Capitolo sette
Dhnir inspirò guardando attraverso la fessura della finestra il cielo buio, privato della luce lunare. Aveva preso la sua decisione.
Aveva sperato che i ricordi del sogno che aveva fatto svanissero con il tempo, ma non era stato così. Il procedere delle settimane li aveva solo resi più vividi. Tutte le volte che era uscito indenne da un combattimento, aveva sentito le parole del lupo risuonare nella sua testa, più chiare che mai.
E quel giorno - esattamente due anni dopo essere arrivato lì - aveva deciso che non poteva più restare. Non importava che quello fosse un sogno o un messaggio. Se ne sarebbe andato anche a costo della vita.
Non aveva ancora un piano, ma ormai non importava. Non riusciva ad aspettare. Meglio la morte di anche solo un altro giorno trascorso in schiavitù.
Trovare la porta della stanza riservata alle belve aperta era solo servito a confermargli che quella era la notte giusta.
Non sapeva se fosse stata una semplice distrazione da parte dei servi del suo proprietario, oppure l'azione diretta del destino, ma era un'occasione che doveva cogliere. Sorrise mentre la spingeva con tutta la delicatezza di cui era capace.
Il pesante portone di legno strisciò contro la pietra del pavimento con un sibilo ben udibile. Dhnir si voltò per scorgere diverse paia di occhi dorati brillare nell'oscurità, puntati su di lui. Era certo che ce ne fossero molti altri.
"Cosa stai facendo?" sibilò qualcuno in kurjt. Dopo tanto tempo che non sentiva qualcuno parlare la lingua comune, tantomeno rivolto a lui, il suono gli parve surreale. Dovette fermarsi a comprendere prima di rispondere.
"Me ne vado." rispose. "Siete liberi di venire con me."
Non ci fu risposta. Non se ne stupì. Lo aveva creduto impossibile fino a quel momento. Se fosse stato qualcun altro ad agire al suo posto, non avrebbe mai tentato di seguirlo. Conosceva, senza avere bisogno di guardarle, le espressioni sui volti degli altri. Incredulità, scherno.
Ma non avrebbe permesso loro di fermarlo.
Si fermò, aspettandosi da un momento all'altro che giungessero i passi minacciosi di un uomo pronto a punirlo per avere anche solo sperato di poter scappare. Oltre la porta però giunse solo il silenzio.
Non poteva essere un caso, ma non si soffermò a rifletterci. Doveva approfittarne. La sua mente fu attraversata dal fugace pensiero che quella fosse solo una trappola, ma preferì non pensarci.
Era comunque nel pieno delle forze. Se si fosse trasformato, forse sarebbe stato capace di sostenere una battaglia. Gli esseri umani erano molto fragili rispetto a lui. Lo aveva visto.
E non era l'unico. Lanciò un'occhiata a quelli che lo stavano osservando, sempre più tesi a ogni rumore prodotto dalla porta. "Siamo numerosi, siamo più forti di loro e sappiamo combattere. Perché avete paura?"
Sapeva di non poterli biasimare. Lui aveva avuto paura fino al giorno prima. Era stata quella notte, la consapevolezza di quanto tempo fosse passato da quando aveva perso la libertà e di quanto avesse subito da allora a mutare i suoi propositi.
Avevano sempre avuto la possibilità di fuggire, tutti insieme, e ora ne era certo. Ma avevano creduto che non ci sarebbero mai riusciti, e questo li aveva paralizzati.
Lui però non avrebbe più permesso alle proprie paure di incatenarlo. Si sarebbe liberato da solo, se necessario. Anche se fosse morto, avrebbe almeno potuto dire di avere tentato, di avere vinto su quella parte di sé che continuava a sussurrargli che doveva sottomettersi, che nulla sarebbe mai cambiato.
