Capitolo trentuno

"Questo posto è nato da poco." Le parole ricatturarono l'attenzione di Mejri, che distolse lo sguardo dalla parete per portarlo sulla treccia bionda della donna – Doreth, si costrinse a ricordare – che li aveva accolti. "Secondo il libro in cui l'ho scoperta era una città degli orchi, costruita nell'ultimo periodo della loro esistenza... ma non c'era nessuno quando siamo arrivati noi."

Mejri non avrebbe potuto replicare nemmeno volendo. Le sembrava di essere stata catapultata in un sogno. Quelle frasi sarebbero potute uscire da una delle fiabe che Hirn le aveva raccontato quando era bambina.

Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando l'altra aveva iniziato a raccontare la nascita del luogo in cui si trovavano. Apparentemente, fughe come quelle che lei, Sil e Dirsjt avevano compiuto erano tutt'altro che rare.

Stando a quanto raccontava – e il suo aspetto rendeva le sue parole abbastanza credibili – Doreth era nata da un essere umano e da una schiava kamry. L'altro mezzosangue, Azik, era nato da sua madre e da un altro uomo, e l'umano rimasto, Mawen, era l'unico figlio legittimo di suo padre.

Mejri si chiese per un istante quante famiglie esistessero come quella – e quanto poche fossero quelle fondate sull'amore e non sulla violenza. Cercando di nascondere il turbamento, portò le mani in grembo.

Ma da quello che raccontava Doreth, e da come gli altri due la guardavano, il loro legame, non abbastanza stretto dal sangue, era stato rafforzato dall'essere stati cresciuti l'uno vicino all'altro, finché non avevano deciso di scappare nel deserto per trovare un posto in cui vivere insieme senza essere separati dalla specie. Era un piano suicida, pensò Mejri con una punta di vergogna, ma aveva funzionato.

Avevano trovato il suono adatto ad addomesticare il serpente. Avevano raggiunto la città abbandonata e avevano iniziato a trovare un modo in cui vivervi. In qualche modo erano arrivati altri che avevano osato compiere un viaggio disperato per una vita migliore. Schiavi fuggitivi, mezzosangue incapaci di aderire completamente all'una o all'altra specie, umani e kamryn che avevano osato innamorarsi.

Altre persone come loro.

"Potete restare qui, se non avete un altro posto in cui stare." proseguì Doreth. "È questo lo scopo di Jounan."

Mejri poté solo sorridere. La sensazione che tutto quello fosse irreale era sempre più intensa, ma se anche quello fosse stato solo un sogno, sarebbe stato comunque migliore degli incubi che avevano tormentato le sue notti negli ultimi tre anni.

Stava per accettare, ma lo sguardo pensieroso di Dirsjt la fermò. In fondo non potevano essere certi che non fosse una trappola.

Ma da soli non avevano le risorse necessarie ad arrivare al di là e del deserto, e dovevano almeno ottenere dell'acqua e del cibo in più se volevano restare in vita tutti e quattro.

"Per il momento approfitteremo dell'ospitalità." rispose Sil al suo posto con un sorriso educato. Tutto quello che importava era ottenere una speranza di sopravvivenza in più. Potevano correre il rischio, se avesse significato non ricominciare a vagare e aspettare che anche ciò che avevano conservato venisse consumato e il deserto li uccidesse prima che potessero rendersene conto.

Doreth sorrise a sua volta. "Ottimo. Non temete, non siete i primi né gli ultimi ad avere una storia simile." Il suo sguardo, nel momento in cui si posò su Mejri, pareva quasi intenerito. "Tuo figlio sarà al sicuro qui."

Lei non rispose. Avrebbe coltivato quella speranza, ma si ripromise di non abbassare la guardia perché non fosse tradita.

                                                                                               ...

