'un tratto, un flash le annebbiò la mente; il contatto della sua mano con quella morbida stoffa aveva solleticato l'affiorare di un ricordo: delle grandi mani tra i suoi capelli; delle labbra desiderose sulla sua bocca; un'onda di calore lungo le sue vene. Immersa nella solitudine, Serena lasciò che quei pensieri invadessero la sua mente come uno sciame di cavallette e che il vento portasse via con sé le sue lacrime.

Guss si aggirava silenzioso tra gli alberi, lasciando qua e là i segni del suo passaggio; con un fischio Serena lo richiamò a sé, si era fatto tardi e dovevano rientrare.

Ferma al semaforo, Serena stava attendendo che scattasse l'avanti, quando fu travolta dal suono assordante di una sirena. Le si ghiacciò il sangue e rimase immobile sul marciapiede fino a quando l'abbaiare di Guss la ridestò.

***

Anche quel giovedì Serena si ritrovò di fronte alla solita porta. Suonò il campanello, firmò l'informativa e prese posto sulla dormeuse.

«Come va oggi, Serena?»

«Non bene, prima di venire qui mi è successo qualcosa che non so spiegarmi.»

«Di cosa si tratta?»

Serena era confusa, non sapeva che cosa fosse accaduto, se quello che aveva udito l'avesse vissuto veramente o era solo il frutto della sua immaginazione. «Ho sentito il suono di una sirena, pensavo si trattasse di un'ambulanza, mi sono guardata in torno, ma il traffico scorreva regolare, le persone passeggiavano tranquillamente. E' come se quel suono l'avessi sentito soltanto io.»

«Si è trattato di un'allucinazione. Hai creduto di sentire la sirena, ma, in realtà, si è trattato di una falsa percezione. Fai uso di farmaci, ultimamente?»

«No.»

«Droghe?»

«No, Diana. Io non mi drogo.»

«Devo chiedertelo, perché devo capire l'origine di questa allucinazione. Che tu sappia, hai mai sofferto di malattie psichiatriche o neurologiche?»

«No, no. Di questo sono sicura.»

«Hai avuto un incidente, in cui hai battuto la testa?»

«No.»

«La tua condizione medica generale è buona, quindi possiamo escludere che questa allucinazione sia patologica. Il tuo sonno, però, è disturbato dagli incubi, quindi questo fenomeno con molta probabilità è stato scatenato dalla deprivazione da sonno.»

«Quindi, basterà dormirci su?»

«Credo sia sufficiente. Ora, però, rilassati e lasciati andare.»

Serena chiuse gli occhi e il viaggio ebbe inizio. Sentiva lo sciabordio delle onde sulla costa rocciosa. Si sentiva come la schiuma grezza sballottata qua e là, prima di schiantarsi contro le rocce.

«Cosa t'inquieta?»

«Gli scogli.»

«Fai un bel respiro e mantieni il controllo. Adesso, concentrati sul rumore delle onde e sull'odore del mare.»

Una volta superata la barriera ostile dell'ansia, Serena iniziò a fluttuare libera tra immagini di cose, luoghi e volti.

No.

Il volto.

Sempre lo stesso.

Privo di lineamenti.

Lo mise a fuoco e si sforzò di individuare qualche particolare che potesse aiutarla a ricordare a chi appartenesse, ma più lo guardava e più quel volto sfumava, dissolvendosi nel nulla. In quell'istante, urtò contro qualcosa.

Un muro.

Provò ad aggirarlo, ma quel muro non aveva confini.

«Non vedo più niente.»

«La vista non è l'unico senso che hai a disposizione per evocare i ricordi.»

Serena iniziò a sentire caldo. Minuscole goccioline di sudore le scivolavano leggere sulla pelle. Sentì un odore nell'aria, ma non era quello salmastro del mare. Era piuttosto ferroso, aspro e pungente.

«Ruggine, sì, sa di ruggine.»

«Molto bene, Serena. Continua a cercare, usa un altro senso.»

«Sono circondata da un brusio, è debole.»

«Non lasciarti dominare dall'ansia. Fai un altro bel respiro, Serena. Stai andando bene, non ti fermare.»

«Sono voci, voci maschili. Mi parlano, ma non riesco a capire cosa dicono». Serena sospirò, amareggiata. «Torneranno? I ricordi, intendo.»

«Certo che torneranno, nella tua testa non c'è niente di rotto.»

«Allora, qual è il problema?»

«Il motivo per cui non riesci a ricordarti di Gabriel è perché, a livello inconscio, hai soppresso tutti i ricordi legati a lui, perché creano in te un forte senso di disagio. Hai innescato quella che in gergo si definisce un'amnesia psicogena.»

«Amnesia psicogena?»

«Ti è successo qualcosa, Serena, qualcosa di doloroso e spaventoso, per questo lo hai rimosso.»

Serena uscì dallo studio talmente di fretta da incespicare nei gradini, restò in piedi per un soffio. Non vedeva l'ora di allontanarsi da quella stanza che, all'improvviso, le sembrò stringersi attorno. Si sentiva completamente svuotata. Serena sapeva che una sola seduta non sarebbe stata sufficiente a risanare il suo cuore sanguinante, ma sperava che la prospettiva della guarigione potesse, almeno in parte, arrestare l'emorragia. Tremava come una foglia e non riusciva a distinguere il marciapiede, le lacrime le annebbiavano la vista. Stava per crollare, non si era mai sentita così a pezzi. Le parole di Diana la ossessionarono per tutto il tragitto, tuonandole nella testa ad ogni passo. E, ad ogni passo, Serena perdeva un pezzo di sé, che lasciava indietro insieme agli altri cocci.

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