A metà

Dai la cera, togli la cera.

Karate Kid era uno dei miei film preferiti quando ero piccola, quando sognavo di poter incontrare anche io un simpatico vecchietto giapponese che mi insegnasse le mosse necessarie per mettere al tappeto chiunque si parasse sulla mia strada.

Il respiro, lo prendi con il naso e lo emetti dalla bocca.

Mai avrei pensato che quel sogno si sarebbe realizzato, prima o poi, anche se diversamente da come mi aspettavo.

Dai la cera, togli la cera.

Le parole del vecchio Miyagi continuavano a rimbombarmi nella testa mentre io, imperterrita, facevo scivolare il panno lungo le travi di legno. Disegnavo ampi cerchi, passavo più volte sullo stesso punto con una meticolosità che avevo imparato a fare mia.

Alcune ciocche di capelli mi caddero davanti agli occhi e si incollarono alla mia fronte, ormai madida di sudore. Le scostai, stizzita, per poi fare un profondo respiro. Era la ventesima volta che ripetevo quel gesto, l'ennesima che testarda mi convincevo a continuare.

Intinsi nuovamente lo straccio nella cera per poi passarlo sul legno scuro. Piano, lentamente. Seguivo le venature, morbide e perfette, le assecondavo, le ascoltavo. C'era un silenzio surreale attorno a me, squarciato, di tanto in tanto, solo dal rumore del caldo vento pomeridiano tra le fronde degli alberi.

Ci stavo mettendo cura e dedizione, cercavo di sgomberare i pensieri, di calarmi nel presente.

Nella mia mente, vicino al tono soave del maestro, tuonò all'improvviso il mio, forte e acuto: "Voglio essere anche io una ragazza alla pari" diceva e io a quelle parole mi irrigidii inevitabilmente.

Strizzai il panno e piegai la testa, le sopracciglia che si increspavano in tante rughe sottili, la bocca che si piegava all'ingiù e la mia calma che andava a farsi benedire.

Non dimenticare il respiro, è molto importante.

Inspirai e poi espirai, provai a buttare fuori con l'aria anche tutta la tensione che si era impadronita di me, che aveva reso meccanici i miei movimenti. Presi lo strofinaccio pulito e lo trascinai sull'asse, proprio lì dove avevo appena dato il lucido.

"Me ne vado in Giappone."

L'avevo detto davvero e con una convinzione che non mi era mai appartenuta.

Eppure la mia ribellione ci aveva impiegato poco ad incastrarsi tra le spaccature di quella trave di legno che sorreggeva uno sperduto santuario shintoista nel bel mezzo del Giappone, dimenticato da tutti, perfino dai suoi stessi dei.

Buttai il panno per terra, delusa, amareggiata da una volontà che sapeva sfiorire fin troppo in fretta.

«Mia!»

Il mio nome, sputato con una punta di rabbia e acidità, mi raggiunse da lontano e istintivamente mi voltai.

Miyagi.

Non saprei dire se fosse stato solo uno strano scherzo del destino o se invece fosse stata una fortuita casualità, ma il vecchio sacerdote del tempio in cui ero finita a fare da babysitter si chiamava proprio così. E no, non era un simpatico vecchietto giapponese come il suo omonimo.

Nonostante fosse anziano, anche più dell'originale, non smettevo mai di stupirmi di quanto fosse sorprendentemente veloce, agile e scattante. Non ci mise che pochi secondi a raggiungermi, infastidito, mentre gesticolava furiosamente in aria.

Indicò prima il barattolo con la cera e in seguito l'ala del corridoio che dovevo ancora lucidare. Mi aveva lasciato tre ore prima in quell'esatto punto e da allora non mi ero mossa di molto. Avevo solo lustrato tre assi e per me era già un gran risultato.

Continuava a parlare, "scansafatiche", "pulire", "cosa hai fatto finora?", erano alcuni dei vocaboli che avevo imparato a comprendere. Pareva stesse recitando una preghiera. Il suo era un monologo serrato e senza fine, non alzava mai troppo la voce, neanche quando mi mandava a quel paese per vie traverse, senza mai utilizzare parole profane che avrebbero sporcato quel luogo di culto.

Mi limitai a fare spallucce e abbassare la testa, non avevo nessuna scusa né tantomeno alcuna giustificazione. In fondo non ero abituata a lavorare e stavo cercando comunque di fare del mio meglio, quantomeno ci stavo provando. Le intenzioni c'erano tutte.

«Le bambine» pronunciò d'un tratto dopo essersi calmato e io mi illuminai. Annuii e mi diressi verso l'uscita.

Fino a qualche settimana prima tendevo a perdermi, là dentro. Non era particolarmente grande come tempio ma era tutto uguale: un'austera struttura ricoperta di legno da cima a fondo con numerose stanze e altrettanti corridoi che si intrecciavano e si snodavano con un ordine a me sconosciuto.