Un'onda particolarmente violenta fece inclinare bruscamente la barca ancora una volta. Irgyvie, svegliandosi bruscamente dal suo sonno leggero, fece del suo meglio per proteggersi con le braccia, scoppiando in lacrime mentre riconosceva la realtà che la circondava.

Sua madre la abbracciò e lei cercò di concentrarsi su quello. Almeno erano entrambe ancora vive.

Ma Kirthum no. Lui non sarebbe mai più stato al suo fianco.

I suoi incubi si erano ripetuti sempre uguali da quando era stata rapita – e non aveva modo di sapere quanto tempo fosse passato, ma sembravano decenni. Uomini che le strappavano il bambino dal ventre e lo smembravano, prima di violentarla e torturarla fino a ucciderla, e Kirthum che di fronte ai suoi occhi moriva ancora e ancora.

Ma lei continuava a respirare, e suo figlio si muoveva ancora. Forse non sarebbe successo ancora per molto. O forse quello che li attendeva era un destino peggiore della morte.

Eargawe sorrise tristemente, stringendo più forte la figlia. Irgyvie si abbandonò al suo abbraccio, chiedendosi ancora una volta che cosa fosse stato di Hapnyan.

Non lo avrebbe più rivisto. Almeno non avrebbe ricevuto conferma della sua morte, e avrebbe potuto illudersi che fosse salvo.

"Andrà tutto bene." le sussurrò sua madre, ma sapevano entrambe che non era vero. Quelli potevano essere i loro ultimi giorni insieme. Era probabile che venissero separate, e sarebbero morte l'una lontana dall'altra, senza nemmeno potersi confortare come in quel momento.

Prima che venisse il giorno in cui tutto era crollato, lei aveva avuto una famiglia che stava per ampliarsi. Ora era sola, e suo figlio sarebbe nato già condannato a non conoscere mai la gioia.

Era viva, ma questo non le sarebbe stato di conforto.

Si aggrappò a Eargawe come se bastasse a non farla cadere in pezzi, mentre ricordi che avrebbe voluto tenere fuori dalla propria mente le scorrevano attraverso.

Kirthum che la abbracciava, il giorno in cui lei gli aveva confessato di amarlo, stringendola con una dolcezza che lei non avrebbe mai creduto di poter percepire. La prima volta che lo aveva consolato per uno dei suoi incubi, accarezzandolo fino a quando il suo respiro non si era calmato. Tutte le volte che gli aveva ripetuto che non sarebbe bastata la mancanza delle sue ali ad allontanarli. Il modo in cui i suoi occhi si erano illuminati quando gli aveva detto di essere incinta.

Erano momenti che non si sarebbero più ripetuti, ed era bastato un singolo istante perché tutto andasse perduto.

E ora non poteva fare altro che attendere che giungesse il suo destino e aspettare di soffrire fino alla morte.

                                                                                           ...

Forse non avrebbe dovuto attendere così a lungo prima della fine.

Per quanto si sforzasse, non riusciva più a vedere Eargawe. Erano passati solo pochi minuti da quando avevano lasciato la nave, e nessuno era ancora venuto a reclamarle per sé. Sua madre doveva essere ancora lì da qualche parte, ma non osava chiamarla. Se anche non fosse stata paralizzata dal terrore, sapeva che le avrebbero fatto del male se non fosse stata ad aspettare in silenzio che decidessero la sua sorte, immobile e quieta come una statua.

Una statua probabilmente aveva più valore di lei in quel momento.

Non aveva dubbi che fosse di quello che i due uomini di fronte a lei stavano discutendo. Era ovvio che per chiunque comprarla non sarebbe stato conveniente. Nessuno avrebbe potuto volerla in quello stato.

E sapeva che l'unico modo di trattare la merce danneggiata era sbarazzarsene.

Chiuse gli occhi, cercando di mantenersi in piedi. Se doveva essere uccisa, almeno voleva farlo con dignità. Non avrebbe permesso ai suoi aguzzini di trarre la minima soddisfazione dalla sua morte.

