Capitolo sessantatré

Un crampo percorse l'addome di Mejri, quasi strappandole un grido. Passò una mano sul ventre, attendendo che passasse. Sapeva bene che l'ora del parto sarebbe potuta giungere da un momento all'altro, ma sperava che il bambino potesse pazientare.

C'era bisogno anche di lei, e di tutte le altre braccia intente a sminuzzare, pestare e rimestare.

L'odore del sangue del deserto invadeva la sala, così dolce da essere disgustoso. La donna passò la lingua sulle erbe compresse che era riuscita a trattenere in bocca, fino a quando il loro profumo non le occupò le narici, cancellando ogni nascente sensazione di nausea, ringraziando Hzial per avergliele fornite. Non poteva permettersi di distrarsi neanche per un momento.

Quel fiore, aggiunto al giusto composto, aveva già salvato più vite di quanto avessero osato sperare. Alcuni dei convalescenti erano stati addirittura in grado di rimettersi in piedi e unirsi a loro per preparare la medicina. Ogni secondo che trascorrevano lavorando poteva portare a una nuova guarigione.

Non era disposta a scoprire quale prezzo avrebbe potuto pagare se avesse sprecato tempo. A meno di non essere travolta dalle doglie, non avrebbe smesso di produrre la medicina. Era il minimo che potesse fare per ripagare la seconda opportunità che Doreth le aveva concesso.

Spostò il vaso di terracotta in cui aveva finito di ridurre in polvere i petali scarlatti, perché potessero essere uniti al resto del composto e trasformati in bevanda. Stava per abbattersi sul carico successivo di fiori, quando una nuova fitta la trafisse, costringendola a chiudere gli occhi e stringere i denti.

Qualcuno le strinse con gentilezza le spalle da dietro, costringendola ad alzare lo sguardo. Il viso di Hzial le sorrise dolcemente. Quel sorriso non aveva recuperato la stessa luce del periodo antecedente alla battaglia, ma il solo fatto che fosse tornato a illuminarle il volto era più di quanto Mejri avesse osato sperare. "Dovresti riposare" le disse la kamry. "Nelle tue condizioni, affaticarti troppo non aiuterà. Ricordo bene quanto fosse difficile sopportare le ultime settimane, anche senza..."

La sua voce perse ogni parvenza di velocità e si spense. Mejri scosse la testa, allontanando una ciocca corvina che le era ricaduta sul viso. "Mi riposerò quando avrò la certezza che Dirsjt e Sil staranno bene." Questa volta, mentre pronunciava le parole, riuscì quasi a crederci davvero.

Più sangue del deserto avessero usato, prima il suo amante e la sua amica sarebbero tornati da lei. Se fosse stata abbastanza fortunata, si sarebbero ripresi in tempo per la nascita del bambino.

Prima di allora, sarebbe dovuta rimanere concentrata su ciò che poteva fare, per loro e per tutta Jounan. L'avevano sostenuta fino a quel momento. Senza di loro, sarebbe stata ancora in balia di Jilab, senza ricordare cosa significasse vivere davvero. Tentare di salvarli era il minimo che potesse fare per ripagarli.

Una smorfia le si dipinse sul viso. Il bambino sembrava intenzionato a non concederle tregua, quel giorno. Sperava che almeno significasse che era in salute. Hzial schioccò la lingua contro il palato. "Se non hai intenzione di fermarti, puoi andare a portare il farmaco ai malati. Muoverti un po' forse aiuterà. Stai attenta a non entrare nell'edificio..."

Mejri la interruppe, annuendo e posando il pestello. Forse l'altra aveva ragione. Non era abbastanza concentrata da continuare a lavorare sui fiori, ma avrebbe potuto comunque rendersi utile.

E forse sarebbe riuscita ad avere subito notizie di Sil e di Dirsjt.

Era difficile informarsi sulle condizioni degli infermi. Ce n'erano troppi per controllarli uno per uno, e solo quando guarivano ed erano in grado di uscire dall'edificio che era stato adibito a lazzaretto, o quando i loro corpi venivano portati via per essere bruciati, i familiari riuscivano ad avere conferma delle proprie speranze o delle proprie paure. Mejri si era imposta di pazientare, ma forse ora avrebbe potuto accogliere l'offerta di Hzial e approfittarne.

