Capitolo 28
Una settimana lenta, grigia, deprimente. Cosa avrebbe potuto renderla peggiore? L'influenza. Una vera e propria catastrofe.
Da quando Serena aveva incominciato la terapia, la sua piccola e insignificante esistenza ruotava attorno a quei cinquanta minuti, due volte a settimana. Serena si stava impegnando a seguire ogni singola istruzione che Diana le aveva impartito: tenersi lontana dai ricordi; lasciarli volare via; non trattenerli. Non era per niente facile. Il conflitto era stato sedato, Serena non era più divisa a metà. Non si sentiva più alla deriva e la notte riusciva a dormire senza l'assolto degli incubi, ma era assuefatta.
All'indifferenza.
L'influenza aveva complicato le cose. Svegliarsi con la consapevolezza che quel giorno non l'avrebbero più abitato insieme, aveva fatto precipitare il suo equilibrio nel baratro della disperazione. Stava perdendo il controllo. Un'altra volta. Diana l'aveva informata dell'eventualità di una regressione, durante la cura. La paura avrebbe tentato in ogni modo di ostacolare il suo cambiamento. Aveva convissuto a lungo con la sofferenza e, questa, alla fine era diventa una parte di lei. Ora che, lentamente, stava andando via, il suo stato d'animo era impazzito: alternava momenti di serenità a quelli di profonda tristezza.
Quel mattino, Serena si sentiva un po' meglio del solito. Afferrò il beauty case e filò in bagno, pronta a concentrarsi su ogni singolo gesto. Step-by-Step: fare la doccia; asciugare con cura i capelli; vestirsi. Tenere occupata la mente con gesti semplici e costanti le impediva di essere assalita da quegli avvoltoi dei suoi pensieri.
Lo stridere della suola di gomma sul parquet, fece alzare lo sguardo di Ester dal cappuccino che stringeva tra le mani. «Vai a lezione?»
Serena annuì e si diresse verso il frigorifero. Prese un vasetto di yogurt agli agrumi e una bottiglietta d'acqua. Dal cassetto delle posate tirò fuori un cucchiaino, poi andò verso la finestra e rimase lì, in piedi, a mangiare il suo yogurt.
Ester aveva studiato ogni suo movimento. Sembrava stesse meglio e avrebbe dovuto cogliere al volo quell'attimo. «Vieni con me, facciamo un giro in centro. Gli appunti ce li facciamo prestare da Emis.»
«Torna Gabe, oggi. E poi, ho parecchie lezioni arretrate.»
Ester esaminò la sua espressione inflessibile e optò per una diversa strategia. «Non dovevi comprare il regalo per tuo nipote?»
Serena accennò un sì col capo.
«Beh, se non ti dai una mossa, rischi di rimanere a mani vuote.»
«Ordinerò qualcosa da internet.»
«Non arriverà mai in tempo per Natale.»
«Oh, insomma Ester!» urlò Serena, lanciando il vasetto mezzo pieno nella pattumiera. «Lasciami in pace.»
«Scusami tanto». Ester alzò le mani al cielo. «So che ci tenevi a fargli un regalo.»
«Ale avrà la sua automobilina telecomandata, come promesso». Serena strappò un foglio dal rotolo di carta appeso al muro e se lo passò sulla bocca, prima di cestinarlo accanto al vasetto.
«Sere, so che fa male, ma non puoi smettere di vivere solo perché Demi non c'è più.»
Serena sbiancò. «Lo sai? Hai mai perso qualcuno che amavi più di chiunque altro, Ester?»
«Sere, io...». Ester s'irrigidì di colpo e iniziò a sbattere le palpebre di continuo. Stava tentando disperatamente di ricacciare indietro le lacrime, che si erano accodate come fan devote del club della vergogna.
«No». Serena abbassò lo sguardo sulla bottiglietta che stringeva tra le mani. «Non puoi sapere quanto fa male, finché non lo provi. Mi auguro che tu non debba scoprirlo mai.»
Ester non replicò. Quelle parole le avevano pugnalato il cuore. Serena doveva sentirsi a pezzi, per averla ferita in quel modo.
