Rèsia: alla ricerca dei sogni perduti


Autore: spiedinodicarta

Carte: l'eremita, il carro, la torre

***

Le foglie maleodoranti, vecchie di chissà quanti anni, emettevano dei sinistri, sibilanti fruscii, sotto le suole consumate dei suoi sandali. Considerò che qualsiasi altro essere vivente avrebbe provato timore a trovarsi, in quell'ora della notte, solo nel mezzo di una foresta in cui era risaputo che da secoli oramai non c'era più animale che costruisse la propria tana.
Le cortecce degli alberi erano secche e sembravano sul punto di disfarsi a un soffice tocco del dito o a un leggero colpo di vento; il cielo risultava perennemente plumbeo, come se le cose terribili di cui si era reso muto testimone fossero annidate al di là del suo velo impalpabile, pronte a riversarsi a terra allorché qualcuno ne avesse posseduto l'invisibile chiave.
La ragazza procedeva prestando attenzione a dove porre i passi: la minima svista, su quei sentieri brulli e ricoperti da nero fogliame e grigia cenere, o da sassi che – seppur minuscoli – a sfiorarli trasmettevano un senso di nausea e vertigine, avrebbe potuto esserle fatale.
Ai bordi della sua lunga veste si erano attaccati fili d'erba secca, dalla tinta marrone, e scaglie di corteccia; pensò che una volta a casa (ma dove si trovava, ora, la sua casa? - la mente sembrava annebbiarsi man mano che avanzava), avrebbe posato ogni frammento sulla sua bella scrivania di faggio, a ricordo di una passeggiata nel luogo più ombroso in cui si fosse mai addentrata.

Opaca reliquia, ma il mio cuore pulsante lo preferisco alla tua faccia muta.

Poi un vago presentimento che mai più avrebbe avuto modo di varcare di nuovo la soglia della sua abitazione, la pervase e si propagò dentro ciascuna vena del corpo, come un fiume di cupa rassegnazione.
Lei... era stata scelta per tentare l'impossibile. 

