Capitolo otto

Il cielo era di un azzurro senza nuvole e il sole brillava allegramente, in un tipico pomeriggio autunnale qui a Trieste. Serena stava attraversando in fretta via Capodistria, spazzata da un vento gelido, si coprì la testa con il cappuccio del giubbotto per impedire ai capelli, schiaffeggiati dal vento, di svolazzarle in faccia. La bora, a volte, sapeva essere feroce, portava con sé l'odore dell'asfalto fresco appena spalmato sulla strada, mescolato a quello acre e irrespirabile che proveniva dalla ferriera di Servola.

Dopo pochi metri si fermò davanti a un portone, calò giù il cappuccio e scrollò i capelli con la mano. Passò velocemente in rassegna con lo sguardo i cognomi sul citofono, si fermò su Mendler e suonò. Entrò, abbandonando alle sue spalle il familiare frastuono della città per entrare nella fredda quiete dell'ignoto.

La suola di gomma delle sue sneakers strideva sul marmo liscio delle scale, sovrastando i rumorosi battiti del cuore. Era agitatissima e l'ansia arrivò al suo apice quando Serena raggiunse lo studio. La targa dorata, con inciso il nome della dottoressa in un carattere elegante, le si stagliò davanti. Sollevò la mano per bussare, ma all'ultimo le mancò il coraggio, non aveva idea di come sarebbe uscita da quella seduta. Era confusa. Disorientata. Ad un certo punto, pensò addirittura di andarsene. Doveva mettersi a nudo. Il solo pensiero le stimolò un conato, che ricacciò indietro appena in tempo. Respirò a fondo e bussò.

«Avanti», rispose una voce femminile.

Dopo aver emesso un sospiro rassegnato, entrò e prese posto davanti alla scrivania. Diede una rapida occhiata in giro e si lasciò sopraffare da quell'atmosfera fredda che avvolgeva lo studio. La dottoressa stava controllando la sua agenda degli appuntamenti.

Serena stava fissando la cinquantenne che le sedeva di fronte, quando le apparve davanti agli occhi il volto di Ester. Entrambe avevano i capelli biondi, ma mentre l'amica strizzava la sua fluente chioma in maniera casuale o con una treccia, la dottoressa li raccoglieva elegantemente in uno chignon; la pelle diafana e gli occhi chiari, di un verde singolare piuttosto raro, con un sottotono di blu, conferivano un aspetto regale e austero alla madre, ma un viso umile e sempre sorridente alla figlia.

L'analista annotò qualcosa, poi lasciò cadere la penna nel mezzo dell'agenda a mo' di segnalibro e la richiuse; a quel punto, il suo sguardo si spostò sulla paziente. «Serena, giusto?» le sorrise, porgendole la mano. «Io sono Diana.»

Serena contraccambiò il saluto, poi, imboscò le mani nelle tasche della felpa, mentre i raggi di sole che filtravano dalla finestra stavano tentando di sciogliere il cubetto di ghiaccio che sedeva al suo posto. «Sono la coinquilina di sua figlia» disse tutto d'un fiato, come se lo avesse trattenuto da ore. «Lei non sa che sono qui.»

«Puoi stare tranquilla, le nostre chiacchierate non usciranno da questo studio» la rassicurò Diana, facendo scivolare verso di lei un paio di moduli. «Firma questo consenso informato ed io sarò vincolata dal segreto professionale.»

Serena le rivolse un sorriso di gratitudine, mentre l'analista rimase in silenzio per qualche minuto, come se la stesse studiando con attenzione. In quel momento, si sentì vulnerabile come non mai.

«Notte insonne?» le chiese Diana, poggiando i gomiti sulla scrivania.

Serena sussultò, mentre si vide balenare sotto gli occhi gli ultimi mesi e sentì il dolore trafiggerle il cuore. «Come l'ha capito?»

«Dammi del tu, Serena. Hai l'aria molto stanca». Diana le lanciò un'occhiata, attraverso le lenti degli occhiali cremisi, stessa tonalità del rossetto che aveva sulle labbra. Tra i suoi cosmetici non c'era posto per un colore così acceso, si disse Serena, passando la punta della lingua sul gloss trasparente gusto fragola. «Quand'è stata l'ultima volta che hai dormito davvero?»

«Non lo ricordo» ammise, mentre il suo sguardo scivolò giù sul pavimento, così era più facile parlare. «Dovrebbe risalire a un anno fa, credo.»

«Hai un bell'arretrato. Incubi?»

Serena annuì, mentre si domandava se avesse fatto la scelta giusta. Non le aveva ancora raccontato niente di sé, ma Diana sembrava in grado di leggerle dentro e sentire quello che sentiva lei, mettendosi nei suoi panni. Empatia. Una parola che Serena aveva sentito risuonare spesso durante i suoi corsi.

Dopo le prime battute velate dall'imbarazzo, Diana fece distendere Serena su una dormeuse, per aiutarla a rilassarsi e facilitare la regressione. Lei prese posto alle sue spalle, fuori dal campo visivo della paziente. «Rilassati» le suggerì, con un tono pacato. «Prova a leggere i tuoi pensieri, come se li tirassi fuori dal tuo diario, quello che custodiresti gelosamente e che non faresti leggere a nessuno.»

Serena chiuse gli occhi, la luce che filtrava dalla finestra svanì e si lasciò andare. Per qualche secondo la sua mente tacque e fu piacevole la sensazione che ne derivò: calma e tranquillità. Nel suo animo albergava un senso di pace che non provava da tanto tempo, desiderò che durasse per sempre. Aveva parecchi pensieri inquieti in giro per la testa e un po' di serenità era tutto ciò che chiedeva. «Ultimamente, sogno spesso un ragazzo di nome Gabriel.»