«Non aspettarmi a pranzo» le disse, mentre s'infilava il giubbotto. «Andrò al Village, dopo le lezioni.»
Nella fretta di fuggire dalla sua coinquilina, Serena dimenticò di prendere l'ombrello mentre fuori il temporale, impervio, si abbatteva sulla città.
Nelle ultime settimane, Ester aveva assunto il ruolo di una mamma chioccia e questo Serena proprio non riusciva a mandarlo giù. Se ci versi quintali di zucchero nel caffè per eliminare del tutto il suo sapore amaro, finisci col renderlo così dolce da vomitarlo. Il dolore sarebbe tornato sempre a galla. Serena doveva soltanto imparare a ingoiarlo a piccoli sorsi, così sarebbe stato un po' più digeribile.
Fu tra i primi ad arrivare in Facoltà, l'unico vantaggio fu che, trovando l'aula ancora deserta, trovò posto in prima fila. L'avere il volto dei professori davanti agli occhi, l'avrebbe aiutata a concentrarsi sulla lezione e nient'altro. Tirò fuori dalla borsa il libro di psicologia dinamica, l'aprì alla pagina della lezione del giorno e cercò di concentrarsi sulle parole che leggeva. In breve, l'aula si riempì e, poco dopo, la lezione cominciò. La voce squillante della professoressa Pagliarini era proprio la distrazione che Serena cercava. Il tempo passò in fretta e la lezione finì prima del previsto.
«Sere?». Emis sbucò misteriosamente alle sue spalle, come un coniglio dal cilindro. «Passata l'influenza?»
Lo sguardo di Serena salì dalle Hogan in pellame effetto used su per le chilometriche gambe fasciate da jeans scuri, attraverso dei pettorali scolpiti, per giungere ad un viso fin troppo animato da buoni propositi. «Credevo fossi a Ronchi. Non è oggi che arriva tuo fratello?»
«Un suo collega ha noleggiato un'auto all'aeroporto, gli darà un passaggio». Emis le si sedette accanto e le diede un bacio sulla guancia. «Un errore imperdonabile.»
«Quale?»
«Non averti salutata.»
Serena si sentì stranamente disorientata, ma cercò di non darlo a vedere virando lo sguardo verso la sua borsa. Tirò fuori il libro psicologia dell'età evolutiva e si concentrò sulla lezione fino alla fine dell'ora.
«Ti accompagno io a Palmanova.»
Serena si girò verso di lui. Non sapeva quale espressione avesse assunto la sua faccia, ma sentì gli occhi infuocarsi.
«Cavolo!», sbottò Emis. «Vuoi uccidermi adesso con il tuo sguardo assassino o aspetti la fine delle lezioni?»
«Preferisco non avere testimoni» replicò lei, acida. Serena radunò frettolosamente le sue cose, nel disperato tentativo di alleviare quel malessere che stava tornando ad inghiottirla.
«Dai». Emis la tirò per una manica, lanciandole uno dei suoi sguardi alla Bambi. «Non essere arrabbiata con me.»
«Non sono arrabbiata» ribatté lei, alzandosi. «Voglio solo che tu ed Ester mi trattiate come al solito. È chiedere troppo?». Afferrò la tracolla e si diresse verso la porta, stizzita.
Emis le corse dietro, lanciandole ad ogni passo occhiate ansiose. Percorsero in silenzio il lungo corridoio, mescolandosi al resto degli studenti. Raggiunta l'aula di psicologia clinica, Emis la trattenne per un braccio. «Sere aspetta.»
Serena lo guardò con gli occhi lucidi. Avrebbe voluto abbracciarlo e abbandonarsi ad un pianto liberatore, come una bambina che ha il cuore infranto dopo che le è stato rivelato che Babbo Natale non esiste. Se solo fosse riuscita a liberarsi di quel fastidioso groppo che aveva in gola...
«Non è facile per me fare finta di niente.»
«Lo so, ti chiedo solo di provarci.»
«Dimmi che è tutto okay.»
«È tutto okay, Emis.»
Lui non aggiunse altro, ma dagli occhi malinconici con cui la guardava, Serena si accorse che sapeva che stava mentendo. La spontanea dolcezza di Emis era così disarmante, che fu improvvisamente sopraffatta dal senso di colpa.