L'impossibile... quella nuvola dai confini traballanti, perennemente inserita nelle menti umane, che la plasmano a piacimento, dandole di tanto in tanto la colpa per ciò a cui, ancora, non sono riuscite ad affibbiare una soluzione.
Sarebbe stata in grado di domare il fumo di un'impossibilità che incombeva sulla propria stirpe.
Gli abitanti di Poffabro, logorati da una guerra millenaria contro gli acerrimi nemici corvi (alti almeno tre metri, e con un becco in grado di scavare solchi profondi anche nella più dura roccia) e, alla fine, sconfitti, decimati e impoveriti per aver messo in campo qualsiasi risorsa, da trecento anni erano anche afflitti da una grave patologia che si era via via impadronita delle loro stanche menti: l'incapacità di sognare.
Di notte dormivano senza più avere sogni che li allietassero, e si svegliavano più stanchi ed emaciati di quando si erano coricati. I loro corpi erano sempre più esili, come se la scomparsa della parte onirica determinasse il dissiparsi della stessa carne.
La dolce carezza delle visioni non attraversava più la loro vita, che già durante il giorno era ridotta alla miseria, e che aveva così perso l'unico tesoro superstite.
Il re, esasperato, si era rivolto alla Sibilla della caverna, chiedendole un responso sul futuro di Poffabro e se c'era un modo per salvare i suoi sudditi, e la Sibilla aveva ricavato, mediante le foglie di palma, di cui il proprio antro era colmo, un messaggio criptico quanto affascinante: una donna in età fertile e dotata di grande coraggio avrebbe dovuto percorrere l'Oscura foresta, alla ricerca dell'ampolla dei sogni, conservata in una torre sbilenca. Strada facendo, se si fosse fidata, avrebbe ricevuto un aiuto nell'impresa.
Subito era stata convocata un'assemblea, presieduta dai sovrani e a cui avevano partecipato i più alti funzionari del regno, per decidere a quale ragazza assegnare questa delicata missione.
Di giovani ricolme di forza d'animo, fra le poche rimaste, ne spiccavano soltanto due, ma non era stato difficile concordare subito su Rèsia, che aveva frequentato per lungo tempo l'Accademia degli arcieri e si era distinta per la sua particolare abilità nel colpire persino delle piccole bacche da imponenti distanze.
Rèsia era conosciuta come "L'eremita", per la sua abitudine a starsene in disparte, a studiare i comportamenti degli animali e a seguirne le tracce; da sempre voleva imparare il loro linguaggio, ed era convinta che in una vita precedente era stata una cucciola di cerbiatto, morta precocemente a causa di un feroce cacciatore.
Non aveva opposto alcuna resistenza alla proposta di andare in cerca della torre, ma a patto che l'avessero lasciata indossare i suoi consueti abiti, e non il vestiario da combattimento.
Le frecce infuocate rappresentavano l'esclusiva difesa da eventuali insidie.
Una goccia di pioggia cadde fra le spoglie fronde di un albero, provocando un rumore metallico.
Ad essa ne seguirono molte altre, e il terreno divenne molle e scivoloso.
Resia coprì la faretra con uno spesso coperchio di stoffa resistente, e proseguì verso il cuore della foresta. Nessuno sarebbe stato in grado di dire l'esatta posizione della torre, perciò aveva deciso di lasciarsi guidare unicamente dall'istinto.
I sassi non smettevano di emanare fragranze impalpabili che avevano l'effetto di offuscare i propositi e i pensieri.
L'impavida strappò un pezzo della verde tunica e lo strofinò sotto il naso, per evitare di respirare direttamente quegli effluvi velenosi.
All'improvviso percepì da lontano il rullare di ruote cigolanti... Come una macabra carrozza, che avesse perso i propri cocchieri, libera su vie che non erano segnate su alcuna cartina geografica esistente. Rèsia accelerò l'andatura, resa difficoltosa dalla pioggia ad ogni istante più battente, e si nascose dietro ad una quercia che pareva stesse per esalare gli ultimi respiri, tanto era piegata e dai colori spenti. Si chiese se l'eco delle ruote fosse un gioco della sua immaginazione, messa a dura prova dai sassi che chissà quale antica maledizione aveva reso così ostili e pericolosi.
Un rombo e poi il silenzio, di nuovo, più assoluto. La pioggia aveva cessato di cadere e l'arciera sporse il viso oltre la quercia; quello che vide le fece spalancare gli occhi: un carro era immobile, a forse una quindicina di metri da lei, con sopra dei bambini che danzavano e cantavano delle nenie che probabilmente erano parenti dei canti delle sirene, da quanto erano piacevoli per le orecchie e per il cuore.
Della seta bianca avvolgeva i loro corpi, e il carro a intervalli regolari avanzava lentamente nella sua direzione, oscurando la voce dei bimbi, per poi tornare a fermarsi, e a lasciar risuonare quelle incantevoli melodie che nulla, si sarebbe creduto, avrebbe potuto increspare.
Una bambina discese e raggiunse Rèsia, mentre i suoi compagni smettevano di cantare e sisedevano ad osservare.
Rèsia sfiorò il cappuccio della faretra per prelevarne una freccia, ma quando incrociò lo sguardo della piccola creatura capì che non era necessario alcun paramento difensivo. Gli occhi erano completamente argentati, senza iridi, eppure trasmettevano una calma ineffabile e un profondo,quanto indescrivibile, sentore d'infinita dolcezza.