Una mano si poggiò accanto alla sua. Si voltò bruscamente, riconoscendo Cirhen, uno dei kamryn arrivati da poco. Lo riconobbe immediatamente. Qualche mese prima gli aveva impedito di aprirsi la gola a graffi e credeva di averlo persuaso a cercare di sopravvivere. "Non puoi fermarmi." ringhiò. Ormai aveva scelto, e avrebbe ucciso chiunque cercasse di ostacolarlo, anche se fosse stata una persona che aveva aiutato.
Ma l'altro scosse la testa. "Io vado. Non ho paura." Abbassò ancora di più la voce. "Tanto siamo già tutti condannati a morte."
Dhnir sorrise di nuovo. Stava funzionando.
Finalmente fece un passo fuori dalla cella – e questa volta non era per andare a combattere senza la certezza che sarebbe sopravvissuto. Si sentì come se fosse tornato a respirare dopo troppo tempo.
Non cercò di capire in quanto lo stesse seguendo. I suoi passi echeggiavano fin troppo chiari nel corridoio, ma ancora non vedeva o sentiva niente di allarmante.
Come se tutto fosse sparito, fuorché lui e la sua libertà.
Se anche davvero fosse stato così, non credeva che sarebbe durato a lungo. Accelerò il passo, risalendo la prima rampa di scale. I suoi occhi ormai si erano abituati al buio, e in qualche modo sapeva perfettamente dove andare.
Non era il semplice ricordo di tutte le volte che aveva compiuto quel percorso. C'era qualcos'altro.
Sentì altri passi dietro di sé, sempre più numerosi, ma era certo che non fossero dei suoi nemici, e proseguì la propria ascesa verso la luce.
Continuava a pensare che forse stava solo immaginando tutto quello e che presto si sarebbe svegliato, di nuovo in catene, ma la voce che era stata del lupo risuonò nella sua testa, chiara come se la creatura che aveva sognato fosse accanto a lui.
Non fermarti.
Risalì ulteriormente l'edificio deserto. La fredda pietra che fino al giorno prima gli era parsa soffocante si stava gradualmente facendo sempre più illuminata a mano a mano che si avvicinava alla superficie.
Qualcuno alle sue spalle aveva iniziato a gridare parole incomprensibili. Dhnir sussultò e aumentò la velocità. Era quasi arrivato.
Nessuno lo afferrò, e fu il primo a raggiungere la porta d'ingresso e spalancarla bruscamente. Chiuse gli occhi e inspirò la notte ancora calda.
Erui era una grande città, e nei due anni in cui vi era stato intrappolato non ricordava che fosse mai stata silenziosa, neanche nelle ore più buie. Ma in quel momento le strade erano deserte. I suoi alti edifici di pietra azzurra, illuminati dalle stelle, parevano essere stati abbandonati.
Sapeva di non poter aspettare. Non aveva idea di quanto mancasse all'alba, ma con il sorgere del sole tutto sarebbe tornato alla normalità. Poteva sopravvivere a un attacco, ma avrebbe preferito conservare le forze per allontanarsi il più possibile.
Altri emersero dietro di lui. Riconobbe due hiryn trascinare a forza Shera, che continuava a gridare qualcosa nella propria lingua. Dhnir si sentì sbiancare. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era che attirasse attenzioni indesiderate.
Qualcuno gli toccò una spalla. "E ora?" Lui non rispose, osservando mentre qualcuno dei kamryn e alcuni keryn cercavano di convincere Shera a tacere.
"Lasciatemi andare!" sbottò lui in kurjt alla fine. "Io non ho intenzione di farmi ammazzare così! Devo tornare!"
Dhnir rimase paralizzato, chiedendosi se, dopo tanto tempo passato in schiavitù, il kamry più anziano non fosse impazzito. Il cielo stava iniziando a schiarirsi, in modo ancora impercettibile, ma abbastanza da ricordargli che il tempo che aveva sperato di avere a disposizione stava scadendo.
Shera si liberò dalla presa degli schiavi che lo stavano trattenendo e cercò di rientrare. Senza pensare, Dhnir balzò verso di lui, afferrandolo prima che potesse tornare dentro la loro prigione. Non poteva permettergli di rovinare tutto ora che avevano la possibilità di essere liberi.
