Capitolo quindici
Emis continuava a tacere, ogni parola poteva essere quella sbagliata, meglio lasciar parlare il silenzio, l'unica lingua che non poteva far male a nessuno.
L'imbarazzo era tale che Serena buttò gli occhi sul piatto che aveva davanti; i ravioli erano deliziosi, nascondevano una farcia particolarmente cremosa, ma il silenzio che li avvolgeva era indigesto e stava diventando troppo ingombrante.
«La Fiore si è ripresa dall'infortunio?»
«Sì, rientrerà per la partita di sabato» dichiarò Emis, non staccando lo sguardo dalla forchetta con cui stava giocherellando.
«Ester è stata grande durante la trasferta della settimana scorsa» disse lei, con un certo entusiasmo.
«Ester è la squadra. Senza i suoi incoraggiamenti e la sua determinazione, le ragazze sarebbero perdute» ribatté lui, con un certo sforzo.
«Ester è mitica! Il miglior capitano che una squadra possa desiderare». Il tono della voce di Serena rasentava l'euforia. Era patetica.
«Il merito è di questo sport». Emis la guardò. E Serena aveva recuperato un altro contatto. «La pallavolo è uno sport di squadra, una palestra di vita. Ci sono momenti in cui vorresti mollare tutto perché sei stanca e ogni tuo sforzo ti sembra inutile e non sarà mai ricompensato, ma non è così. E' proprio in quei momenti che è fondamentale parlare con qualcuno. Questo è il compito di una squadra. C'è sempre per te, crede in quello che tu puoi fare. E' qualcosa che ti rimane dentro, ti aiuta a crescere e non va più via.»
Le parole di Emis, così decise e profonde, la fecero sussultare, come se avesse ricevuto di colpo una pallonata nello stomaco.
«Stai ancora parlando di pallavolo, vero?»
«No, sto parlando di te. Di noi. Vorrei che io e te fossimo una squadra, Sere. Vorrei che contassi su di me, vorrei aiutarti a venire fuori da quella malinconia che ti porti sempre dietro». Emis staccò la schiena dalla sedia e si protese in avanti, per raggiungere le sue mani che strinse. «Vorrei che ti confidassi con me.»
«Non ho mai avuto segreti con te, Emis.»
«C'è qualcosa che ti turba e di cui non riesci a parlare con me.»
«A cosa ti riferisci?»
«Demi. E' lui che ti fa stare così male?»
Udire quel nome le fece raggelare il sangue nelle vene e la gola iniziò a stringersi in una morsa sempre più stretta. Serena impugnò il bicchiere d'acqua e lo rimise giù solo dopo averlo svuotato completamente. Si alzò e si diresse verso il guardaroba.
«Dove stai andando?»
«A casa, sono stanca.»
«Aspetta, pago il conto.»
«Non devi accompagnarmi» ribadì lei, afferrando il giubbotto.
Emis le si avvicinò e l'agguantò per un braccio. «Come pensi di tornare a casa?»
«A piedi.»
«Sere, siamo dall'altra parte della città.»
«Sarà meglio che m'incammini, allora.»
«Okay» sbuffò lui, alzando le braccia al cielo. «Se ti prometto di farmi gli affari miei, rimani?»
Tornarono entrambi a sedersi e la serata proseguì immersa in un'atmosfera dai toni più rilassati. La cena era accompagnata da un tenue sottofondo musicale, che rendeva il clima gradevole.
Ogni tanto, Serena tratteneva il respiro, approfittando dello sguardo distratto di Emis. Un altro test di realtà. Non era in un sogno, questo Serena lo sapeva bene, ma la dichiarazione del suo amico l'aveva lasciata un po' intontita, esattamente come si sentiva al risveglio. Doveva, però, ripetere quei test più volte al giorno per ricordarsi di farlo anche durante il sogno.