Ma era quasi passato un mese da quando ero arrivata e, con non poche difficoltà, avevo finalmente imparato a trovare la porta d'ingresso senza dovermi per forza catapultare giù da uno dei balconi che davano sul giardino.

Non feci neanche in tempo a fare due passi fuori dal tempio che lui mi richiamò.

«Mia!»

Quella voce autoritaria che usava con me non riuscivo proprio a tollerarla. Mi girai indispettita per poi notare che si stava indicando i piedi, «Le scarpe» puntualizzò. Abbassai lo sguardo al suolo: ero uscita con le pattine, di nuovo.

Tornai indietro, mi infilai le scarpe e questa volta lo salutai, un "io vado" che mi avevano insegnato a pronunciare Hana e Nami uscì flebile dalla mia bocca.

Ci osservammo per pochi secondi, un tempo che mi bastò per notare i suoi tratti duri ammorbidirsi di poco.

«Torna presto» mi rispose, infine, voltandosi e allontanandosi con quella sua andatura leggera che lo rendeva a tratti quasi onirico.

Sorrisi appena. Se c'era una cosa che avevo iniziato ad apprezzare del Giappone erano proprio quelle espressioni di cortesia, quelle formalità, che mi facevano credere che qualcuno, lì, avrebbe sempre aspettato il mio ritorno nonostante tutto.

Attraversai il giardino e iniziai a scendere le scale non mancando di tirare fuori il cellulare dalla tasca.

50, 49, 48.

Iniziai il conto alla rovescia dei gradini che mi separavano dal grande torii. Era diventata una routine, qualcosa che avevo cominciato a fare per divertimento e che poi si era trasformata in un rituale irrinunciabile ogni volta che lasciavo il tempio.

40, 39, 38.

Sembravano non finire mai: uguali, perfettamente squadrati, immacolati, specchio di un paese che aveva fatto della precisione il suo punto di forza, si alternavano sotto i miei piedi lesti senza che io fossi in grado di riuscire a distinguerli davvero.

Appena arrivata dall'Italia, loro erano stati i primi ad avermi accolto una volta scesa dal taxi.

30, 29, 28.

Li avevo odiati profondamente, maledetti, perché erano tanti, troppi, e per me che sono sempre stata poco atletica e debole, trascinarmi due valigie pesanti e uno zaino su fino in cima, fino all'ultimo gradino, non era stata una passeggiata. Mi avevano messo a dura prova.

20, 19, 18.

Però ormai ci avevo fatto l'abitudine, salirli o scenderli non mi risultava più faticoso, anche se ogni volta, ogni passo era un salto nel vuoto, un tentativo malsano di sfidare la sorte e una promessa di una slogatura che prima o poi, ero certa, sarebbe arrivata.

10, 9, 8.

Il grande e imponente ingresso rosso troneggiava con la sua ombra sopra di me. Era una porta, un confine che mi separava dal resto del mondo.

3, 2, 1.

Una raffica di messaggi illuminò lo schermo tempestandolo come tanti piccoli proiettili.

Mamma, papà, Alessandro, alcuni compagni del liceo, Giulia. Mi chiedevano come stavo, che cosa stavo facendo, dicevano che gli mancavo.

Avrebbero dovuto rendermi felice, ma io non percepivo nulla.

Era sempre il solito vuoto informe, quello che mi aveva costretta a scappare via dalla mia vita.

Continuavo a sentirlo mangiarmi viva, strappare pezzi di me.

E bruciava. Bruciava di quelle emozioni che non ero più capace di assaporare, di quella realtà che mi scorreva davanti asettica e insipida.

Bruciava e mi ricordava il motivo per cui io ero lì, a migliaia di chilometri di distanza, in una sperduta frazione della periferia di Kyoto di cui a malapena conoscevo il nome.

Le mie dita si mossero automaticamente sulla tastiera del cellulare. Delle risposte brevi e concise, le solite.

D'un tratto il rombo del motore di una moto mi riportò al presente. Sollevai lo sguardo.

Nascosti dietro la visiera del casco, due occhi verdi mi stavano fissando divertiti. Durò tutto la frazione di un secondo, prima che lui partisse grattando con violenza le ruote sull'asfalto.

Lo incontravo sempre in quel punto, mentre me ne stavo in bilico tra il sacro e il profano con un torii sopra la testa a ricordarmi che io, forse, ero sempre appartenuta a quel limbo, a quella terra di nessuno, incastrata nella mia apatia tra una vecchia vita da cui non sarei mai potuta scappare e una nuova che non ero ancora pronta ad accogliere.

Note dell'autrice

Un vecchietto rompiscatole, due occhi verdi, Hana e Nami. Direi che ne ho introdotti un po' in questo capitolo, non trovate? E questo è soltanto l'inizio...

Al prossimo aggiornamento!

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