Fino a poco prima, non avrebbe mai pensato che la sua vita sarebbe finita in quel modo. Il rischio c'era sempre stato, dalla sua nascita, ma aveva cercato di respingere il pensiero e di pregare che non succedesse a lei.

Ora si chiese se esistessero davvero gli dei, e se le avrebbero permesso di rivedere suo padre, e Hapnyan, se anche lui era morto, e Kirthum.

Ma erano gli stessi dei che, se esistevano, non avevano fatto nulla per cambiare quel mondo ingiusto e violento, e concluse che probabilmente anche l'oltretomba sereno che aveva immaginato non era altro che una fantasia.

Mi dispiace, sussurrò mentalmente a suo figlio, sentendolo muoversi come se avvertisse il pericolo. Avrei voluto vederti nascere, prendermi cura di te, darti una vita felice. Mi dispiace.

Finalmente i due uomini smisero di parlare e uno dei due si voltò verso di lei, snudando un coltello che fino a quel momento era rimasto al suo fianco. Qualcuna delle altre donne gridò, ma lei si sforzò di placare il tremore.

Una terza voce, forte e calda, tuonò qualcosa. L'uomo si fermò e ripose la lama, distogliendo lo sguardo da Irgyvie per posarlo sul nuovo venuto.

Lei lo cercò a sua volta con gli occhi. Chiunque fosse, le aveva concesso di vivere qualche minuto in più. Non avrebbe fatto alcuna differenza, ma almeno avrebbe potuto prepararsi.

Sebbene fosse circondato da un gruppo numeroso di altri uomini – almeno una dozzina – era l'unico a cavallo. Anche così, sembrava essere piuttosto alto. I suoi vestiti parevano di tessuto leggero, carminio e nero, e i ricami che li percorrevano luccicavano sotto il sole. Irgyvie non riuscì a vederlo in faccia. Quasi tutta la pelle era coperta, e la parte superiore del suo viso era ombreggiata da un cappello scuro a tesa larga. Lei riuscì solo a distinguere una barba corta e curata di un intenso color cannella, e lunghe ciocche di capelli sciolti sulle sue spalle.

Chiunque fosse, doveva avere abbastanza autorità per essere riuscito a fermare gli altri due. Con voce ferma, disse di nuovo qualcos'altro che dal tono doveva essere una domanda. L'uomo che aveva cercato di accoltellarla balbettò una risposta.

Irgyvie perse quasi subito interesse per le loro parole. Qualunque cosa fosse accaduta, lei sarebbe morta.

Ma anche provando a concentrarsi solo sul suo fato imminente, poteva sentire che la discussione si stava facendo sempre più animata, fino a quando non fu messa a tacere nel momento in cui uno degli accompagnatori dell'ultimo arrivato estrasse un sacchetto dalla borsa che portava sulle spalle.

Irgyvie si chiese chi di loro fosse stata scelta e per quale motivo. Non era abbastanza ingenua da non sapere a quali scopi potessero essere destinate.

Uno dei venditori ispezionò il contenuto del sacchetto e fece un'altra domanda. Il cliente annuì.

Un attimo dopo, Irgyvie guardò mentre a una a una le sue compagne venivano portate via – un istante prima che anche lei venisse sospinta verso l'uomo che le aveva comprate. La sua mente no comprese quello che stava succedendo fino ad alcuni secondi dopo.

Era stata risparmiata, per qualche motivo a cui preferiva non pensare. Ma almeno per ora sarebbe sopravvissuta e sua madre era ancora con lei.

In confronto agli anni di schiavitù che la attendevano, alla vita che suo figlio avrebbe vissuto se solo fosse riuscito a nascere, essere uccisa in quel momento sarebbe potuto essere quasi caritatevole.

                                                                                                     ...

Dopo cinque giorni di viaggio, erano finalmente giunti alla loro destinazione.

