Capitolo 32
Le prime luci dell'alba filtravano attraverso le tende chiare. Serena restò immobile nel letto in attesa che quello spiraglio di luce la raggiungesse per scaldarla. Aveva i brividi, ma non li attribuiva al freddo. Aveva il presentimento che stesse per accadere qualcosa che non le sarebbe piaciuto.
L'appartamento era taciturno, niente faceva rumore. Ester dormiva ancora. Serena riprese ad osservare il soffitto con gli occhi spalancati, quasi volesse trafiggerlo con lo sguardo. Pensò che quello era il grande giorno. Quello in cui avrebbe rivisto la sua città, dopo un anno di assenza; avrebbe confessato ai genitori di aver recuperato la memoria; avrebbe riabbracciato i luoghi della sua storia con Demi.
Non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Si addormentava per pochi minuti, poi l'ansia la svegliava quasi subito. Aveva avuto più volte la tentazione di ricorrere ai suoi cari e vecchi amici ansiolitici, ma aveva desistito. Non ne faceva più uso da tempo e non voleva tornare ad esserne dipendente.
Lanciò un'occhiata alla sveglia, mancava poco più di mezz'ora al suo odioso squillo. A quel punto, si sarebbe dovuta alzare, fare una doccia, vestirsi e sistemare le ultime cose in valigia.
Nell'inquietante silenzio della casa, sentiva echeggiare i battiti regolari del cuore che scandivano il tempo insieme al ticchettare rumoroso delle lancette, secondo dopo secondo. Il tempo sembrava essersi fermato e non sapeva decidersi se quello fosse un bene. Voleva tornare a casa. Non vedeva l'ora di riabbracciare la famiglia, ma questo implicava un altro evento che si sarebbe inevitabilmente verificato prima.
Gabe.
Ciò che l'aveva tormentata tutta la notte, che le aveva impedito di addormentarsi e che aveva riempito d'angoscia il suo stomaco era paura. Gabe era un ragazzo in carne e ossa, questa consapevolezza accresceva in maniera esponenziale le sue insicurezze. La poca, per non dire inesistente, stima che aveva di sé la portava a sentirsi inadeguata a lui e al suo mondo blasonato. Un senso di terrore folle s'impadronì di lei, togliendole il respiro.
Innamorarsi era stato rischioso, per Serena. Il suo cuore era segnato ancora da profonde cicatrici. Eppure, era lì che fremeva, voglioso di togliersi quelle bende per tornare a palpitare più di prima. Non poteva farne a meno, quando incrociava i suoi occhi.
Come se tutto questo non fosse già abbastanza, non sapeva cosa avrebbe dovuto indossare per non sfigurare al suo fianco. Nel giro di pochi minuti, aveva riversato l'intero contenuto della valigia sul letto.
Ester bussò alla porta, svegliata dai rumori che provenivano dalla camera da letto di Serena. «Cos'è successo? È passato un tornado da queste parti?» chiese, dopo aver notato i vestiti sparsi dappertutto.
«Sono nella confusione più totale» ammise Serena.
«Ma la valigia non era già pronta?»
«Sì». S'interruppe e sospirò. «Ma non avevo calcolato l'imprevisto.»
«Gabe, certo». Ester si unì ai suoi sospiri. «Non essere così nervosa, andrà tutto bene». Si sedette sulla scrivania, mentre le sue lunghe gambe da pallavolista dondolavano avanti e indietro come un'altalena.
«Non so cosa mettermi». Le parole le uscirono come un lamento, mentre guardava disperata il guardaroba ammassato sul letto.
Ester la studiò, con sguardo clemente. «Un paio di jeans andranno più che bene.»
«E cosa ci abbino?»
«Questo golfino» le suggerì, prendendolo dalla spalliera della sedia e passandoglielo al volo. «Risalterà il tuo bel decolté.»
«Sei matta?». Serena arrossì sino alla radice dei capelli.
«Fidati, sarai uno schianto.»
Serena era talmente agitata, che stava quasi per mettersi a piangere. Filò in bagno, scombussolata. Non riusciva a decifrare le sue emozioni. Una doccia rilassante la rimise un po' in sesto. Cominciava, anche se molto lentamente, a tornare padrona delle sue facoltà mentali che, ogni qualvolta c'era di mezzo Gabe, partivano in vacanza.
Prese lo spazzolino e iniziò a lavarsi i denti. Si guardò nello specchio e vide riflesso il volto di una pazza: la schiuma bianca del dentifricio circondava gli angoli della bocca; i capelli elettrizzati che le svolazzano sulla testa. Notò un alone bluastro sotto gli occhi e lanciò un urlo disperato.