Appoggiandosi al ripiano del tavolo, si mise in piedi, ignorando la fastidiosa fitta che le percorse le caviglie gonfie. Si diresse, più goffamente di quanto avesse voluto, verso l'angolo dell'ampia sala in cui era riposto il prodotto finito. Il dolore alla schiena non tardò a manifestarsi, ma almeno la distolse da quello al ventre.

Non c'era quasi nessuno vicino alle mensole affiancate alla porta arcuata che conduceva all'esterno. Dove un tempo erano stati ammassati libri, ora si trovavano dozzine di boccette di terracotta, saldamente inserite negli alveoli prima destinati ai rotoli di pergamena. Sperò che i tappi che chiudevano i colli sottili reggessero, e di non inciampare rischiando di infrangere i contenitori e dispergere il prezioso liquido che racchiudevano. Almeno non avrebbe rischiato di rovesciarlo.

Afferrò l'ansa di una delle boccette, stringendosela al petto, e uscì senza voltarsi indietro.

Dopo la penombra in cui era stata immersa per giorni, la luce del sole rovente la accecò. Sollevò la mano libera, lasciando che l'ampia manica della sua veste scura le coprisse gli occhi. Almeno l'odore del sangue del deserto era meno pervasivo, e il soffio furioso del vento lo stava portando via.

Stava portando via anche l'odore delle ceneri dalle pire funebri. Mejri tentò di non pensarci. Battendo le palpebre finché non si fu abituata alla luce, posò la mano sinistra sul ventre, sperando che il piccolo non potesse percepire in alcun modo il fumo che lei vedeva sorgere vicino alle mura.

Erano sempre meno coloro che venivano chiamati a vedere i resti dei propri familiari, e il loro numero presto si sarebbe azzerato. Ma erano già stati in troppi.

Se la sorte fosse stata clemente, lei non sarebbe stata tra loro.

Iniziò a camminare, imponendosi di aumentare la velocità. Poteva sentire il liquido vorticare all'interno dell'ampolla. Quella dose sarebbe bastata per cinque persone. Strinse il contenitore a sé con più forza, pregando di non lasciarlo cadere, anche se la sabbia avrebbe dovuto impedire che si frantumasse. Non potevano concedersi di sprecare una singola goccia.

Il silenzio delle strade pareva ancora innaturale. Presto la gente di Jounan non avrebbe più avuto bisogno di nascondersi nelle proprie case e pregare che la pestilenza non distruggesse ciò che la battaglia aveva risparmiato. Prima dovevano solo guarire tutti i malati, fino all'ultimo.

Poi la vita sarebbe ripresa. Anche se la malattia e la guerra fossero tornati a minacciarli, sarebbero stati pronti a respingerle. E forse la pace sarebbe tornata, un giorno.

Forse nel suo futuro c'era la salvezza che aveva cercato fuggendo da Hxarin-sur.

Si arrestò bruscamente quando giunse di fronte al lazzaretto. Non c'era nulla che distinguesse quell'edificio dal resto di Jounan, ma lei sapeva bene cosa avrebbe visto se avesse osato entrarvi. Deglutì, indietreggiando di qualche passo. Aveva evitato di venire fino a lì fino ad allora – non tanto per evitare di essere contagiata e di uccidere il bambino insieme a se stessa, quanto per non avere conferme delle condizioni in cui si trovavano i suoi cari.

Ma presto avrebbe potuto smettere di preoccuparsi. Il suo amante e la sua amica sarebbero tornati in salute, e si sarebbero lasciati alle spalle quel posto impregnato di malattia per tornare a vivere insieme a lei in quella che, anche se per poco tempo, era stata la loro vera casa. Lì dentro sarebbe nato anche suo figlio, e si sarebbero assicurati che crescesse in serenità, senza mai dover affrontare i pericoli a cui loro erano sfuggiti a malapena. Quelle ultime settimane si sarebbero dissolte come un incubo.

Si costrinse finalmente a muovere gli ultimi passi verso la soglia. Non era necessario che la attraversasse. Si sarebbe limitata a lasciare lì la medicina e sarebbe tornata indietro, pronta a svolgere un altro incarico.

