Fragile

Un foglio ingiallito dal tempo. Una calligrafia maniacale nella sua precisione. Tre regole.

Rispetta gli orari. Rispetta il luogo di culto. Rispetta la cultura giapponese.

E io le avevo infrante tutte e tre il primo giorno che ero arrivata al tempio, in quella che ancora per un po' avrei chiamato "casa".

Avevo tardato di un'ora rispetto a quanto avevo comunicato a Miyagi, così al mio arrivo non avevo trovato nessuno ad aspettarmi. Con le scarpe sporche di terra, le rotelle della valigia a rigare il parquet, mi ero intrufolata nei corridoi di quel tempio immacolato alla ricerca di una qualsiasi forma di vita.

Mi aveva colpito fin da subito l'aria leggera, impalpabile, che circondava e avvolgeva come un manto protettivo la struttura. Aveva un non so che di onirico, a tal punto da insinuarmi il dubbio che magari stessi sognando.

Il giardino, l'erbetta incolta, selvaggia, ma allo stesso tempo così giapponese, mai di troppo e perfetta nella sua naturalità, le aiuole e i loro fiori sgargianti, luminosi, le venature raffinate del legno, il profumo acre della foresta vicino, l'acqua nel catino pura come quella di alta montagna, le cicale in lontananza, il loro frinire regolare che scandiva i miei passi incerti in un paesaggio contro cui mi sentivo cozzare violentemente.

Sbagliata.

Era una sensazione che conoscevo bene. E quel luogo me lo aveva gridato in pieno volto.

Strinsi il manico della valigia con una mano, l'altra ero impegnata a martoriarmela coi denti, e aprii lentamente la prima porta che mi trovai vicino.

Kiku era lì, in tutta la sua candida bellezza, che troneggiava sulla cima del suo altarino decorato da vasi colmi di fiori e intarsi scolpiti nel mogano scuro. E mi guardava sorridendo, come se avesse capito il mio stato d'animo, come a dirmi che andava tutto bene, che io andavo bene anche così, nelle mie scarpe di tela infangate e nelle mie dita rosse di sangue.

Mi avvicinai con garbo, i jeans che mi si erano appiccicati alle gambe, e la osservai con gli occhi pieni di meraviglia. Era giovane, sorridente, leggera nel suo vestito bianco. Guardava dritta nell'obbiettivo con la testa alta e una mano tra i capelli svolazzanti, lunghi e neri, lucidi. Sprigionava vita.

Ancora non sapevo come fosse morta, all'agenzia non me lo avevano voluto dire. "Te lo diranno loro, se vorranno", avevano liquidato la questione così, quasi fosse una realtà scomoda.

E mentre me ne stavo imbambolata davanti a lei, stretta alla mia maglietta di Gucci un po' troppo larga, una bambina, seguita a ruota da un'altra che si nascondeva dietro la sua minuta figura, aveva fatto il suo ingresso in quella stanza.

Hana e Nami. Come alberi di ciliegio in fiore, erano uno spettacolo di fragilità e incanto. Piccole nelle uniformi scolastiche, delicate, le guance rosse e gli occhi grandi pieni di curiosità, bloccate sui loro passi in una stanza che per loro doveva essere un covo di rovi, mi avevano fissata con sorpresa e imbarazzo.

Poi era arrivato Miyagi, solenne nel suo chimono scuro, e io, intimorita, mi ero arrampicata con lo sguardo fino ai suoi occhi severi dove avevo ritrovato quella stessa sfumatura che si era incastrata in quelli di Kiku. Una pagliuzza dorata che spiccava tra le dune di catrame delle loro iridi. Non si somigliavano per nulla se non per quel minuscolo particolare.

Rigido dentro le sue vesti pesanti, il vecchio mi aveva squadrata con disapprovazione e alla fine aveva indicato con fare severo le mie scarpe e i segni che la valigia aveva inciso sul tatami, prima di sparire dalla mia vista e tornare poco dopo con delle pattine e un foglio scolorito.

Tre semplici, banalissime, regole e io le avevo infrante tutte, una ad una. E avrei continuato a farlo.

Perché quel giorno, quando con occhi spalancati carichi di speranza, le mani calde appesantite dagli anelli, il labbro inferiore stretto tra i denti e quelle ciglia piene di mascara che sfarfallavano senza ritegno, Sakura mi aveva chiesto di accompagnarla al pub il sabato sera seguente violando così il coprifuoco, non ero riuscita a dirle di no.

«Ti vengo a prendere io, va bene?» mi aveva chiesto con un sorriso riconoscente e io avevo annuito, codarda, debole, incapace di non farmi trascinare dagli altri.

Ero uscita dal mini market con le spalle basse e un senso di colpa che non sembrava voler lasciar andare la mia gola.

Mentre camminavo fino alla stazione trascinando svogliata i piedi sulla stradina di ciottoli, il cellulare squillò.

«Pronto?» dissi comunque, pur avendo letto il nome del contatto.