Irgyvie fissò la collina che si ergeva su di loro cercando di abituarsi all'immagine. Quello era il posto dove avrebbe trascorso il resto della sua vita. Forse avrebbe trovato il modo di volare via.

In quei giorni erano state trattate meglio di quanto avesse pensato inizialmente, e sicuramente le ore che aveva trascorso giungendo fino a lì non erano state peggiori di quelle che aveva passato sulla nave. Erano state nutrite ed era stato concesso loro di riposare, e nessuno le aveva picchiate o torturate. Ma l'uomo che aveva comprato tutte loro non aveva parlato.

Almeno ora avrebbe scoperto per cosa si sarebbero serviti di lei e quante possibilità di sopravvivenza le fossero rimaste.

Il gruppo di uomini che le conduceva si fermò nell'ombra della collina. Il loro capo si voltò verso di loro, togliendosi finalmente il cappello e scoprendo un volto pallido, un paio di occhi verdi e brillanti e un sorriso diverso da quello che Irgyvie si aspettava di vedere.

Non era il sorriso feroce di un predatore. Aveva un calore che le ricordava i raggi del sole filtrati dalle foglie delle foreste di Tojt.

Non era possibile, e doveva essere solo una trappola.

Continuò a crederlo fino a quando le prime parole non lasciarono le sue labbra. "Mi dispiace. Spero di poter rimediare."

Aveva parlato in hiry.

La sua lingua sembrava aliena sulle sue labbra, e forse quella era solo la sua mente che la stava ingannando, ricavando suoni familiari da parole che non avrebbe mai potuto capire. Ma nonostante il calore del suo sorriso, gli occhi dell'umano, posati su di loro, erano adombrati dalla malinconia.

"Potete andare dove desiderate ora. Siete formalmente libere." Tutto quello sembrava sempre più assurdo, e Irgyvie continuò a pensare che fosse solo la sua immaginazione a generare quella situazione. Stava delirando.

"Dovrò solo dare dimostrare che vi ho legalmente affrancate." Non poteva essere vero. Non aveva senso. Ma non lo aveva neanche che un essere umano conoscesse la loro lingua.

Lui sollevò la mano e mostrò qualcosa. Un ciondolo di cera, in cui era stata impressa l'immagine di un cane. "Questo è il segno che vi ho comprate e se siete libere è perché vi ho dato il consenso. Mi dispiace... per ora non posso fare di più."

Doveva sapere cosa stesse succedendo. Se quella non era una menzogna, se davvero aveva ancora una speranza di libertà, voleva coglierla.

                                                                                              ...

L'espressione negli occhi di Nizkam non era mai cambiata, e la sua voce aveva mantenuto lo stesso tono calmo mentre le rispondeva. "Hai veramente intenzione di restare?"

Irgyvie abbassò lo sguardo. "Solo per qualche anno, se mi è concesso." Avrebbe atteso che suo figlio nascesse e fosse abbastanza cresciuto per viaggiare. Anche se legalmente non era una schiava, dubitava che cercare di tornare a Tojt fosse sicuro per lei. Un cacciatore avrebbe potuto vederla volare e semplicemente spararle non appena l'avesse vista. E anche se non ci fosse stato pericolo, non voleva viaggiare troppo a lungo nel suo stato.

Il suo bambino non era ancora nato e aveva già rischiato troppo.

L'umano annuì. "Certo." Sembrò esitare prima di proseguire. "Il padre di tuo figlio... sai per caso che fine abbia fatto? Potrei aiutarti a rintracciarlo." Lei non rispose.

Lui si morse le labbra e distolse lo sguardo. "Mi dispiace. Avrei dovuto immaginarlo."

Irgyvie si costrinse a tacere. Lui non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare la sorte a cui Kirthum e tanti altri erano andati incontro. Forse credeva di poter rimediare liberando le sue schiave, ma il mondo non sarebbe cambiato. Quelli come lei sarebbero sempre rimasti delle prede.

