Capitolo 26
"So di aver sbagliato, di aver lacerato il tuo cuore
E' questo quello che fanno i diavoli?
Ti ho portata così lontano, dove solo gli sciocchi vanno
Ho scosso l'angelo dentro di te!
Ora mi sto elevando al di sopra della massa
Mi sto elevando per arrivare a te!
Lo sento con tutta la forza che ho trovato
Non c'è nulla che io non possa fare!
Ho bisogno di sapere adesso, di sapere adesso
Puoi amarmi di nuovo?
Ho bisogno di sapere adesso, di sapere adesso"
John Newman - Love me again
Demi.
Quel nome, un grido nella sua mente straziata, richiamò un ricordo. Il suo viso dolce fluttuava beato, come una barca tra le onde. Un batter di ciglia e la barca s'infranse con lui a bordo.
Serena aprì gli occhi e l'incubo ebbe inizio. Il mondo che le franava addosso all'improvviso; la stanza che le girava intorno; le mani percorse da un tremolio incontrollabile; gli occhi in fiamme per via delle lacrime che non smettevano più di venire giù. Sperava si trattasse solo di un brutto sogno. Uno dei tanti. Aveva bisogno di sapere. Di risposte. Di un senso da dare a quello che era accaduto, ma, più di ogni altra cosa, si chiedeva perché.
All'incubo seguiva, poi, il dolore. Non esisteva un modo per farlo smettere; era sempre lì. Ovunque andasse. Ovunque guardasse. Ovunque si nascondesse. Era lì, a nutrirsi con le sue lacrime, per crescerle dentro fino al punto di inghiottirla. E non bastava neanche il conforto dei suoi amici a tenerlo a bada, continuava ad espandersi e a farle male. Un male indescrivibile, perché non esistono parole in grado di rappresentarne la ferocia, contenerne la furia, colmarne il vuoto che lascia dietro di sé. Una ferita che un giorno smetterà di sanguinare, ma che lascerà al suo posto una profonda cicatrice.
Per circa un anno, la vita di Serena aveva continuato il suo frenetico corso, rincorrendo le giornate tra lo studio e il lavoro. Adesso, invece, il tempo stava rallentando per stare al suo passo e non lasciarla indietro. A volte, l'accoglieva a bordo affinché raggiungesse più in fretta la destinazione. E quando il tempo ripartiva, lei non era pronta per giungere al capolinea.
Quando si perde qualcuno, viene spontaneo pensare al tempo. Si contano i giorni, le settimane, i mesi che sono passati da quando quel qualcuno ti ha lasciato. Così, hai la possibilità di allontanarti dal suo ricordo lentamente e di lasciarlo andare quando sarai pronto a dirgli addio. E dici addio anche al dolore.
Serena aveva fatto lo stesso, ma al contrario. Aveva riportato indietro le lancette del tempo, attraverso ricordi che le erano stati rubati, costringendosi a rivivere il passato con qualcuno che, però, non c'era già più.
"Non lo rivedrò mai più".
"Non gli parlerò mai più".
"Non tornerà mai più".
Serena non aveva mai odiato così tanto un avverbio in vita sua. Quei "mai più" avevano spezzato quella continuità invisibile del loro passato insieme con quel futuro che per loro non sarebbe mai esistito.
"Devo smettere di pensare a lui".
Parole mute ristagnavano nella sua testa con tono duro, ma sentì il suo cuore, congelato da un dolore sconfinato, sciogliersi all'improvviso e comprese che voleva ricordare, a dispetto della ragione. Si sentì contorcere lo stomaco. Urlò disperata, soffocando il dolore nel cuscino finché non si sentì meglio. Una volta affogate le lacrime nel ricordo dei suoi occhi azzurri, si preparò meccanicamente per andare all'università.
Al mattino era in balla; si trascinava per inerzia, il corpo da un lato e la mente dall'altra, come fossero due entità separate. Si sentiva stanca, apatica, demotivata. Persino camminare era diventato faticoso. Niente attirava la sua attenzione; tutto le sembrava insulso. L'essere una studentessa fuori sede aveva i suoi vantaggi. Serena non era costretta a esibire falsi sorrisi, per non essere continuamente tormentata. I suoi genitori si sarebbero preoccupati troppo e non l'avrebbero lasciata nemmeno respirare con le loro attenzioni.
Strascicò i suoi passi in cucina e vide Ester, in piedi accanto al tavolo, lanciarle la sua solita occhiatina di rammarico. Serena le restituì il suo sospiro più convincente, era così che comunicava negli ultimi tempi. Il silenzio, con il suo pulsante ticchettio, iniziò a farsi strada tra loro.
Ester la stava scrutando, come in cerca di un punto debole da annientare con una delle sue micidiali schiacciate. «Stai bene?»
La testa di Serena incominciò a scuotersi da sola, destra sinistra, destra sinistra, in preda a un cocktail di smarrimento e disperazione. Si sedette, senza risponderle. Non voleva parlare. Non ci riusciva.
Ester appoggiò i gomiti sul tavolo, prendendosi il viso tra le mani in modo che i suoi gentili occhi verdi fossero alla stessa altezza di quelli dell'amica. Serena sentiva addosso tutta la sua frustrazione, la voglia di scrollarla come un albero, nel tentativo di far cadere giù qualche parola. «Hai avuto un altro incubo?»
