Frequency

Era un vizio che non riuscivo a togliermi.

Strappare le pellicine ai lati delle unghie era qualcosa che avevo imparato a fare da adolescente senza neanche rendermene conto. Mi era venuto naturale dopo la morte di mia nonna, quando al suo funerale le lacrime avevano smesso di scorrermi lungo le guance e i singhiozzi mi si erano ancorati alla gola.

E allora, mentre il prete pronunciava l'ultima orazione e mio padre usciva dalla chiesa a testa bassa e pugni serrati, io avevo stretto i denti attorno a quei piccoli pezzi di pelle che spiccavano impavidi sulla punta delle mie dita e avevo tirato, tirato e tirato ancora.

Le mie mani non erano mai state molto curate. Preferivo lasciarle al naturale, anche perché ero sempre stata abituata ad andare in mezzo ai campi, a scavare nella terra con mia nonna alla ricerca dell'ennesimo insetto per la sua collezione. Mettere degli smalti colorati come facevano tutte le mie amiche non era una mia priorità.

Quel giorno, però, dopo il funerale, ero entrata nel primo centro estetico che avevo incontrato lungo la via di casa e mi ero fatta mettere uno smalto di un rosso acceso e brillante in modo da camuffare anche tutte le croste e le escoriazioni che mi ero provocata.

Credevo fosse solo il capriccio di un momento, ma col tempo era diventata per me una consuetudine andare ogni mese dall'estetista, scegliere il solito smalto rosso, sorridere imbarazzata ai commenti che ne seguivano, "dovresti cambiare...non ti sei stufata?", "guarda come ti sei ridotta le dita!", "Ci mettiamo un po' di questo?", rispondere sempre che no, mi piacevano così com'erano, di quel rosso sangue brillante.

Mi ero abituata a tante altre cose dopo la scomparsa di nonna.

Allo smalto, alle pellicine, alle notti insonni passate a guardare il soffitto bianco della mia camera, a quella farfalla nera incorniciata che mi ero portata via da casa sua e che avevo appeso alla parete.

Era la sua preferita, nonostante fosse di una banalità sgradevole. Diceva che mi assomigliava e che per questo le aveva riservato la posizione d'onore in mezzo a tutte le altre molto più belle, sgargianti, grandi e rare.

Mi ero ritrovata a fissarla di tanto in tanto, a cercarci me stessa dentro quelle venature e quelle scaglie che giorno dopo giorno sbiadivano un po' di più, a rincorrere quelle trasparenze ormai prive di vibrazioni, a perdermi dentro quelle sfumature bluastre e violacee che solo con la giusta luce si lasciavano ammirare.

E alla fine una Mia, là dentro, ce l'avevo trovata davvero. Ma una che stentavo anche io a riconoscere.

Nelle mie dita martoriate, nei miei occhi spenti, nelle mie risate false, nelle lacrime che non riuscivo più a versare, nelle parole che non ero più in grado di pronunciare, esisteva una Mia che aveva rimpiazzato quella farfalla nera scolorita dal tempo.

«Mia...» Alessandro, distante e ovattato, forse da un universo parallelo, continuava a pronunciare il mio nome. «Mi dispiace, credevo che lui ti avesse già lasciata...»

I denti sull'ennesima pellicina, le mani che avevano smesso di tremare.

Nulla.

Il vento che mi accarezzava i capelli, che si insinuava sotto la mia maglietta.

Ancora nulla.

La Luna che, placida, spiccava indisturbata in quel meraviglioso lembo di cielo tempestato di stelle.

Nulla.

Marco.

Marco che mi baciava, che mi pizzicava una guancia. Marco che diceva di amarmi, che mi apriva la portiera della sua stupida Mini verde bottiglia, "Prego, principessa". Marco che mi versava l'ennesimo bicchiere di vino, che rideva e mi abbracciava.

Nulla.

Gli occhi di quel ragazzo che, dall'altra parte della strada, non accennavano a lasciarmi andare.

Nulla. Perché era questo quello che sentivo e intanto le parole di Alessandro non smettevano di rimbombarmi dentro. "Ingenua".

E avrebbero dovuto farmi male, squarciarmi come una lama sottile, bagnarmi le guance di calde lacrime mentre con unghie affilate avrebbero dovuto grattarmi via la voce, rendermela roca.

O almeno questo era quello che speravo.

Nulla. E allora io mi mordevo le dita, ché quel giorno, assieme a mia nonna, ero morta un po' anche io.

«Tu lascia che io lo incontri...giuro che lo ammazzo!»

«Ale...» sospirai, sconfitta, «Va bene così, davvero». Mi alzai dal gradino, i lunghi capelli neri che mi caddero davanti al volto in una cascata di catrame. Avrei dovuto tagliarli, prima o poi.