Ma per il momento aveva bisogno di qualcuno che le assicurasse che non lo sarebbe diventata anche lei. Non subito, almeno.

Sapeva di non doversi fidare, ma quell'uomo le aveva salvato la vita e offerto la libertà e un asilo sicuro. Non aveva molte alternative. Sperò di non dover rimpiangere quella decisione.

Doveva resistere solo per qualche anno. Poi se ne sarebbe andata, insieme a suo figlio e a sua madre, e avrebbero cercato sopravvissuti del loro villaggio, o semplicemente avrebbero trovato un posto abbastanza nascosto, dove nessuno le avrebbe trovate, e avrebbero cercato di continuare a vivere.

"Posso chiederti di sposarmi?" domandò lui improvvisamente.

Irgyvie si irrigidì, provando a mantenere lucidità mentre il suo sguardo correva verso le ampie finestre. Forse sarebbe riuscita a sorpassarle e a volare via, ma se lui fosse stato armato l'avrebbe uccisa sul posto.

La voce di Nizkam la placò. "Solo per formalità. Non ti costringerò a nulla." Le sorrise senza gioia. "È la prima volta che mi succede di... comprare un neonato. Ci vorranno ancora anni perché la schiavitù diventi illegale, ammesso che succeda, e se ti sposassi potrei adottare tuo figlio e lui sarebbe tutelato." Tacque per un istante, ma si aspettava una risposta, non arrivò. "Mia moglie è morta di parto dodici anni fa. Se dicessi di sposarti per dare una madre a mio figlio, nessuno si opporrebbe."

L'hiry non replicò subito, guardandolo negli occhi e cercando di capire se fosse sincero.

Non avrebbe dovuto cedere a quella richiesta. Lui si sarebbe approfittato di lei. E anche se non lo avesse fatto, lei non avrebbe mai potuto dimenticare Kirthum.

Ma suo marito se n'era andato, e tutto ciò che lei poteva fare era difendere ciò che le aveva lasciato – a qualunque costo.

Solo qualche anno, si ripeté. Forse se ne sarebbe andata anche prima, se restare fosse diventato troppo pericoloso.

Annuì e pregò di stare facendo la scelta giusta.

                                                                                         ...

Il momento di quella decisione sembrava lontano adesso, sebbene fossero passati solo pochi mesi.

Ora, mentre cercava di spiegare a Lienhe quello che era successo, Irgyvie sperò di convincerlo che non se ne era pentita.

Non si era aspettata che lui tornasse. Non aveva creduto di avere veramente speranza di ritrovare qualcuno. Ma era rimasto qualcos'altro, del suo passato, e finalmente non avrebbe più dovuto sentirne la mancanza.

Stava per chiedergli dove fosse Hapnyan, ma lui la interruppe. "Lo ami?" La sua voce era inespressiva, e lei sperò che non cominciasse a provare risentimento nei suoi confronti per quello che aveva fatto. Aveva fatto la cosa giusta per la propria sopravvivenza.

Gli sorrise. "No. Non allo stesso modo di Kirthum. Ma non mi ha mai fatto del male e tratta Laem come se fosse figlio suo, e questo mi basta."

Lo vide riflettere mentre i suoi occhi si spostavano nuovamente sul neonato. Irgyvie deglutì. "Hapnyan sta bene?" domandò, e sentì che la voce le tremava.

Lui annuì prima di sollevare lo sguardo. Stava sorridendo, e i suoi occhi erano lucidi. "Non sai quanto a lungo ti abbia cercata." sussurrò. Spalancò le ali e si riavvicinò alla finestra. "Vado a chiamare gli altri."

Irgyvie lo guardò spiccare il volo, sentendo dentro di sé un calore che in quei mesi l'aveva visitata troppo raramente. Non tutto era andato perduto.

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