Nell'afferrare il tovagliolo, Serena fece cadere sul pavimento il coltello e il cameriere si chinò per raccoglierla. Lo sguardo di Serena si perse in un vuoto buio e silenzioso, udiva soltanto il suo respiro e le sembrava di essere murata viva dentro una tomba. Stava annaspando in cerca di ossigeno, ma assaggiava soltanto il nulla. Una macchia scura si materializzò davanti ai suoi occhi e aguzzò la vista. Quell'immagine non era molto nitida, le sembrava di vederla riflessa in uno specchio appannato. Fece uno sforzo per riuscire a captare qualcosa, un particolare e fu allora che lo vide: un ragazzo con un ghigno malefico stampato sulla bocca e un pugnale stretto in una mano. Un nodo alla gola le impediva di parlare, aveva la lingua asciutta e un sapore metallico in bocca le dava la sensazione di stringere una moneta tra i denti. Il respiro era sempre più affannoso e iniziò a sudare. Non riusciva a vedere nulla, la vista le si era annebbiata. Chiuse gli occhi e provò a contrastare la nausea, che avanzava imperterrita. Subito dopo, fu percorsa da un brivido e iniziò a tremare come una foglia.
«Sere?»
Una voce superò il muro delle pulsazioni che riecheggiavano nella sua testa, ridestandola dall'incubo. Provò a deglutire, per allontanare dalla bocca quel retrogusto di terrore che stava assaporando e, con esso, scomparve anche quel ricordo terrificante.
«Sere, che succede?». La voce sottile di Emis risuonò incerta, come quella di un bambino che ha appena rotto il vaso preferito della mamma. «Stai bene?»
Il respiro iniziò a rallentare e le orecchie le ronfavano ancora, ma la vista non era più annebbiata. Ai margini ancora un po' sfocati del suo campo visivo, Serena vide Emis muoversi verso di lei, metterle una mano sulla spalla e con l'altra girarle il viso verso di sé. Lo guardò, preoccupata dall'espressione tesa che vide sul suo volto e si sentì schiacciata da un senso di smarrimento. «Dove siamo?»
«In un ristorante.»
«Scusami, ti ho spaventato.»
«Sono io che devo chiederti scusa, ho dimenticato di avvisare il cameriere di non includere i coltelli tra le posate» si giustificò, stringendole la mano. «Vuoi che ti riaccompagni a casa?»
«Sì, Emis. Grazie.»
Al suo rientro, Serena trovò Ester ad aspettarla. La tv era ancora accesa e lei, seduta sul divano in pigiama e pantofole, la stava osservando interrogativa.
«Che fai ancora in piedi a quest'ora?» le chiese Serena, dopo essersi seduta al suo fianco.
«Non riuscivo a dormire». Ester esibì un sorriso, torturandosi la lunga treccia che le ricadeva su una spalla.
Serena fece un sospiro e provò a porre fine a quel gioco di sguardi enigmatici. «Vuoi chiedermi qualcosa?»
«No.»
«Andiamo Ester, è da un po' che sei strana, incominci a preoccuparmi». Le prese una mano e la guardò con dolcezza. «Si tratta di Dario? Avete litigato un'altra volta?»
«No». Ester fece un sospiro, rassegnata a vuotare il sacco. «Ieri, dopo gli allenamenti, Emis mi ha confessato di avere una cotta per te e che era giunto il momento di dirtelo, ma aveva paura di come l'avresti presa. Mi ha chiesto un consiglio.»
«Stai tranquilla, io ed Emis non stiamo insieme.»
«Davvero?»
«Credevi avessi una cotta per lui?»
«Sì. E' da un po' che sei diversa, pensavo fossi innamorata.»
«Ester sii sincera, ti piace Emis?»
«No» sospirò ancora. «Sono pazza di lui.»
«Gliel'hai detto?»
«E' complicato», ammise. «C'è di mezzo la squadra. Non me la sento di rischiare.»
«Tra Emis e Dario c'è un abisso, Ester».
«Emis non vuole me. E' inutile che ci provi.»
Serena non riuscì a prendere subito sonno quella notte. Si recò in cucina con la speranza che una camomilla potesse conciliare il riposo di cui aveva tanto bisogno.
Tornata in camera, riprese tra le mani il diario, le bastava leggere qualche pagina, prima di andare a dormire. Non lo faceva soltanto per rivivere le esperienze oniriche, ma soprattutto per allenarsi a trarre in inganno il subconscio, comunicandogli il suo desiderio di diventare lucido durante il sogno.
«Adesso chiudo gli occhi e, senza muovermi, andrò lontano. Lì, li riaprirò e sarò con te.»
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