«No, che non va bene!»

«Invece sì e tu lo sai benissimo».

Un pulsante, rosso come il mio smalto sbeccato, e la voce del mio amico si perse nella quiete di quella notte.

Mi spolverai con le mani il pigiama, sconsolata. Mi piaceva così tanto e avevo notato che alcuni fili erano stati tirati.

Ci ero rimasta particolarmente male, per quei quattro fili fuori posto. Ed era buffa e decisamente inopportuna quella tristezza impressa nel mio sguardo mentre, testarda come lo ero sempre stata, continuavo a tirare il tessuto della camicetta sperando si aggiustasse da solo.

Era buffa e dannatamente, irrimediabilmente, sconvenientemente l'unica cosa che in quel momento ero in grado di provare.

Perché le mie emozioni si erano bloccate lì, sulla punta delle mie dita torturate, e io non ero più capace di trovar loro un posto più adeguato.

Così, con un sorriso amaro che aveva arricciato miseramente le mie labbra, mi voltai a guardare quel ragazzo dall'altra parte del torii che, nel frattempo, non aveva mai smesso di fissarmi.

Sembrava curioso, gli occhi verdi che, sotto la luce del lampione, non sembravano poi tanto diversi da un bosco in pieno autunno. Erano vibranti, vivi, pieni.

Se ne stava appoggiato alla sua moto con le braccia strette al petto e l'espressione calma di chi ha tutta una vita davanti. Come se a lui, il tempo, non lo sfiorasse nemmeno.

«Il mio ragazzo mi ha tradita» gli dissi alzando le spalle con indifferenza, per poi iniziare a salire un gradino alla volta, i piedi che non mi facevano più male.

Nulla in quell'assordante apatia. Neanche pronunciarlo mi aveva smosso.

«Beh», sentii, una voce di una profondità disarmante, «Mi dispiace molto...»

Nulla.

Eppure. Eppure qualcosa di impercettibile, piccolissima, aveva squarciato l'aria.

E il vento aveva ripreso a puntellare la mia pelle di brividi.

Nulla.

E le mani avevano ricominciato a tremare.

Nulla.

E i piedi a farmi male.

«Ma tu...» sussurrai, forse più a me stessa che a lui, «Parli italiano».

Aveva un ghigno divertito a storpiargli i lineamenti delicati da asiatico, a farsi largo tra i capelli castani e gli occhi verdi, tra la frangia macchiata da ciocche rosse e i dilatatori ai lobi.

«A quanto pare...» si limitò a dire distanziandosi con un colpo di reni dalla moto. Si avvicinò di poco, ondeggiando svogliatamente sulle gambe magre ricoperte dai jeans neri strappati. «Buonanotte» e tirò fuori dalla tasca della giacca di pelle delle chiavi il cui tintinnio, in quella quiete onirica, risuonò per tutto il vicinato.

Girò in direzione della piccola casa che si trovava proprio di fronte al tempio e, con gesti lenti e pesati, aprì la serratura.

Prima di vederlo sparire nel buio dell'abitazione, urlai l'unica domanda che in quel momento, forse, non aveva davvero senso.

«Come ti chiami?»

Lui si bloccò, sorpreso, poi sorrise appena. «Yuki».

Così, sotto la luce della Luna, ci rimasi solo io.

Mi rigirai il suo nome sulla lingua per tutti i cinquanta gradini che mi distanziavano dal santuario. Era un suono soave, leggero, semplice, candido come il suo significato, "neve". 

Risi, intrigata da quella breve conversazione che mi aveva lasciato soltanto un nome in bocca. Risi, perché, quella notte, era l'unica cosa che mi era rimasta da fare.

Arrivata in cima alla scalinata imboccai verso una strada diversa da quella che portava alla mia camera.

E non saprei spiegare il motivo per il quale mi intrufolai nella stanza di Kiku, ma fin dal nostro primo incontro mi aveva infuso una calma innaturale che difficilmente avevo sentito prima.

Solo la nonna ci riusciva, quando con entusiasmo mi spiegava come funzionavano i suoi amati insetti, come si articolavano le zampe, come erano composti gli occhi, quali strategie di caccia adottavano, cosa mangiavano. E io non ce la facevo a non pensare che non potessero esistere momenti più perfetti di quello.

Mi addormentai rannicchiata ai piedi dell'altarino di Kiku.

And now the silence screams that you are gone

You've tuned me out

I've lost your frequency

Le cuffie nelle orecchie e Frequency a risuonare in un loop infinito.

Buonasera lettori!

Vi consiglio vivamente di ascoltare la canzone che ascolta Mia alla fine del capitolo. Si intitola Frequency, è degli Starset e penso che sia la colonna sonora perfetta per questa parte. Spero vi piaccia! 

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