«Lo conosci?»

«Lui dice di sì». Serena si rifugiò nel silenzio per alcuni istanti, aveva bisogno di raccogliere le idee. «Poi mi prende per mano e quel contatto familiare cancella ogni dubbio.»

«Non ricordi il suo viso, ma ricordi ciò che provi quando sei con lui?»

«Non proprio, non so come spiegarlo.»

«La sua presenza ti turba?»

«Sì.»

«Ne hai paura?»

«Ho paura sì, ma non di lui.»

«Avverti una sensazione di pericolo?»

«Sì, ho la sensazione che sta per accadere qualcosa di brutto e, subito dopo, mi sveglio.»

«Ciò che ti sveglia è la paura di sapere cos'ha da dirti. Vedi, Serena, il sogno ha una duplice funzione: da una parte è il messaggero dell'inconscio; dall'altra è il custode del tuo sonno. Il tuo inconscio sta cercando di dirti qualcosa, ma questo qualcosa ti fa paura e, quindi, interviene il sogno che ti porta il suo messaggio, ma te lo mostra sotto spoglie meno spaventose. In questo modo, il tuo sonno è più tranquillo e non sei costretta a svegliarti.»

«Perché ho paura?»

«E' quello che dobbiamo scoprire. La paura è un'emozione negativa, la risposta a qualcosa che ti tormenta. Ti consiglio di annotare i tuoi sogni subito dopo esserti svegliata.»

«Perché potrei non ricordarli più?»

«Sì, ma anche perché potresti averne un ricordo deformato.»

«Non corretto?»

«Esattamente. Vedi, Serena, c'è qualcuno che sta tentando di proteggerti dal tuo inconscio.»

«Chi?»

«La tua coscienza. Lei sa cosa ha da dirti l'inconscio e si avvale della deformazione onirica per difenderti.»

«Deformazione onirica?»

«Una sorta di censura, che ha il compito di mascherare i pensieri del sogno.»

L'inconscio dominava il sogno. Era il suo regno, perciò, faceva quello che voleva, pensò Serena. Lo governava con leggi proprie e si esprimeva con un linguaggio tutto suo. Serena non lo comprendeva, perché interveniva la censura a nascondere ciò che non doveva sapere. E quando il custode di questo regno ne apriva i cancelli per consentire a quel prigioniero nascosto di scappare via, svelandosi, qualcosa gli sbarrava la strada per impedirgli di superare il confine della consapevolezza.

«Non mi capita solo nei sogni.» Serena si fermò a bere un sorso d'acqua. «Di avere paura, intendo.»

«Cosa provi esattamente?»

«Mi batte forte il cuore.»

«Cos'altro?»

«Ho la nausea, i brividi e le vertigini.»

«Hai la sensazione di morire?»

«Sì, è così.»

«Frequenti luoghi pubblici?»

«Quasi mai.»

«Prendi l'autobus per andare all'università?»

«No, ci vado in bici. Non mi piace stare in mezzo alla folla.»

«Quando ti capita di sentirti così?»

«Un coltello.»

«Come?»

«Quando ne vedo uno, mi prende il panico.»

«Credo che tu abbia usato la parola giusta, Serena. Tutti i sintomi che hai descritto sono tipici di un attacco di panico.»

«Cos'è un attacco di panico?».

«La paura di avere paura. Ricordi quando si è verificato la prima volta?»

«Sì, circa un anno fa. Ho aperto la porta del bagno e ho visto mio padre radersi la barba. In mano aveva una lametta in acciaio, una di quelle usate dai barbieri. Lo ricordo bene, perché è subito dopo averla vista che ho iniziato a stare male. Sai spiegarmi il perché, Diana?»

«Eri in trappola, Serena. Avrai un attacco ogni qualvolta ti troverai in una situazione da cui sentirai di non poter scappare.»

Il passato si fece avanti, proiettando una serie di immagini che iniziarono a prendere posto una accanto all'altra nella sua mente, come i tasselli di un puzzle. All'inizio, quelle immagini le parvero sfocate e confuse, finché non riuscì a dar loro una forma ben precisa. Le si stagliarono davanti come fossero un sentiero che, però, non la portarono in nessun luogo. L'unica direzione da intraprendere era quella del tempo. «E' tutto molto confuso.»

«Cosa vedi?»

«Un parco.»

«E poi?»

«Qualcuno che corre. No, io. Sono io che corro.»

«Lo fai abitualmente?»

«No, io non amo la corsa»

«Ne sei sicura? Poteva essere una tua vecchia abitudine.»

"Un altro cambiamento", in quell'istante, le parole di Gabriel le risuonarono nella testa.

«Non lo so, non me lo ricordo.»

«Va bene, non ti preoccupare. Dimmi cos'altro vedi.»

«Salgo su un ponticello e guardo di sotto.»

«Cosa c'è di sotto?»

«Un laghetto con delle anatre». Serena si bloccò. Tutto quello che stava raccontando le era tornato alla mente solo in quel preciso momento. Sperava fossero scene create dalla sua fervida immaginazione e non istantanee realmente accadute. Ogni qualvolta la mente le tirava in ballo, iniziava a sudare freddo e la testa le girava come in una serie infinita di fouettés. Quelle immagini iniziarono a tallonarla senza sosta, come una marcatura a uomo. Era bastato rievocarne una, per portare a galla anche tutte le altre, innescando una sorta di reazione a catena. L'ansia prese il sopravvento e Serena iniziò a tremare come un sismografo alle prese con un terremoto. Diana le suggerì di inspirare a fondo, prima di chiudere la seduta.


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