Al di là del cielo

Alessitimia. Analfabetismo emotivo.

L'avevo scoperto una mattina come tante mentre, annoiata dalla lezione di matematica, mi ero ritrovata a navigare nei meandri di internet alla ricerca di una spiegazione per quel vuoto che sentivo dentro. Mi sarei accontentata di qualsiasi cosa, che fosse stata una realtà o una bugia poco mi importava.

A dirla tutta, in quel periodo, non mi importava più di niente. Avevo iniziato ad accontentarmi di sorrisi di circostanza, baci privi di affetto, frasi già dette e già sentite, sguardi che gridavano sommessamente una compassione non richiesta, e alla fine era diventata un'abitudine.

Avevo cercato un nome, un aggettivo, qualcosa che semplicemente potesse definirmi un po' meglio di come avrei potuto fare io stessa. E alla fine l'avevo trovato.

Alessitimia. Un disturbo psicologico che porta all'incapacità di riconoscere ed esprimere il proprio stato emotivo.

Avevo fissato il frutto delle mie ricerche con sguardo assente fino a quando la voce squillante della supplente non mi aveva riportata con i piedi per terra.

L'avevo trovata, la risposta che tanto avevo agognato, eppure non sapevo cosa farmene.

Così avevo messo nuovamente in tasca il cellulare ed ero uscita dalla classe con la scusa di dover andare in bagno, gli occhi indagatori dei miei amici che non smettevano di marchiarmi la pelle.

Una volta fuori, la strada che percorsi mi portò da tutt'altra parte rispetto al bagno.

Dietro il muro esterno della scuola, tra incrostazioni di muschio e muffa, mi ero seduta su uno dei gradini della scala di servizio antiincendio e mi ero accesa una sigaretta.

Non che mi piacesse davvero il sapore del tabacco, ma mi sembrava di poterci trovare sempre un po' di pace dentro. Aspiravo con voracità e poi, con una fretta travestita da calma, buttavo fuori il fumo pregando i miei polmoni di fare il più in fretta possibile.

Non ero mai stata immune dal meccanismo malsano che si cela dietro ogni vizio umano: più ti fa male e più ne vuoi.

Così di tanto in tanto, nei momenti morti delle mie giornate, decidevo volutamente di gettarmi nell'abbraccio vaporoso della nicotina bruciata.

Nuvole di fumo scuro si sollevavano lentamente nell'aria condensata della prima ora del venerdì di un comunissimo giorno di scuola.

«Ecco dove ti eri cacciata!»

La voce felina e maliziosa di Giulia interruppe il viaggio meccanico della sigaretta verso le mie labbra.

Senza chiedere il permesso, si sedette svogliatamente al mio fianco e con disinvoltura mi sfilò la cicca dalle dita e aspirò l'ultimo, ambito, tiro.

Giulia era fatta così. Si prendeva ciò che voleva con una naturalità e una leggerezza che, tutt'ora, inevitabilmente, non riuscirei ad attribuire ad altri se non a lei.

Dita scheletriche, braccia sottili, capelli dorati che filtravano la luce del Sole come soltanto i campi di grano sanno fare, occhi di un blu scuro ipnotizzante, rossetto rosso a contornare labbra affilate dal contorno sbiadito, sguardo rivolto sempre in alto alla ricerca di un appiglio da una realtà scomoda e stretta che, a "quelli come noi", non sarebbe mai stato concesso.

Giulia Troiani era questo e mille altre sfumature di vizi, paranoie e disturbi psicosomatici da cui aveva deciso di farsi, spensieratamente, soggiogare.

Eppure era proprio lì che si annidava il suo fascino misterioso, tra difetti difficili da digerire e un volto spigoloso da bambina cresciuta troppo in fretta.

«Marco è preoccupato per te...ti vede assente...» disse senza preoccuparsi di dissimulare la nota di rimprovero che le aveva incrinato la voce. Perché tutto ciò che riguardava Marco la toccava sempre troppo nel personale.

«Mmm...»

Non avevo il coraggio di affrontare quell'argomento rimasto incastrato nella tasca dei miei costosi jeans di marca come l'ultimo feto non voluto del mondo.

Continuai a rigirarmi le parole in bocca senza riuscire a trovare una scusa plausibile con cui liquidare la questione e alla fine, stanca di aspettare, Giulia tirò fuori una sigaretta dalla manica del suo pullover.