Individuò, sul davanzale della finestra che si apriva accanto alla porta, la struttura bucherellata di ceramica destinata ad appoggiare le anforette, e si affrettò a raggiungerla e inserire quella che reggeva in uno dei fori, prima di allontanarsi altrettanto rapidamente. La tenda che copriva la finestra avrebbe dovuto fungere da barriera per la malattia, ma non era disposta a rischiare.

Era appena indietreggiata, quando il bambino scalciò con tanta violenza da toglierle il fiato, come ad attirare la sua attenzione. Sibilò tra i denti e si irrigidì, sperando che fosse solo un segno che il suo primogenito sarebbe nato sano ed energico, non un cattivo presagio.

Quando spostò nuovamente gli occhi sull'entrata dell'edificio, vide il tessuto che la copriva incresparsi.

Mejri si fece da parte per non ostruire la strada al mezzosangue che stava uscendo. Capì cosa fosse successo dalla sua espressione cupa, prima ancora che dalle prese della barella che stava stringendo con forza.

L'uomo uscì senza guardarla, seguito dal compagno che reggeva la lettiga insieme a lui. Il corpo era quasi completamente avvolto da un'ampia coperta, lasciando visibili, inizialmente, solo un braccio maculato che pendeva inerte e lunghi capelli neri che sfioravano la sabbia. Un altro soffio di vento mosse la stoffa abbastanza da scoprire appena il volto delicato di una giovane donna.

Mejri sentì le gambe cedere. Barcollò e riuscì a malapena a mantenere l'equilibrio, tenendo lo sguardo fisso sul corpo, anche mentre veniva portato via. Non aveva altra scelta – il resto del mondo pareva essersi oscurato. Mentre il respiro congelava sulle sue labbra, riuscì a pensare che fosse una fortuna che avesse già poggiato la medicina. Avrebbe potuto farla cadere.

Ma a Sil, comunque, non sarebbe più servita.

...

Kael sentiva ancora formicolare sotto la pelle il desiderio di combattere. Cedergli gli avrebbe giovato – gli avrebbe impedito di pensare e avrebbe placato il suo cuore abbastanza a lungo da dargli una parvenza di pace.

Ma non era per quello che era arrivato fino a lì.

La sua gente lo aveva onorato nel sceglierlo per accompagnare la delegazione che avrebbe deciso fino a che punto avrebbero vinto. Il pensiero avrebbe dovuto dargli conforto, ma era stato il sangue che aveva versato a renderlo degno dell'orgoglio del suo popolo, non le sue capacità di trattare per la pace.

Non era quello che gli era stato chiesto – qualcun altro più capace, meno desideroso di vendetta, avrebbe negoziato al suo posto. Lui non doveva fare altro che vigilare perché i loro nemici non approfittassero di quell'istante di calma per tentare di nuovo di schiacciarli.

Vederli così da vicino, in battaglia, non lo aveva turbato tanto quanto lo faceva ora costringersi a restare fermo di fronte a loro, anche se il suo istinto gli gridava di attaccare o fuggire. Poteva scorgere ogni cicatrice sui visi dei nemici – chiedersi quante fossero state causate da lui lo aiutò a non perdere completamente il controllo, per il momento – ogni accenno di collera nella maschera dura e inespressiva che ognuno di loro indossava. Sulla terraferma non era veloce come poteva esserlo in mare, e non era abbastanza lontano da salvarsi se uno di loro avesse allungato una mano per afferrarlo, per intrappolarlo prima che potesse opporre resistenza...

Inghiottì un fiotto di bile, cercando di distogliere lo sguardo da quello che, a giudicare dal modo in cui i suoi compagni lo guardavano e dallo scarlatto sgargiante della sua veste, doveva essere il generale umano, di convincersi che non si sarebbe scagliato contro di lui non appena avesse smesso di guardarlo. I suoi occhi, di un verde brillante, gli parevano così familiari da dargli la sensazione che lo stessero scuoiando vivo, ma riuscì a restare immobile al proprio posto. Si aggrappò al tridente. Almeno, se ne avesse avuto bisogno, questa volta avrebbe potuto combattere.