Serena spinse la schiena contro la spalliera della sedia, per allontanarsi da lei. Continuava ad essere silenziosa, le labbra serrate, come se il dolore si fosse liquefatto in colla e le avesse sigillate. I raggi del sole, poi, continuavano a inondare di luce e calore il suo corpo e la sua desolazione. Né Ester né il sole avevano la decenza di starle lontano. Eppure non era così difficile da capire. L'unica cosa di cui aveva un disperato bisogno era la solitudine, dalla quale si sarebbe fatta avvolgere come in una nuvola nera, dove poter confondere le lacrime con la pioggia. Si lasciò assalire da un forte senso di nausea al pensiero che il mondo là fuori lo avesse dimenticato.
«Ti va di raccontarlo?» le chiese Ester, avvicinandole una tazza di cappuccino appena fatto.
Serena meditò sul suono della sua voce per contenere il tormento dei ricordi che le si accalcavano nella mente. Il suo sguardo, invece, era intento a fissare il volto di qualcuno che non sarebbe più tornato. L'inquietudine che provava continuava a tormentarla senza tregua, ma non era l'unica a soffrire.
Da settimane, Ester condivideva il suo dolore, anche lei aveva perso qualcuno: la sua migliore amica. Sapeva che una parte di Serena, quella a cui piaceva farla sorridere e divertire, non abitava più lì con lei. Si era trattato di un distacco improvviso per entrambe, ma nessuna delle due si era preparata a quell'addio.
Serena dischiuse la bocca per poi richiuderla di scatto. «Ehm.»
«Non hai sentito la mia domanda, vero?»
Alzò la testa e vide lo sguardo di Ester carico di apprensione. Mise le mani intorno alla tazza calda, un brivido la percorse. Fece cenno di no.
«Hai chiamato mia madre?». Ester incrociò le braccia sul suo petto prosperoso.
Qualunque cosa le dicesse, Serena non era in grado di risponderle. Non riusciva a tirar fuori di bocca le parole, era come se la pashmina le si avvinghiasse lentamente al collo, asportandole l'aria dai polmoni.
«Perché non la chiami? Sere, hai veramente bisogno di aiuto. Non ho idea di cosa stai passando, ma stai peggiorando. Le cose si sistemeranno, vedrai. Parlane con qualcuno, se non con mia madre, fallo con me, con Emis o con chi ti pare. Ma fa qualcosa, santo cielo!»
Le cose non si sarebbero sistemate, perché non potevano tornare come prima. Lei non sarebbe tornata come prima. Si sarebbe accettata così, come un giocattolo rotto, con qualche parte mancante, ma che, per qualche scherzo del destino, funzionava ancora.
Demi, no.
Lui aveva smesso di funzionare.
Per sempre.
Non lo trovava giusto e soffrire era il prezzo che si era auto inflitta. Non aveva alcuna fretta di guarire, per quanto doloroso fosse conviverci. Si era dimenticata di lui. Aveva seppellito il suo ricordo dentro di sé, per un anno intero. Rimosso. Fino a quando qualcosa l'aveva tirato fuori, cambiando drasticamente la visione di quella che credeva fosse la realtà. Quella in cui Demi, a differenza dei ricordi, non avrebbe fatto più ritorno.
Serena si alzò, svuotò il suo cappuccino nel lavandino e abbandonò la cucina, senza dire una parola. Inforcò il corridoio e si sbatté la porta della sua camera alle spalle.
Caro Demi,
è trascorso un anno intero da quando sei andato via, ma per me è come se fosse passato un giorno soltanto. È come se tu fossi ancora qui, con me. Ti sento vicino, tanto da desiderare di stringerti forte tra le braccia. Sento la tua voce che mi dice quanto sei fortunato ad avermi accanto; sento le tue mani accarezzarmi la pelle, un brivido caldo che mi pervade di eccitazione; sento le tue labbra morbide sulle mie, due corpi che si accendono di passione, ma una sola anima che li guida verso l'amore.
Non sai quanto desideri che tutto questo torni a far parte della normalità. La nostra. Il destino ce l'ha strappata via, con una brutalità tale da non concedermi il tempo di accettarla. Come posso accettare la normalità, se tu non ci sei? Eri tu la mia normalità. E adesso?
Mi manchi così tanto, che spesso impugno il telefono, apro i contatti e il tuo è il primo della lista, sotto il nome di Amore. Premo il tasto di chiamata e attendo di ascoltare la tua voce che dice «ciao, non posso risponderti perché sono con la mia ragazza e tutto il mio tempo è per lei, quindi ritenta, ma non sarai fortunato». Quella che sento, però, è una voce metallica che m'informa che il numero da me selezionato non è più attivo.
Mi dispiace, Demi.
Mi dispiace di essermi dimenticata di te, di averti cancellato per puro egoismo. Per non dover soffrire e farmi carico di un dolore devastante che mi avrebbe uccisa, senza sapere che la vera vittima eri tu. Ti ho ferito e non lo meritavi.
Ci sono giorni in cui mi sento a pezzi, ma non lo confido a nessuno. Mi limito a nascondermi, per scappare da tutto e tutti. L'unico da cui vorrei essere trovata sei tu.
Vorrei avere, anche se per un solo istante, la possibilità di perdermi nell'azzurro infinito dei tuoi occhi e rivivere ciò che siamo stati. Ma il destino non mi permette di sconvolgere i suoi piani, riportando il tempo nell'attimo in cui il nostro cammino insieme si è interrotto. Quella strada l'ho percorsa, ma da sola. Tu non c'eri ed io mi sono persa. Un giorno, forse, mi ritroverai e, intanto, continuo a camminare anche se non ne ho la forza.
Un bacio, ovunque tu sia.
La tua Sere.
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