«Cosa succede adesso?» le domandò Ester, facendo capolino nel bagno.
«Come le nascondo queste?»
«Lascia fare a me» disse Ester con fare risoluto, dopo aver tirato fuori da una cassettiera una pochette. «Hai bisogno di un make-up strategico» proseguì, iniziando a picchiettarle del correttore sotto gli occhi.
Serena le lanciò un'occhiata torva. «Non esagerare, non voglio sembrare un panda.»
«Silenzio. Sto creando un'opera d'arte.»
«Non prenderci troppo la mano, Picasso. Non ti lascerei dipingere la mia faccia, se non fossi così disperata.»
Ester era talmente concentrata, che non si degnò di risponderle. Sulla faccia aveva proprio quell'espressione persa dell'artista di fronte alla sua creazione. «Un tocco di rimmel. Ferma con gli occhi o rovinerai il mio capolavoro». Lasciò cadere il mascara nel suo beauty con una mano, mentre con l'altra tirava fuori un gloss. «Socchiudi le labbra, sì così et voilà.»
Serena si guardò allo specchio, preoccupata. Tirò un sospiro di sollievo, invece, quando il volto che vi vide riflesso fu quello di una ventenne sofisticata. I suoi occhi blu brillavano come due cabochon di sodalite. Lo sguardo languido, identico a quello intrappolato in quella vecchia fotografia. Uscì dal bagno, si diresse verso la sua camera e si vestì in fretta. In quel momento, squillò il campanello ed Ester andò ad aprire.
«Ciao, Sere». La voce di Emis era calda ed armoniosa, esattamente come quella di suo fratello, ma non se ne era mai accorta prima. Aveva una scatola rettangolare tra le mani, che le porse. «Ti ho preso qualcosa per il viaggio.»
«Cioccolatini? Grazie.»
Ester lanciò un'occhiata all'orologio che aveva al polso. È quasi ora.»
A quelle parole, l'ansia incominciò a travolgere Serena ed Emis se ne accorse. «Tranquilla, Gabe sarà qui a momenti» la informò, con un sorriso così raggiante da far invidia persino ad un arcobaleno.
Serena contraccambiò un sorriso piuttosto imbarazzato, mentre Ester giocherellava con i suoi capelli. Stava spostando le ciocche da un parte all'altra in cerca di una nuova acconciatura. Fu di nuovo in preda all'ansia. Aveva l'impellente bisogno di controllare che ora fosse. In quello stesso istante, suonò di nuovo il citofono.
«Vado io» si offrì Ester, lasciandole ricadere le lunghe onde castane sulle spalle.
«Buon viaggio.»
«Grazie, Emis. Ci sentiamo durante le feste». Serena prese la pashmina, la borsa appesa al gancio accanto alla porta e salutò Ester.
Fuori pioveva a dirotto e Gabe la stava aspettando accanto al portone, con un enorme ombrello nero.
Alla sua vista le labbra di Serena s'inarcarono immediatamente in un sorriso. «Ciao.»
«Ciao» le sussurrò Gabe dolcemente, dopo averle dato un timido bacio su una guancia. «Sei stupenda.»
Quel breve contatto la folgorò, come se fosse stata colpita da un fulmine. Rimase imbambolata dai suoi occhi azzurri e, all'improvviso, non si sentì più sicura di niente. Quegli occhi iniziarono ad agitarla. Fece un profondo respiro per calmarsi, ma non funzionò molto bene.
«Questo lo prendo io» disse Gabe, afferrando il trolley. La riparò con il suo ombrello e raggiunsero la sua BMW. Gabe aprì la portiera del passeggero e Serena salì a bordo. Lui infilò la valigia nel bagagliaio, raggiunse il posto di guida e si sfilò il cappotto che lasciò scivolare sul sedile posteriore. Serena rimase inebetita a fissare il sinuoso movimento dei suoi pettorali attraverso la camicia, che s'intravedeva sotto la giacca sbottonata.
L'aeroporto distava solo una ventina di chilometri dalla città e non ci avrebbero impiegato molto per raggiungerlo. Serena avvertì una fitta al pensiero che sarebbe stata lontana da lui per due lunghe settimane.
