Capitolo 33
Caro diario,
ti scrivo dalla mia città natale. La mia Bari mi ha accolta in tutto il suo splendore, con un sole basso ma caldo e un venticello fresco, per non parlare dei suoi tipici tramonti ad acquarello. Anche il mare mi è mancato. È lo stesso Adriatico di Trieste, ma questo ha quel "certo non so che" che lo rende speciale.
I miei genitori mi hanno sorpresa, facendosi trovare all'aeroporto. Insieme siamo passati da Nina, la mia sorellona. Lei è di una allegria travolgente e di una fantasia sconfinata, che trascina tutti come un ciclone.
Al nostro arrivo ci hanno accolti mio cognato Biagio e i nostri nipotini. Mia madre ha chiamato Nina, ma lei non ha risposto. Io ho sorriso. Ogni volta, la scena si ripete. Certe abitudini non cambiano mai. L'ho raggiunta in veranda e l'ho trovata a cucinare, mentre canticchiava con gli auricolari affondati nelle orecchie.
Quando mi ha vista si è lanciata in un abbraccio tanto forte da stritolarmi, mentre il suo profumo ai fiori di loto mi è entrato dentro come un pugno nello stomaco. Abbracciate, siamo andate incontro agli altri nel salotto, dove Samuele, il più piccolo, ha iniziato a raccontare di tutto. Non si fermava più, sembrava un fiume in piena. Daniele, il maggiore, gli ha fatto il solletico per farlo smettere. Lui ha riso, si è divincolato e i suoi capelli arruffati zampettavano insieme ad ogni suo saltello. Dopo aver ripreso fiato, mi ha raccontato di Teo, il suo migliore amico; dei giochi divertenti che fa all'asilo e dei suoi spericolati tuffi in piscina.
Dopo pranzo, mi sono lasciata stracciare dai miei nipoti ai videogiochi, nonostante la tenera età, conoscono nei minimi dettagli ogni singola strategia. Impossibile batterli, anche per me che sono sempre stata una campionessa in quel genere di cose.
Le ore, in loro compagnia, sono trascorse piacevolmente, ma, ad un certo punto, ho sentito il bisogno di condividere il mio tempo con la mia cara e vecchia amica. La solitudine.
S.
Tornata a casa, Serena diede la buona notte ai genitori e sgattaiolò in camera. Loro non obiettarono, tra il viaggio, i nipotini e, dulcis in fundo, l'ammissione di aver riportato tutto a galla, convennero con lei che aveva avuto una giornata piuttosto piena.
Afferrò la maniglia con una certa irrequietezza nella mano, certa di non trovarla nello stesso identico modo in cui l'aveva lasciata, prima del ricovero in ospedale. Il riflesso di ciò che stava vivendo allora: infinite foto di lei e Demi; peluche di ogni forma e colore a cui, insieme, avevano dato un nome; il diario della loro storia d'amore; fiori essiccati che profumavano ancora; cd musicali dei loro cantanti preferiti; dvd di film visti insieme; incarti di cioccolatini con frasi romantiche. In ognuna di quelle cose, Demi aveva lasciato una traccia di sé. Ci trascorrevano ore interminabili in quella camera, lasciando il mondo fuori. Era il loro giardino segreto, dove sognavano ad occhi aperti e da dove evadevano senza uscire di casa. Una volta entrata, fu travolta da un'infinita tristezza. Demi non era più lì.
«Non ho buttato niente» mormorò Bianca, alle sue spalle. «Li ho soltanto spostati giù nel box. Chiusi in uno scatolone.»
Serena si voltò verso di lei, aveva gli occhi colmi di affetto e compassione miscelati insieme. «Hai fatto bene, mamma.»
«Posso andare a riprenderli quando vuoi, basta che tu me lo dica.»
Serena scosse la testa, ma non sapeva cosa rispondere e un silenzio gravido di significato discese tra loro. Incrociarono gli sguardi e, dopo un tacito accordo, Bianca capì che era il momento di lasciare sola sua figlia. La ragazza iniziò a disfare il trolley e lei andò via. Ad un certo punto, Serena rimase lì, ferma, con le mani sulla valigia a contemplarne il contenuto. Aveva avuto la sensazione che mancasse qualcosa.
"La pashmina. Non c'è più".
Un ricordo esplose nella sua mente: il sedile dell'auto di Gabe. Era lì che l'aveva lasciata, nella fretta di scappare da lui. L'immagine del suo volto addolorato la braccava senza sosta, le tempie iniziarono a pulsarle ripetutamente come una traccia musicale suonata senza interruzione. L'assenza di Gabe risvegliava in lei un dolore insopportabile.