Doveva fermarlo a qualunque costo.
Esitò, ma fu abbastanza rapido da passargli un braccio attorno al collo prima che l'altro potesse voltarsi e lottare. Lo sentì agitarsi sotto la propria presa e ignorò il dolore mentre veniva raggiunto da colpi violenti.
Attese che smettesse di muoversi prima di lasciarlo andare. Aveva perso i sensi, ma respirava ancora, e probabilmente si sarebbe svegliato presto.
Non poteva ucciderlo.
"Dobbiamo andarcene da qui." mormorò. Si voltò verso Cirhen. "Aiutami a trasportarlo." Il kamry lo fissò. "Non lo possiamo lasciare qui?" Dhnir scosse la testa. "Potrebbero convincerlo a collaborare contro di noi, e sarebbe pericoloso. E non mi sembra giusto ucciderlo così."
E il loro padrone avrebbe potuto decidere di torturarlo per sapere dove e come fossero fuggiti. Avrebbe preferito risparmiarglielo.
Se ne sarebbe pentito non appena l'altro si fosse svegliato e lo sapeva, ma assunse comunque la sua forma di orso, aspettando che Cirhen gli obbedisse e posasse Shera sul suo dorso.
Non appena sentì il peso sulla schiena, iniziò a correre.
Aveva rimasto meno tempo di quanto sperasse, e se non fosse riuscito almeno a uscire da Erui, il suo tentativo si sarebbe risolto nel nulla.
Se lo avessero trovato, avrebbe combattuto fino alla morte piuttosto che lasciare che lo catturassero.
La libertà era vicina, eppure ancora troppo lontana perché lui potesse dire di averla raggiunta, e lui non l'aveva mai desiderata tanto.
...
Kael tossì, pulendosi la bocca mentre veniva scosso da un brivido. Inghiottì la bile, osservando la pozza biancastra sotto di sé.
Dopo tutti i mesi trascorsi, quella era la prima volta che il suo corpo aveva rigettato la droga.
Non era normale, e forse era segno che stava finalmente cedendo, che la morte sarebbe arrivata presto. Ma lasciare che lei si approfittasse di lui mentre era capace di muoversi ma impossibilitato a fuggire sarebbe stato ancora più doloroso.
La nausea lo travolse di nuovo al solo pensiero. Era certo di sentire i passi della sua aguzzina. Sarebbe tornata. Lo avrebbe torturato di nuovo, come aveva fatto troppe volte.
Strinse i denti per impedirsi di urlare. Fino a quando aveva intenzione di usarlo? Non poteva accontentarsi di ucciderlo e basta?
Per un momento pensò di approfittare di quel momento, di combatterla. Ma non sarebbe servito a nulla, se non a procurargli più dolore quando lei avesse deciso di vendicarsi.
Così si stese sul letto e chiuse gli occhi. Non poteva ribellarsi. Tanto valeva che restasse inattivo come al solito e attendesse semplicemente che finisse.
La sentì entrare e dire qualcosa con voce tanto suadente quanto feroce. Non aprì gli occhi per guardarla. La sua espressione compiaciuta lo tormentava qualunque cosa facesse, non aveva bisogno di vederla di nuovo.
Quando la sentì afferrarlo, non riuscì più a trattenersi.
L'istinto ebbe il sopravvento. Si liberò con uno strattone violento e sollevando una mano la colpì sul viso con tutte le forze che aveva.
La sorpresa bastò. La donna ricadde all'indietro, sbattendo la testa e le spalle contro la parete alle sue spalle. Rimase a terra, tremante ma ancora cosciente, battendo le palpebre e guardandosi intorno.
Kael non riusciva a credere di averlo fatto davvero. Aveva sognato quel momento così a lungo che ora gli sembrava irreale. Eppure sentiva il sangue tra le dita, e il proprio cuore che batteva troppo forte, inondando il suo corpo di calore.