Il resto della giornata trascorse piuttosto rapidamente, ma non così in fretta da consentirle di andare a dormire e far calare il buio sui suoi pensieri.
«Grazie, per aver accettato il passaggio». Emis le sorrise, prima di aprirle la portiera del lato passeggero.
Serena saltò a bordo e sprofondò sulla pelle nera di quel sedile, che l'accolse nel suo morbido abbraccio. La seduta era molto comoda, erano secoli che non saliva a bordo di un'auto e aveva dimenticato quanto potesse essere confortevole l'abitacolo di una quattro ruote, rispetto a quello inesistente di una bicicletta. Un'altra grande conquista, che cercava di godersi tra un rimpianto e l'altro.
Emis guidava silenzioso, con uno sguardo così fisso sul parabrezza da fonderlo se avesse avuto la vista calorifica di Clark Kent. Non l'avrebbe infastidita e, anche se il suo viso era tirato quanto un lifting riuscito male, Serena poteva stare tranquilla e crogiolarsi nel suo tormento senza alcuna interferenza da parte sua. L'auto rallentò ed Emis inserì la prima, per poi appoggiare i gomiti sul volante e tamburellare nervosamente le dita sul clacson, senza dargli voce. Quella che sperava di sentire era un'altra, ma non arrivò. Il silenzio era l'unica cosa che Serena voleva ascoltare, in quel momento. L'unico amico in grado di comprendere la sua necessità di tenere qualcosa per sé e non condividerla con altri.
Emis conosceva bene quella componente del suo carattere, ma non sempre riusciva ad assecondarla, perché contrastava con la vera Serena, quella solare e divertente che veniva fuori di tanto in tanto e senza preavviso e che, ora, giaceva addormentata sotto l'incantesimo di una strega malvagia chiamata malinconia.
«Semafori» bofonchiò, con voce roca. La paura che, di colpo, Serena aprisse lo sportello e scappasse via lo stava divorando.
«Se non ci fossero, ci sarebbe il caos» affermò lei, con aria assente e solo per non farlo sentire un imbecille.
«Sì, ma non uno ad ogni isolato» constatò, prima di voltarsi verso di lei. «Ti va un cappuccino?»
«Non dico mai di no ad un cappuccino» rispose, senza distogliere lo sguardo dal finestrino. Le vetrine dei negozi continuavano a scorrerle di fianco, una dopo l'altra. Le strade erano gremite di auto e persone a spasso, nemmeno il cielo cupo e il rombo dei tuoni servivano da deterrente allo shopping natalizio. Il Natale era davvero alle porte, ma Serena non avvertiva la presenza di alcuna briciola di entusiasmo.
Emis svoltò a destra e imboccò Corso Umberto Saba, dopo circa duecento metri raggiunsero Largo della Barriera Vecchia. Parcheggiò la sua Toyota RAV 4 sul lato destro del marciapiede.
Serena scese dall'auto, la temperatura fuori era calata bruscamente e iniziò a tremare, si strinse nel giubbotto e si guardò in giro; era insolito per lei trovarsi in quella zona della città. Dopo i sogni, però, le cose erano cambiate.
I sogni.
Grazie a loro era tornata a d'essere quella d'un tempo, ma a quale prezzo? Come sarebbe riuscita a guardare avanti se quello di cui aveva bisogno era intrappolato in un passato che non sarebbe più tornato? Il suo ricordo continuava a squarciarle la testa, con la stessa potenza di un tuono. Fu percorsa da un brivido, ma non fu il freddo il solo responsabile.
Emis chiuse la portiera, si abbottonò il cappotto e raggiunse Serena sul marciapiede. Le passò un braccio sulla spalla, come fosse la sua ragazza e, dopo pochi metri, si fermarono davanti a un locale che faceva tornare indietro nel tempo. Le vetrine, gli arredi e le scritte avevano la linearità liberty dei primi del Novecento.
Ai tavolini della pasticceria Paona c'erano anziane signore che sorseggiavano i loro caffè, universitari che ricopiavano gli appunti delle lezioni e, ovviamente, i turisti che si lasciavano ammaliare dal gusto sofisticato di un dolce austriaco e un calice di vino pregiato.