Durante il tragitto, chiacchierarono degli studi di Gabe negli Stati Uniti e Serena si ritrovò spontaneamente a fargli domande. Era sinceramente curiosa di ascoltare il suo racconto. Mentre Gabe guidava, non smetteva più di parlare e ridere, dopo aver raccontato un aneddoto sui guai in cui si era cacciato un suo amico per aver rubato il prototipo di uno scheletro dal laboratorio di anatomia, a causa di una scommessa.
Serena perse il conto delle domande che gli rivolse, voleva sapere tutti i dettagli sulla sua vita; sui suoi studi; sui suoi amici; su come passava il tempo libero. Ad ogni sua risposta faceva seguire subito un'altra domanda e lui parve quasi divertito da quella sua fame di sapere.
Arrivati in prossimità di un semaforo, Gabe si voltò verso di lei, le prese la mano con naturalezza, come se quella non fosse la prima volta. Serena si era talmente imbarazzata a quell'improvvisa intimità, da non sentire la musica in sottofondo.
Ad un certo punto, lui iniziò a canticchiare. «La conosci?»
«Occhi di speranza. È molto toccante.»
«Lo penso anch'io. Riassume un po' la mia vita.»
Serena rimase sconcertata dalla sua confessione. «Sei favorevole alla donazione?»
«Lo sono diventato, dopo il trapianto». Gabe la guardò con una dolcezza tale da spazzar via ogni imbarazzo.
«Hai subito un trapianto di cornea?» chiese lei, sbalordita.
Gabe strinse la sua mano ancora più forte. «Sì, non potevano più essere curate con le lenti a contatto.»
«È stato doloroso?» domandò in tono dispiaciuto, mentre lui riprese a guardare la strada davanti a sé.
«No, solo un lieve fastidio per un paio di giorni». Incrociò di nuovo il suo sguardo e le sorrise. «Mi piace che ti preoccupi per me» dichiarò, prima di portarsi la mano di lei alla bocca e baciarla.
Serena deglutì a fatica, per rimettere al posto il cuore che le era schizzato in gola. «Quando è avvenuto il trapianto?»
«Poco più di un anno fa.»
«Hai dovuto attendere molto?»
«Sono stato fortunato. Le mie cornee sono state offerte dal centro regionale pugliese, per assenza di riceventi idonei nella loro lista.»
«I donatori restano anonimi, vero?»
«Sì ma, grazie ad un padre medico, sono riuscito ad avere qualche informazione.»
«Cos'hai saputo?»
«Il mio donatore era un ragazzo barese di vent'anni.»
«Era così giovane?»
«Purtroppo sì. Due malviventi hanno aggredito lui e la sua ragazza al mare. I soccorritori li hanno trovati privi di sensi sugli scogli.»
A quelle parole Serena ebbe un sussulto improvviso, strinse la mascella tanto forte da tagliarsi la lingua coi denti e sentì il sapore del sangue.
«Lei era ancora viva, lui invece...». Gabe lasciò cadere la frase a metà, quando vide un riflesso cristallino sulla sua guancia.
Serena fissava il vuoto davanti a sé, le labbra tese e dritte. All'improvviso, quella sensazione di benessere che provava grazie alla presenza di Gabe fu rimpiazzata da una profonda fitta alla bocca dello stomaco. Sentì il sangue gelarsi nelle vene. Durante quel breve istante, rivide Demi morirle un'altra volta tra le braccia. Il suo ricordo era ancora troppo fresco perché riuscisse a considerarlo dimenticato. Grattarlo via dalla mente fu praticamente impossibile. Provò a schivare quel tir di dolore che stava per travolgerla, ma riuscì soltanto a sentire il suo cuore andare in frantumi.
Un'altra volta.
«Stai bene?» le chiese Gabe, perplesso.
Serena sentiva i suoi occhi su di sé, ma non osò girare la testa nella sua direzione. Respirava lentamente, fece un enorme sforzo per tenere il ritmo regolare. Quando fu costretta a deglutire, sentì di nuovo il sangue in bocca. Cercò di rimuovere quelle immagini dalla mente, illudendosi di poterle ricacciare nel cassetto dei vecchi ricordi da dove le aveva tirate fuori. Innalzò un muro, ma loro riuscirono a scavalcarlo.
La lacrima restava lì. Ferma. Tatuata sulla guancia. «No.»
«È per quello che ho detto?»
«Sì». Serena si sforzò d'imporre un tono neutro alla sua voce, ma non ci riuscì. La tristezza prese il sopravvento.