Lei sembrava così fragile, ancora rinchiusa nello spazio stretto tra il letto e la parete. Così innocua. La donna che lo aveva ridotto a un oggetto, divenuta preda.
A quella visione, ebbe la sensazione di tornare nel pieno delle forze.
Lei lo aveva reso uno schiavo. Lo aveva stuprato. Gli aveva tolto ogni dignità, e ora lui si sarebbe assicurato che pagasse.
Non le poteva dare il tempo di riprendersi. Il suo corpo avido di vendetta agì prima che potesse controllarlo razionalmente. Inginocchiandosi sulla sua schiena per tenerla ferma, le strinse entrambe le mani intorno alla gola, sorridendo per la prima volta mentre riconosceva che anche lei, adesso, capiva cosa significasse sentirsi soffocare.
Non riusciva a fermarsi, e non voleva.
Quando i movimenti della donna si erano fatti più deboli, appena accennati, liberò una mano, avvolgendosi i suoi capelli neri attorno al polso. Le sbatté la testa contro il muro finché il suo braccio non divenne viscido e lei non smise del tutto di muoversi.
Lasciò la presa e osservò il corpo accasciarsi al suolo lasciando una scia di sangue sulla parete. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
Era libero. Il mostro era morto, e il suo incubo era finito.
Ora doveva andarsene di lì prima che qualcuno scoprisse quello che aveva fatto.
Le sue gambe quasi cedettero quando si alzò. Barcollò verso la porta, appoggiandovisi di peso e cercando di recuperare l'equilibrio mentre quella si apriva.
Dopo essere stato rinchiuso in quella camera di torture per mesi, aveva quasi dimenticato l'esistenza del mondo esterno. E ora era lì, davanti a lui.
Avrebbero potuto fermarlo e ucciderlo in quel momento, ma non importava. Almeno si era vendicato.
Dalle finestre penetrava una luce estremamente fievole. Doveva essere notte. Strappò una torcia da uno dei sostegni metallici affissi alle pareti, usandola per illuminare lo spazio che lo circondava. Il corridoio era deserto. Evidentemente tutti stavano ancora dormendo.
Nessuno si era accorto di quello che aveva fatto. Se avesse trovato il modo di uscire, sarebbe già stato lontano quando qualcuno avesse trovato il corpo.
Forse sarebbe riuscito a passare da una delle finestre. Erano abbastanza ampie. Doveva solo riuscire ad arrampicarsi fino a raggiungerne una.
Non era sicuro di averne la forza, ma preferì non pensarci.
Solo un sottile strato trasparente copriva le aperture. Doveva capire come romperlo. E doveva fare in fretta, prima che qualcuno venisse a controllare.
Si guardò intorno, cercando disperatamente qualcosa che potesse aiutarlo. Si fermò e si costrinse a rientrare nella stanza da cui era appena uscito.
Non voleva farlo. Aveva la sensazione di diventare sempre più debole a ogni passo che lo portava più vicino al posto dove aveva perso se stesso, e temeva di vedere il cadavere della donna rianimarsi e assalirlo di nuovo. Ma lì dentro avrebbe potuto esserci qualcosa di utile.
Cercò di trattenere il respiro e di guardare il meno possibile nella direzione in cui aveva lasciato il corpo. Individuò quasi subito quello che stava cercando.
Il recipiente alto e stretto con cui Dryiler era solito portargli l'acqua. Era leggero, ma di metallo resistente. Sarebbe bastato.
Uscì quasi correndo, promettendo a se stesso che non sarebbe più dovuto tornare là dentro. Non avrebbe consentito a nessuno di trascinarlo di nuovo laggiù. Sarebbe morto piuttosto che accettarlo.
Ma quella era stata davvero l'ultima volta che vi era entrato. Era libero, e in qualche modo tutto sarebbe tornato normale.
Chiuse gli occhi e lanciò l'oggetto che aveva tra le mani verso la finestra. Una pioggia di frammenti di vetro si riversò sul pavimento e qualche scheggia lo graffiò superficialmente. Non se ne preoccupò.