«Mia, si può sapere perché non chiami mai? Mi fai stare in pensiero così...»

Sospirai, il cielo sopra di me era limpido, nessuna nuvola all'orizzonte.

«Ma', quante volte ancora te lo devo dire che al tempio il cellulare non mi prende?» pronunciai sfibrata lisciandomi una ciocca di capelli con la mano.

Dall'altro capo del telefono mia madre pronunciò, distratta, una serie di parole che non capii. Non si stava rivolgendo a me.

«Insomma, dicevamo, perché non mi chiami mai? Allora?»

Ogni tanto, vicino a me, qualche signora vestita con abiti lunghi dalle stampe floreali proseguiva per la sua strada non mancando di osservarmi incuriosita. «Non mi prende il cellulare...» sussurrai coprendomi la bocca con la mano.

«Perché parli così piano? Che stai facendo?»

Non era mai stata brava a dissociarsi dal suo lavoro neanche in momenti come quello. Domande e falsi imperativi che si susseguivano senza un ordine ben preciso solo per far scena.

I miei occhi si proiettarono lontani, là dove le cicale avevano iniziato a frinire, «Qui è maleducazione parlare a voce alta».

«Ho capito, ma io non ti sento così! Alza la voce. Come va? Hai mangiato? Sempre salmone e tofu per colazione?»

«Sì, ma', è tradizione». Imboccai una via traversa e continuai a camminare, le cuffie che mi penzolavano al lato della gonna. Quanto mi sarebbe piaciuto potermele infilare nelle orecchie e alzare il volume fino a rompermi i timpani.

«Vabbè...quando torni?»

Non lo aveva mai davvero accettato, il fatto che fossi partita. Si era limitata a lasciar correre passivamente la questione, come per tutte le risposte che le davo. Qualsiasi cosa dicessi non faceva differenza, «Non lo so...»

Ancora voci in sottofondo, lei che rispondeva brevemente e scocciata. «Tesoro, scusa, ma ora devo andare», la solita disattenzione, le solite scuse. Era sempre stata più brava come avvocato che come madre. Se solo ci avesse messo la stessa volontà che metteva nelle sue cause, probabilmente io, in Giappone, non ci avrei mai messo piede.

«Ok, a dopo.»

«Ah!» Aveva una voce così soave, femminile. «Mia?» così tanto fragile.

«Che c'è?»

«Quando torni?» Così insicura.

«Non ora...»

Così persa.

«Va bene. Buona giornata.»

Mi ero sempre chiesta come avesse fatto a diventare brava nella sua professione, a essere convincente nelle sue motivazioni. Perché con me non lo era stata mai, neanche una volta.

Sorrisi, amara, prima di schiacciare il pulsante e chiudere la telefonata. Era tutta sua quella parte di me debole e perennemente esitante, quella parte fatta di parole mezze dette, di gesti troncati a metà, di musica nelle orecchie e mani inferme alla ricerca dell'ennesimo appiglio.

Arrivata alla banchina mi sedetti gettandomi a peso morto sul ferro duro di una delle sedie. Il signore al mio fianco sobbalzò appena per poi prendere le sue cose e allontanarsi con fare schivo.

Inforcai le mie inseparabili cuffiette e lasciai che il Sole, pieno e vibrante, baciasse le mie guance accaldate.

Un bambino davanti a me se ne stava con il suo cappellino giallo e blu e la sua cartella ad aspettare il treno, sua madre lo teneva per mano. In sottofondo l'altoparlante della stazione annunciava l'arrivo del treno.

Mi ero appena alzata, quando il mio cellulare vibrò brevemente. Un messaggio.

I vagoni avevano iniziato a sfrecciare uno dietro l'altro di fronte a me, serrati, puliti, lucidissimi, poi si erano fermati. I passeggeri si erano fatti avanti, tutti in fila indiana aspettavano il loro turno per entrare. Tornai a guardare il cellulare.

No che non va bene.

Lo schermo si illuminò di nuovo. Era sempre Alessandro.

P.S. Gli ho rotto il naso.

Il treno aveva ricominciato a muoversi, le porte ormai chiuse. Con dita tremolanti digitai una lettera dietro l'altra. E invece a me andava bene così. Sei un coglione.

Completamente svuotata, tornai a sedermi nello stesso posto di prima. I gomiti sulle ginocchia, il busto piegato in avanti, le mani abbandonate. Lo smalto sbeccato che stavo iniziando a pensare mi stesse bene, in quel momento, mi infastidì più di ogni altra cosa.


Note dell'autrice

Salve cari lettori, ne è passato di tempo, vero? Tra vacanze, esami e blocco dello scrittore non sono riuscita a pubblicare prima. Ho fatto davvero molta fatica a scrivere questo capitolo, infatti è particolarmente breve, me ne rendo conto, ma spero vi possa comunque piacere. Abbiate pazienza con me, sono una causa persa forse più di Mia.

A presto, con affetto,

Laura

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