«Non serve che ti sforzi tanto con me...» si lasciò scivolare fuori dalle labbra scure assieme a una scia di vapore grigio. «Io lo dicevo per Marco, lo sai.»

Il mio ragazzo le piaceva dai tempi delle elementari, quando andavano in classe insieme e si fermavano a giocare l'uno a casa dell'altra nei pomeriggi dopo la scuola. E alle medie si erano messi insieme per poi lasciarsi poco tempo dopo, perché Marco si era reso conto di non provare nulla per lei.

Ma Giulia era testarda e, soprattutto, troppo affezionata a lui per lasciarlo andare del tutto. Così aveva preferito fingere, fingere che la cotta le fosse passata e che il ruolo di amica le andasse bene.

«In fondo è giusto che ognuno abbia i suoi segreti...» confermò dopo un po' più a sé stessa che a me. Fece un altro tiro poi mi allungò la sigaretta, che io accettai ben volentieri.

Rimanemmo in silenzio per un po' rintanandoci maldestramente nei nostri maglioni troppo leggeri per quel vento rigido completamente disinteressato nei nostri confronti.

«Ti sei mai chiesta cosa ci sia al di là del cielo?»

Era una conversazione ben lontana dalla pretesa di avere un senso. Io e Giulia non avevamo molto in comune, nessun terreno fertile dove poter affondare insieme le nostre radici, perciò spesso ci calavamo in argomenti strampalati e completamente decontestualizzati. Era l'unico modo che avevamo per incontrarci davvero.

«L'universo?» risposi senza rifletterci.

La mia amica schioccò la lingua contro il palato, la sigaretta lasciata a marcire tra i polpastrelli della mano destra. «Banale.»

Un ghigno divertito squarciò l'impassibilità del mio volto, «Un'orda di panda amanti dei dolci e della glicemia oltre i limiti stabiliti dalla scienza.»

Alla mia risposta lei sorrise continuando a guardare davanti a sé.

«Per me c'è solo una coltre impenetrabile di nuvole di zucchero filato rosa.»

Ci fu una pausa.

«Perché proprio rosa?» chiesi innocuamente.

Giulia si voltò verso di me, mi osservò un attimo dall'alto del suo nasino alla francese e poi affermò convinta: «Perché gli altri colori mi fanno cagare.»

Ridemmo di quello scambio di battute prive di un capo e di una coda e alla fine ci alzammo dal gradino che a contatto coi nostri corpi si era scaldato fin troppo poco.

«Dai, rientriamo prima che quella stronza della Bellini ci metta una nota» disse, ma poi si bloccò prendendomi per un braccio e trascinandomi dall'altra parte del cortile, le mani congelate, «Però prima accompagnami a comprare i Mikado alla macchinetta, ché a furia di parlare di dolci mi è venuta fame!»

Mi soffermai su quella esclamazione uscita precipitosamente dalla sua bocca più del dovuto. Lei se ne accorse subito, perché, sebbene fosse brava a dissimularlo, Giulia era sempre morbosamente attenta a ciò che la circondava.

Ricordo tutt'oggi, con una vividezza impressionante, il modo leggero con cui buttò indietro la testa sorridendo allegra per poi dire, come fosse stata la cosa più banale del mondo: «Guarda che anche le anoressiche a volte hanno fame!»

Avrei voluto avere lo stesso coraggio, la stessa naturalezza che aveva Giulia nel parlare dei suoi problemi senza nascondersi dietro muri di carta velina. Perché quello che io mi ero pigramente e codardamente limitata a fare era stato relegare i miei problemi dentro la tasca di un jeans e far finta di dimenticarmene.

E così, mentre mi pettinavo i capelli, senza uno specchio in cui poter vedere se ero riuscita a districarli o meno, non potei frenarmi dal ripensare a qualche pomeriggio prima, al fatto che se solo ci fosse stata Giulia al mio posto avrebbe sicuramente saputo come far tornare il sorriso alle bambine.

Io invece non ce l'avevo fatta e come un cane bastonato avevo preso per mano Hana e Nami e le avevo allontanate dagli sguardi indagatori di quelle donne, mentre in sottofondo, sparata nelle loro orecchie, continuava risuonare Kuroi Namida.

Buttai un occhio sul cellulare. L'orario segnava le dieci di sera, un'ora oltre il mio coprifuoco.

Mi alzai dal futon e andai a recuperare gli anfibi, abbandonati alla rinfusa in un angolo della stanza, la suola rivolta in alto per non sporcare il tatami.