Da quando l'aveva conosciuto, Serena era tornata ad essere felice. Fino a quel momento, aveva cercato di difendersi da un dolore, bardandosi con una corazza. Tuttavia, quella difesa d'acciaio se, da un lato, l'aveva aiutata a ridimensionare la sofferenza che provava, dall'altro l'aveva costretta a recidere ogni legame con le emozioni, con quel provare che altrimenti sarebbe stato intollerabile. Questo non significava che lei non provasse nulla, ma che aveva sviluppato la capacità di ovattare la sensibilità, per poter semplicemente sopravvivere.
Gabe l'aveva privata di quella difesa, permettendo a desideri, emozioni e sentimenti di avere libero accesso dentro di lei. Lui aveva sentito e saziato la sua fame di affetto, che urlava sotto il peso dell'indifferenza. La stava aiutando a rimarginare una ferita ancora aperta, colmando quel vuoto profondo che l'assenza di Demi le aveva scavato dentro. Tutto questo l'aveva sconvolta. Era addolorata per la sua perdita, ma l'amore era tornato a bussare al suo cuore e lei non sapeva se dargli il permesso di entrare. Un nodo iniziò a stringerle la gola. Si abbandonò ad un pianto liberatore prima di addormentarsi, avvolta nel caldo piumone che odorava di casa.
La mattina del primo gennaio, al risveglio Serena fu baciata da un caldo raggio di sole. Si fiondò alla finestra, per accertarsi che il cielo fosse davvero sgombro da nubi. Aveva dimenticato di trovarsi nel caldo e assolato Sud. Aprì la finestra, sentiva calore sulla faccia. Respirò l'aria fresca e pulita, secca, asciutta, priva di quell'umidità che ti si appiccica addosso, penetrando fin dentro le ossa. Serena sentiva che il buonumore non era dovuto soltanto al tempo.
Entrata in cucina, vide suo padre che faceva colazione. «Buondì, papà.»
«Buondì» ricambiò Andrea, con un sorriso. Il suo sguardo era luminoso e l'espressione che aveva dipinta sul volto misteriosa. La tipica espressione da genitore curioso che sta per impicciarsi, non lasciandoti la minima possibilità di scappare. «Non ti è mancato Gabe?» chiese lui, buttandola lì.
Serena stava per strozzarsi con il cornetto che aveva appena addentato, prese un tazza, la mise nel microonde e l'azionò alla massima potenza. Dopo un minuto, afferrò la tazza e la portò frettolosamente alla bocca, nella speranza che il caffellatte sommergesse quel boccone amaro. «Chi?» bofonchiò, dopo aver ripreso fiato.
Gli occhi verde acqua di Andrea brillarono, esaltando le rughe di espressione che gli increspavano la pelle. «Gabe. Lo nominavi continuamente, mentre dormivi.»
Serena si sedette all'altro capo del tavolo, il più lontano possibile da suo padre. Aveva gli occhi fissi sulla tazza, non voleva incontrare il suo sguardo, che sentiva perforarle la testa. Sembrava che Andrea volesse estrapolarle qualche informazione con la sola forza del pensiero, dal momento che sapeva che la bocca di sua figlia non l'avrebbe tradita neanche sotto tortura.
«Ma che razza di nome è Gabe?»
«È il diminutivo di Gabriel.»
«Ah, la solita americanata di voi giovani.»
«Gabe studia ad Harvard.»
«Ah». Andrea sorseggiò il suo caffè. «È il tuo ragazzo?»
Serena tossì violentemente. «No!». Gabe l'aveva appena conosciuto, come poteva suo padre intuire cosa provasse per lui? Talento da genitore o, più semplicemente, erano fatti della stessa pasta? Un ciuffo di capelli le cadde sugli occhi e Serena lo spinse indietro con un gesto impaziente.
Andrea calò giù le palpebre ed il suo sguardo cadde sulle sue mani intrecciate. «Se non è il tuo ragazzo, chi è?». Probabilmente, si aspettava che, non guardandola, Serena avrebbe trovato il coraggio di confessarglielo.
«Lasciala in pace» intervenne Bianca, che si era appena affacciata alla portafinestra che dava sulla veranda.
«È il fratello maggiore di Emiliano e mi ha dato un passaggio all'aeroporto, tutto qui.»