L'aria fresca penetrò dallo squarcio che si era aperto, riempiendogli i polmoni. Doveva raggiungerla. Doveva andarsene da lì.
Rimase a fissare la finestra rotta per quelle che sembrarono ore. Non voleva credere che dopo tutto quello che aveva fatto sarebbe stato bloccato lì.
"Cosa hai fatto?" La voce che giunse alle sue spalle lo fece sussultare. Si voltò di scatto, abbassandosi abbastanza da riuscire a raccogliere una scheggia abbastanza lunga e affilata da poter essere usata come arma improvvisata. Avrebbe accettato la morte se fosse arrivata, ma almeno avrebbe combattuto.
Driyler lo stava fissando. Aveva le pupille dilatate e i muscoli tesi. Tenendo stretto il frammento di vetro anche mentre altro sangue gli bagnava il palmo, Kael agitò la torcia davanti a sé per tenere l'altro a distanza. "Fammi uscire di qui." ripeté.
L'altro barcollò, finendo con le spalle al muro. Il mape si impose di non finirlo subito. Con il suo aiuto sarebbe riuscito a fuggire.
Scattò verso di lui, mantenendo a malapena l'equilibrio, e puntò la scheggia contro la sua gola. "Portami fuori." ordinò, sperando che la sua voce non tremasse. Il servo annuì impallidendo visibilmente.
Kael rilassò i muscoli e allontanò il vetro tagliente dal suo collo, continuando a fissarlo. Non appena l'altro si spostò davanti a lui, tornò a minacciarlo, premendo i bordi affilati contro la sua nuca. Lo sentì irrigidirsi.
Questa volta non era lui a essere paralizzato.
Si lasciò guidare, accorgendosi solo a metà strada di stare tremando. Driyler non avrebbe osato tradirlo fintanto che la sua vita era in pericolo, ma se avesse abbassato la guardia un solo momento avrebbe reagito. E lui non voleva farsi uccidere per un errore.
Ma quasi non aveva il tempo di pensare. Il suo cuore continuava a battere troppo in fretta e aveva stranamente caldo. Voleva mettersi a correre, ma così facendo avrebbe ucciso la sua unica guida.
L'attesa iniziava a farsi insopportabile.
Driyler si arrestò davanti a una grande porta di metallo. Allungò una mano verso la propria sacca e Kael si tese violentemente, preparandosi a tagliargli la gola se avesse tirato fuori un'arma.
Il servo si limitò a estrarre una chiave, aprendo in fretta la porta, che si spalancò quasi senza rumore. Al di là di essa si estendevano la terra e il cielo.
La tensione lo abbandonò tanto violentemente che Kael dovette appoggiarsi a uno degli stipiti per non cadere. Gettò via il pezzo di vetro e si voltò verso Driyler. "Ti ho aiutato!" iniziò lui con voce tremante.
Ma non poteva ascoltarlo. Non poteva rischiare che svelasse come era fuggito. Se lo avesse lasciato in vita, gli avrebbe fatto ancora del male.
"E quante volte sei rimasto a guardare?" mormorò, prima di gettare la torcia su di lui.
Colto di sorpresa, Driyler non riuscì a schivarla. Kael si voltò quando le fiamme iniziarono ad aggredire la sua pelle e i suoi vestiti e le sue urla si levarono nella notte.
Avrebbe dovuto bruciare tutta la casa fino alle fondamenta. Quel posto era corrotto, infestato dagli spettri di quanti prima di lui vi avevano sofferto ed erano morti. Ma la pietra non avrebbe bruciato altrettanto facilmente, e lui non aveva tempo di provarci.
Doveva solo fuggire.
Non sapeva dove andare, ma sapeva di doversi allontanare il più possibile. Cominciò a correre via, alla cieca, ripetendosi che ora era tutto finito.
Sollevò solo per un istante lo sguardo verso un cielo che non vedeva da troppo tempo, accorgendosi a malapena dell'aura rossastra che circondava la luna durante un'eclissi insolitamente lunga.
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