Un piede fuori, poi anche l'altro.

Miyagi era ancora sveglio. Avevo visto la fioca luce della cucina risaltare mesta sui ciuffi d'erba della parte più interna del giardino e allora mi ero acquattata al suolo, le ginocchia che strusciavano contro la terra arida e il vestitino, già corto di suo, che minacciava di mostrare al mondo le mie grazie al primo passo falso.

Quando arrivai ai gradini tirai un sospiro di sollievo. Mi voltai un'ultima volta.

La luce accesa, in quel momento, proiettava l'ombra sottile di Miyagi contro il muro dell'altra ala del tempio. Aveva una tazza in mano e, di tanto in tanto, se la portava alla bocca, svogliato.

Aveva un ché di nostalgico, la sua figura immobile persa, probabilmente, a fissare il vuoto.

Scesi i gradini di corsa lasciandomi alle spalle Miyagi e le sue regole. Non avevo tempo per i sensi di colpa.

Sotto al grande torii, poggiata a una delle colonne, cercai nel cellulare un nome ben preciso. Lo pigiai e attesi.

Uno, due, tre squilli. Pregavo non rispondesse, che ignorasse la mia improvvisa voglia di parlare. Ma Giulia non era codarda come me.

«Qual buon vento!»

Allegra. Perché così era e sarebbe sempre rimasta, anche a costo di sembrare stupida.

«Come stai?» le domandai carezzando la superficie rugosa della colonna.

Attesi un po', giusto il tempo per sentire il respiro di Giulia appesantirsi. «Al solito... te?»

Avrei dovuto risponderle allo stesso modo, continuare a fingere, ma qualcosa, anche se non ne ero pienamente cosciente all'epoca, si era irrimediabilmente incrinato.

«Giulia, Marco mi ha tradita...» buttai fuori strappando con le unghie pezzi di intonaco e me stessa.

Non cercavo la redenzione.

Mi sarebbe andato bene anche scendere all'inferno assieme a tutti i miei peccati.

Una risposta. Solo quello mi bastava, affinché io potessi mettere anche lei nella tasca dei miei jeans.

«Lo so, ovviamente.»

La sentii sospirare, prendere fiato e buttarlo fuori assieme alla sua sigaretta, proprio come quando andavamo al liceo. «Ehi Mia...secondo te cosa c'è al di là del cielo?»

A quella domanda, un sorriso amaro scavò il suo posto sul mio viso pallido nascosto dal fard. Puntai gli occhi verso il cielo del Giappone.

Anche quella sera era pieno di stelle.

«Una coltre di zucchero filato rosa?» chiesi.

Giulia schioccò la lingua contro il palato in quel suo tic nervoso che la faceva sembrare sempre un po' piena di sé. «Banale.»

Non c'era più spazio per i nostri discorsi senza capo né coda, per le nostre chiacchiere infantili e quel terreno fertile dove poter crescere insieme. Mi portai un dito alle labbra, quella pellicina era lì da troppo tempo.

«Un mare di bugie» sputai fuori assieme a quel pezzo di pelle che mi ero strappata con forza.

Sentii Giulia ghignare con rammarico. Dovevo essere io quella triste, ma ancora una volta non ci riuscii.

Lasciai a lei il compito di dispiacersi anche per me.

Prima di attaccare, percepii la voce di quella che non avrei più potuto chiamare amica, farsi strada nel silenzio della notte, tra cicale e scricchiolii di rami sotto il peso di qualche uccello. «Mi dispiace.»

Guardai la luna ancora per un po', il dito in bocca a succhiare via via tutte le mie emozioni fasulle, mentre aspettavo che Sakura venisse a prendermi.

Se qualcuno in quel momento mi avesse chiesto che sapore ha la verità non avrei avuto dubbi: sangue.


Note dell'autrice

Buonasera cari lettori. Questo è stato un capitolo difficile da scrivere, perché a trattare di argomenti così delicati come i disturbi psicologici si rischia sempre di sbagliare. Ho cercato di fare del mio meglio anche per cercare di rispondere a una domanda che probabilmente in molti vi siete fatti: cosa si cela dietro il vuoto di Mia? Ringrazio la mia amica tylago per avermi aperto gli occhi sulla necessità di concretizzare finalmente il dolore di Mia con un nome ben preciso. Spero di esserci riuscita e di non aver offeso le persone che soffrono di questo disturbo con il mio personaggio.

A presto, Laura.

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