"Siamo la voce dei sogni... se vuoi portare al tuo popolo l'ampolla, sali sul nostro carro... Ti condurremo alla torre sbilenca".
Rèsia, solita a riflettere su ogni questione le si presentasse, questa volta non ebbe dubbi sul da farsi: non c'era più nulla da perdere, Poffabro era destinato alla rovina e se anche un bagliore digrandezza infinitesimale era versato nella coppa delle possibilità, era suo dovere tentare fino infondo la salvezza di quella gente.
Due bambini le tesero la mano e l'aiutarono a salire sul rudimentale veicolo, addobbato con boccioli di fiori incandescenti, e appena la ragazza si accomodò in mezzo alla tenera folla infantile, la pioggia riprese a scendere, ma senza bagnare il primitivo trasporto. Era come se le note sprigionate da quelle bocche soavi costituissero una cappa impermeabile all'acqua.
Il carro riprese a scorrere mestamente, e ai consueti intervalli faceva una breve sosta allietata dalle note dei pargoli.
Rèsia, cullata dal tremolio della bizzarra processione sulle irregolarità del terreno e dagli spartiti celestiali intonati da quelli che, se non fosse stato per la mancanza di ali, avrebbe definito degli autentici angeli, si addormentò di un sonno ristoratore, svegliandosi quando la paffuta mano di un canterino la scosse per avvisarla della presenza della torre.
La giovane donna sussultò, e dopo essere riatterrata dal carro fece un profondo inchino di ringraziamento rivolto a quel popolino che riacquistò la rotta del proprio misterioso tragitto.
La torre sbilenca aveva un solo accesso e, constatata la facilità nel varcarlo, Rèsia si chiese come avrebbe potuto un tesoro come l'ampolla dei sogni rimanere incorrotto ed essersi preservato da assalti e razzie.
Una scala a chiocciola strettissima si attorcigliava e saliva ad altezze incalcolabili, che ad occhio nudo si perdevano a contatto con il cielo.
La giovane fece un respiro profondo e si incamminò sugli scalini traballanti di legno.
A poco a poco iniziò ad innalzarsi mediante quegli appoggi malfermi, mentre delle figure mute cominciarono a girarle intorno; l'assemblea non aveva fatto male a puntare su Rèsia: le altre si sarebbero spaventate e avrebbero abbandonato in un battibaleno la torre, sotto la pressione della paura, ma non lei. sospese la salita, accorgendosi che quando si bloccava le strane ed evanescenti sagome sparivano. Come un carillon che aveva bisogno del movimento per produrre le proprie acrobazie uditive.
La ragazza decise allora di non indugiare, e che se quei fantasmi avevano qualcosa da dire o da mostrare il modo migliore per indurli a far ciò era continuare ad elevarsi lungo la torre.
Fu così che rimase sbalordita quando, aprendo gli intangibili passaggi della propria intuizione, comprese che quelle icone semoventi erano gli antenati degli attuali abitanti di Poffabro; a tratti emettevano delle risate allegre, a ricordo di com'era quel posto quando non era ancora stato intaccato dai corvi malefici e i sogni erano un morbido giaciglio su cui poggiare gli affanni e le preoccupazioni.
Non avendo con sé alcuna clessidra, Rèsia non avrebbe potuto dire quanto tempo impiegò nella singolare scalata: ciò che sapeva per certo era che molta acqua doveva essere precipitata dal cielo e che parecchie notti e giorni dovevano essersi alternati, prima di arrivare a una porticina di dimensioni medie, che immetteva sull'unica stanza dell'intera torre.
Al suo interno, fra forti vapori d'incenso e odori di candele dalle mille composizioni, spiccavano su una mensola delle ampolle, di cui su una era inciso a chiare lettere: ampolla dei sogni. 
La giovane rimase delusa nel constatare che tale ricettacolo non conteneva alcun liquido colorato, ma era desolatamente vuoto. Tuttavia appena ne tolse il tappo d'acero, assistette a un veloce girotondo delle ombre che l'avevano accompagnata fin lì e che venivano risucchiate, assieme alle risate, nella boccetta di vetro; e allora capì che la vera voce dei sogni poteva essere rappresentata soltanto dalla forza di volontà di ciascun abitante nel riappropriarsi a tutti i costi di qualcosa che, in realtà, non era mai stato smarrito, in nome di chi aveva già vissuto in quel regno, rendendolo un posto che persino le fate avrebbero potuto invidiare.
Quando stava per deporre l'ampolla nella tasca interna della veste, un bimbo che aveva già notato sul carro comparve di soppiatto e glielo impedì, uscendo poi dalla finestrella della torre con, fra le mani, il prezioso oggetto.
La porta alle spalle di Rèsia si richiuse con un lucchetto senza serratura, e su una pergamena abbandonata su un tavolo, screpolato dalle costanti folate d'aria, era recata una frase in caratteri gotici: 
Per indurre la tua gente a credere ancora nei sogni è necessario che tu sia rinchiusa qui, fino a che ciò non accadrà. 
Delle lacrime salate come la sorgente che scorreva a Poffabro si lanciarono sulle guance dellafanciulla.
La brama di riabbracciarla viva avrebbe indotto i poffabresi a sperare ancora in qualcosa, e a invocarla nei sogni che il manto vellutato della notte fa cadere su chi sa rivolgersi all'Invisibile e agli insostituibili doni che esso elargisce.

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