Per un lungo momento dopo che Serena ebbe terminato di parlare, nella stanza regnò il silenzio. Aveva gli occhi fissi sul pulviscolo che fluttuava nell'aria, illuminato dal sole che filtrava dalla veranda, quando si diede un occhiata intorno. Era stata via solo un anno, ma a sua madre bastava anche un solo giorno per rivoluzionare la casa. La sua specialità era cambiare di posto i mobili, anche quelli pesanti più di una Cinquecento con cinque elefanti a bordo. Serena non aveva idea di come ci riuscisse e, nel corso degli anni, la sua forza cresceva per stare al passo con le sue idee.
Prima che partisse, il frigorifero era accanto alla finestra, adesso aveva traslocato accanto alla porta, per fare compagnia alla lavastoviglie che, dodici mesi prima, chiacchierava beata con la lavatrice. Nel salotto, le due poltrone avevano detto addio alla parete ovest, per ammirare il sole al tramonto. Dovevano far posto al vecchio contro mobile, perché, si sa, il frassino è amante della mezz'ombra.
«Perché non fai una passeggiata?» le propose suo padre.
«Pensavo di dare una mano a mamma in cucina. Nina sarà a pranzo da noi oggi, ricordi?»
«Ho tutto sotto controllo. Vai pure, tesoro» tagliò corto lei, accarezzandole una guancia. «Se te la senti, potresti andare a trovare Demi.»
«Certo che se la sente! E poi adesso c'è Gabe» borbottò Andrea.
Bianca gli lanciò un'occhiataccia e rimasero in silenzio a guardarsi. Pochi istanti, il tanto che bastava per dar vita alla loro conversazione muta. «Quello che tuo padre vuole dire è che è passato molto tempo da quando Demi è andato via. Non devi sentirti in colpa, se il tuo cuore ha ripreso a battere per un altro ragazzo.»
Per quanto difficile e incomprensibile potesse essere il carattere di Serena, per i suoi genitori restava sempre un libro aperto.
«Sì, credo che andrò a fargli una visita.»
Scambiarono qualche altra battuta veloce sul pranzo da preparare e la conversazione, più o meno, finì. Vivere a casa dei genitori, dopo un anno di vita da studente fuori sede, non era più così facile. Serena si sentiva un pesce fuor d'acqua. Non sapeva più quale fosse il posto delle posate o quello dei piatti e non aveva nessuna voglia di stare lì a reimparare tutto da capo. Il solo pensiero, poi, che suo padre potesse ricominciare con il suo interrogatorio su Gabe, le fece accapponare la pelle.
Il cimitero era piuttosto lontano, pertanto Serena avrebbe dovuto attendere l'arrivo dell'autobus. Non c'era nessuno alla fermata, tranne il silenzio. Guardò l'orologio e sospirò. Era inquieta, ma ciò che la tormentava non era quella visita. Era un passaggio obbligato che, per quanto doloroso fosse, aveva il dovere di compiere. Lo doveva a Demi. Passeggiava su e giù, contando i passi nell'accorato tentativo di dissuadersi dal compiere un gesto di cui temeva le conseguenze. Voleva chiamare Gabe e sentire la sua voce, ma aveva paura della sua reazione, delle sue parole dure, della sua voce indifferente.
Persa nei pensieri, Serena giunse a destinazione. Un vento freddo si alzò e le foglie dei cipressi tremarono, scosse dalla forte brezza del suo passaggio. In quel luogo di riposo eterno, il tempo sembrava non contare niente. Era immobile. Ovunque andasse, tutto sembrava uguale. Iniziò a temere di aver girato a vuoto percorrendo lo stesso lungo viale, decise allora di chiedere informazioni in giro, ma il cimitero era deserto. Si guardò attorno e in lontananza vide una ragazza riempire un vaso di fiori da una fontana.
Serena le andò incontro. «Scusami, sapresti dirmi da che parte sono le cappelle?»
La ragazza la scrutò a lungo, prima di rispondere. Quel viso le era familiare, ma non lo mise subito a fuoco. Poi le venne in mente qualcosa, rimestò frettolosamente nella borsa e ne tirò fuori una foto. La guardò, poi sollevò gli occhi su di lei. «Serena?»
«Sì, mi chiamo così» assentì, perplessa. «Ma tu come lo sai?»
La ragazza la strinse forte in un abbraccio, lasciandola di stucco. Restarono così a lungo, quella ragazza non voleva più lasciarla andare e Serena, non sapendo cosa fare, rimase immobile.
«Scusami» disse, sorridendole appena.