La cosa che più sorprese Serena, entrando, fu il vedere una libreria in fondo al locale, che sembrava immensa per il gioco di specchi inseriti tra gli arredi. Persa in quell'atmosfera suggestiva, fece fatica a sentire Emis che la chiamava per affrettarsi a raggiungerlo all'unico tavolo libero che una cameriera era riuscita a trovare.
«Cosa prendete?» chiese la donna, con un marcato accento sloveno.
Serena la stava osservando. Dalle rughe accentuate che aveva impresse sul volto, doveva avere più di cinquant'anni.
«Un capo in b tanta e un goccia» disse Emis.
La signora annotò l'ordinazione sul suo taccuino e si allontanò. Serena appoggiò la schiena alla spalliera della sedia e lanciò uno sguardo in giro. Era Dicembre e la pasticceria era abbellita da addobbi di ogni genere. Festoni di abeti ornavano il lungo bancone; fiocchi di neve erano spruzzati sui vetri delle finestre; ghirlande multicolore cadevano a pioggia dal soffitto. Ma non furono solo le decorazioni ad attirare la sua attenzione. Il Caffè era animato da un gruppo di artisti che avevano trasferito, per il periodo natalizio, la messinscena del loro spettacolo. Una vera attrazione per i turisti. E doveva esserlo anche per lei. Emis l'aveva trascinata lì nel tentativo di strapparle un sorriso. Si trattava di una sfida già persa in partenza, ma Emis era uno sportivo e avrebbe giocato la partita fino in fondo.
Pochi minuti dopo, la cameriera tornò con le loro bevande calde, che tintinnarono quando le fece scivolare sul tavolino. «Un cappuccino in bicchiere con tanta schiuma per la signorina. Un caffè con una goccia di schiuma di latte per il signore.»
La caffetteria era piena zeppa e il personale faceva lo slalom fra i tavoli, per servire quanto prima i clienti e non lasciarli scontenti. La gentilezza e la cordialità dovevano far parte del servizio o, più semplicemente, era merito di quell'atmosfera, pensò Serena prima di vedersi riflessa sulla superficie argentea del portatovagliolo: viso pallido, occhi spenti e labbra serrate. Non si riconosceva più.
Avvicinò lentamente il cappuccino alle labbra, ignorando l'allegro chiacchiericcio che la circondava. I pensieri continuavano a lampeggiarle nella testa come lucine colorate, posò sul tavolino la tazza, completamente intatta e il sogno affiorò.
Era molto simile a tutti gli altri, la fresca brezza del mattino, la stessa atmosfera di effervescenza, la stessa intensa emozione di ogni loro incontro eppure, quella volta, il batticuore fu diverso, più intenso. Serena aveva avvertito una sensazione nuova nell'aria, un'energia che sentì penetrarle dentro, facendola rabbrividire. Non aveva idea di cosa fosse, ma quella cosa aveva lasciato la sua impronta nella sua anima, compromettendo per sempre la sua lucidità.
Emis le accarezzò dolcemente il dorso della mano, con le sue calde e lunghe dita affusolate. Le ricordarono le sue. «Sere, ci sei?»
Serena scrutò il suo viso. Gli occhi di Emis erano dolci, pieni di affetto e un lieve sorriso gli aleggiava intorno alle labbra. «Vieni spesso qui?»
«No, mi ci ha portato un paio di volte Gabe. Sai chi è stato, invece, uno dei più assidui frequentatori di questo posto?»
«No, stupiscimi». Impugnò la tazza con la mano libera e se la portò alla bocca.
«James Joyce. È qui che ha ideato il suo Ulisse. E' per questo che ha preso il nome di Caffè letterario.»
Per pochi attimi il silenzio li avvolse, si udiva soltanto il ronzio delle luci natalizie. In quel momento, entrò un altro cliente nella pasticceria e una folata di vento siberiano raggiunse Serena, facendola rabbrividire. Fuori, il sole stava tramontando dolcemente, infiammando il cielo in un ardente tocco rosso e arancio. Guardò l'ora sul cellulare. Era ora di avviarsi.
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