Nel frattempo, avevano raggiunto l'aeroporto. Gabe parcheggiò l'auto e spense il motore. Il silenzio dell'abitacolo li avvolse nella sua immobilità. Serena si sentiva come sospesa nel vuoto, persino le lacrime rimasero aggrappate alle ciglia con il timore di piombare giù inopportune. Gabe riprese a scrutarla. Serena sentiva addosso i suoi occhi intensi e penetranti. Lo sbirciò con la coda dell'occhio. Ecco cos'era quello strano presentimento, che non aveva smesso neanche per un secondo di perseguitarla quella mattina.
Gabe allungò una mano verso il suo viso per voltarlo verso di sé, ma sembrò sorpreso nel vederla ritrarre. «Scusami, non avrei dovuto raccontartelo.»
«Ero io quella ragazza». Le labbra tremarono ad ogni parola. Gli occhi fissi sul parabrezza.
«Tu?». Gabe era incredulo. «Lui era il tuo ragazzo?»
«Demi» mormorò. Lo stomaco le si stava contorcendo a tal punto che aveva difficoltà a parlare. «Si chiamava Demi.»
«Mi dispiace» sussurrò Gabe, addolorato. Con quelle due parole cercò di chiederle scusa, come se fosse stata colpa sua.
Serena avvertì il desiderio di accarezzargli la mano, immobile sulla gamba, così vicina alla sua.
In quel momento, una voce dall'interfono annunciava l'imminente partenza del suo volo. Serena doveva affrettarsi a raggiungere il check-in. Il tempo la stava portando via da lui come nei sogni. Ma, questa volta, ne fu sorprendentemente lieta.
«Ti accompagno» si offrì Gabe, aprendo lo sportello.
Serena lo fermò, posandogli una mano sul braccio e stando ben attenta a non incontrare il suo sguardo. «No, preferisco salutarti qui». La voce rotta, come uscita da un altoparlante difettoso. A stento riusciva a trattenere il pianto che con prepotenza le si era barricato in gola.
Con le dita delicate e timide Gabe le sfiorò la mano. «Mi dispiace davvero.»
«Non è colpa tua. È solo un crudele scherzo del destino». Prese fiato, come emersa da una lunga apnea. «Ciao Gabe e grazie del passaggio». Sentì la voce distante, come se qualcun'altra avesse parlato al posto suo.
Serena aprì la portiera per scendere, ma lui la trattenne afferrandole delicatamente un polso. Doveva essere un vizio di famiglia. «Posso chiamarti?»
«Devo andare» tagliò corto lei. Non era arrabbiata, cercava solo di nascondere il suo dolore.
La mano di Gabe, anche se con un'avversione quasi palpabile, la lasciò andare.
Serena scese alla svelta dall'auto e prese la valigia dal portabagagli. Dietro di lei solo il silenzio. Senza voltarsi, scappò via affannandosi senza controllo. Lontana, sempre più distante, corse lungo il marciapiede e continuò a correre, schivando i passanti che incrociava sulla sua strada. Si morse un labbro: era salato. Serena si accorse solo allora che stava piangendo. L'aria gelida del mattino le punse il viso, tanti aghi le trivellarono la pelle. Sentì freddo. Un freddo che le si stava insinuando lentamente nel petto, alla ricerca di una vittima da ibernare. Il cuore. Più si allontanava da Gabe e più lo sentiva gelarsi.
Superò la porta a vetri e, con il corpo che le tremava e l'anima che le graffiava la gola, proseguì ancora più veloce e si fermò solo quando raggiunse il check-in: barcollante; senza fiato; la nausea galoppante; lo stomaco in subbuglio. Serena si accorse che un pensiero solitario le si aggirava nella mente, come un turista sperduto in una città straniera. La felicità, che aveva provato fino a quel momento, improvvisamente sì macchiò del sangue di Demi. Nuove lacrime scesero copiose sul suo viso, non era giusto che fosse felice. Era dilaniata da due forze che la tiravano in due direzioni opposte. Sentì la felicità deflagrarle dentro come una granata. Al suo posto rimase solo una profonda sofferenza.
«Mamma guarda com'è conciata!» urlò una bambina, in fila davanti a lei.
«Sss» le sussurrò la mamma, costringendola a voltarsi.
Serena si riprese dall'intontimento in cui era precipitata e vide il suo volto riflesso nel vetro alle sue spalle: il viso snaturato da una colata nera; le labbra sbavate dal rossetto; gli zigomi chiazzati dal blush. Una maschera spettrale. Rinchiuse le lacrime nel bagaglio a mano, occultò il dolore nel fracasso del decollo e traballò alla scossa di ogni turbolenza.
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