Quel sorriso le ricordò qualcuno. Era molto graziosa, ma il suo viso era velato da un'espressione malinconica e Serena si chiese cosa potesse affliggerla tanto. E la risposta le arrivò, pochi istanti dopo, dritta al cuore, che sentì strizzarsi come se una mano glielo stesse stritolando.
«Io sono Daisy Gandini, la gemella di...»
«Demi» la interruppe Serena. Il senso di colpa aiutò quella mano a serrare ancora di più nella sua morsa il suo cuore.
Daisy le mostrò la foto che aveva in mano e che ritraeva Demi e Serena stretti in un abbraccio.
«Mi hai spedito tu le nostre foto?»
«Ho pensato che dovessi tenerle tu, ma questa la vorrei io se non ti dispiace.»
«Certo, tienila pure.»
Le due ragazze percorsero le lunghe stradine alberate, che costeggiavano cappelle magistrali e monumenti sepolcrali. A Serena sembrò di trovarsi nel bel mezzo di un museo, ma all'aperto. Si guardava attorno, come se fosse là per la prima volta e, in parte, era come se lo fosse. Era poco più che una bambina quando perse i suoi nonni, ne aveva un ricordo sbiadito. Mentre camminava, lanciava delle occhiate alle date incise sulle lapidi. Rabbrividì quando si accorse che là sotto vi erano sepolti moltissimi giovani.
Quando si trovò davanti alla tomba di Demi, Serena credeva che sarebbe stata assalita dal dolore e che non avrebbe potuto impedire alle lacrime di scorrerle come pioggia amara sul viso. Il dolore esisteva e non poteva cancellarlo, ma non andò così.
"Mi sto dimenticando di lui?", si chiese sconvolta.
Spontaneamente, guardando la sua foto, le labbra le si aprirono in un dolce sorriso. Ne aveva un ricordo sereno. Nelle orecchie le risuonava ancora la sua risata allegra, quella che l'aveva fatta innamorare del suo infrangibile ottimismo, del suo contagioso buon umore. Di lui.
In quel momento, Serena si rese conto che non si sentiva più in colpa nei suoi confronti. Non poteva fingere che niente fosse successo; Demi era morto e la sua assenza era una realtà che non avrebbe mai potuto cancellare, ma con cui avrebbe dovuto convivere per sempre. Quei ricordi, però, non avevano ridestato il dolore, sembrava quasi che volessero ricucire lo strappo tra il loro passato insieme ed il suo presente senza lui. Demi voleva vederla felice, ma Serena poteva esserlo ad una sola condizione: darsi il permesso di tornare a vivere. Quel dolore, che per mesi l'aveva logorata dentro, indebolendola giorno dopo giorno, lo stavo finalmente rendendo parte di sé. E quel futuro, che mai avrebbe pensato arrivasse, lo stava già vivendo. Era questo ciò che Demi avrebbe voluto.
«Avete donato i suoi organi?» chiese Serena, d'un tratto.
«È stato mio fratello a volerlo.»
«Aveva solo vent'anni. A quella età nessuno pensa alla morte.»
«Credevo lo sapessi.»
«Una volta mi accennò qualcosa a proposito, ma lo pregai di cambiare argomento.»
«Demi ed io abbiamo perso nostro padre circa dieci anni fa. Era malato di leucemia. Probabilmente, lui sarebbe ancora qui, se avesse avuto la possibilità di un trapianto. Da quel giorno, Demi non ha fatto altro che ripetere che lui non sarebbe stato così egoista e che avrebbe donato tutto se stesso, se fosse stato necessario a salvare la vita a qualcun altro.»
«Per questo, quando è andato via l'ha fatto con un sorriso e i suoi occhi erano luminosi. Sapeva che non sarebbe morto invano, ma che la sua vita era stata presa in prestito per aiutare qualcun altro.»
«Demi ha sempre parlato in modo sereno della sua morte, come se non la temesse.»
«O come se l'attendesse. Lui ha atteso la morte con il sorriso negli occhi, perché durante la sua vita, anche se breve, è riuscito ad essere felice.»
Il cuore di Serena era così gonfio di felicità che salutò Daisy e andò via. Iniziò a correre, i raggi del sole sembravano volessero giocare a nascondino, spuntando e scomparendo tra i cipressi. Attraversava quel lungo sentiero spettrale, volando tra il calore della luce ed il freddo del buio. E mentre volava, iniziò a spogliarsi di tutto quel dolore che, come una seconda pelle, le si era cucito addosso, facendolo scivolare via e sentendosi finalmente libera.
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