Si irrigidì quando l'uomo che stava osservando si mosse. Si aspettava che prendesse in mano la sciabola che portava alla cintura e li aggredisse, ma lui si limitò a incrociare le braccia e ad aprire la bocca per parlare. Il rollio del mare, intorno a lui, coprì le sue parole, o forse le aveva solo pronunciate troppo piano perché potessero essere udite. Kael si chiese se lo avesse fatto di proposito, perché nessuno si accorgesse degli insulti o delle maledizioni che stava scagliando.

Prima che avesse il tempo di intervenire, l'uomo si schiarì la gola e parlò di nuovo, ma aveva usato la lingua umana e le sue parole risultarono ancora incomprensibili. Un'esile figura si fece strada a passi esitanti tra le file del nemico, fino a giungere a fianco del generale.

Un mezzosangue.

Kael sentì la bocca seccarsi. Per un fuggevole istante – non abbastanza breve da non accendere una fiamma nella sua mente – gli era parso di vedere Dryiler, al posto dello sconosciuto.

Ma non poteva esserlo. Dryiler era morto. Se ne era assicurato lui stesso, e questa volta, quando se lo era lasciato alle spalle, si era assicurato che avesse smesso di respirare, anche se la quantità di sangue che era sgorgata dalla sua gola squarciata sarebbe stata sufficiente a fugare ogni dubbio.

In ogni caso, il giovane che si trovava davanti non era lo stesso che suo fratello aveva ucciso. Non aveva neanche le ustioni sul viso, solo uno sfregio diagonale che gli apriva in due la guancia destra. Il pensiero di come se lo fosse potuto procurare lo fece rabbrividire, ma si sforzò di non mostrarlo.

Eppure, nonostante la cicatrice, il mezzosangue teneva la testa alta, gli occhi ardenti come fiamme azzurre. Il generale umano disse qualcos'altro e lui annuì. "Siamo disposti ad accettare le vostre condizioni" tradusse. Il suo mape era quasi perfetto, ma l'accento che storpiava le sue parole non faceva nulla per aumentarne la credibilità.

Il più anziano dei sacerdoti chinò il capo. "È la scelta migliore per tutti noi" commentò. Se i loro avversari avevano notato il suo tono pungente, non lo dimostrarono. "Quale garanzia possiamo avere? Noi tendiamo a mantenere i nostri patti, ma..."

Uno degli umani commentò qualcosa, ma il suo comandante lo fermò alzando una mano, prima di continuare a parlare. Il mezzosangue tradusse le sue parole quasi immediatamnente. "Voi non ci attaccherete e non disturberete i nostri commerci" riprese, "e noi in cambio libereremo tutti gli schiavi e ve li consegneremo entro tre giorni." Un'ombra passò sul suo viso, anche se non si trasmise alla sua voce. Kael si chiese che fato potessero avere i mezzosangue come lui, impossibilitati a raggiungere un mare che non li avrebbe mai lasciati respirare, e se fossero destinati a prendere il posto dei mape che avessero ritrovato la libertà.

Era un bene che la tortura che aveva subito in quei mesi non avesse mai portato a dei figli. Molte donne del suo popolo non erano state altrettanto fortunate.

Il generale umano gonfiò il petto ampio, inspirando a fondo, prima di parlare di nuovo, più lentamente, più piano. Il mezzosangue si voltò di scatto nella sua direzione, porgendogli quella che pareva una domanda, ma l'altro rispose quasi ringhiando, costringendolo a voltarsi e a tradurre ancora una volta.

A Kael parve di scorrere un accenno di sorriso sulle sue labbra quando parlò ancora. "Se i patti non dovessero essere rispettati, il mio padre in cambio è disposto a offrire la propria vita come compensazione."

Il sacerdote batté le palpebre. Kael scorse alcuni tra i propri compagni accarezzare le armi che tenevano in pugno. Sarebbe potuta essere una trappola, e una parte di lui si aspettava che gli umani approfittassero di quell'istante di sconcerto per dare inizio a uno scontro.

Quasi lo desiderava. Avrebbe assaggiato il loro sangue ancora una volta.

Un altro dei sacerdoti – non uno di quelli di Iserb – si affrettò ad annuire, prendendo la parola al posto del compagno. "E in quanto alla punizione per gli schiavisti?"

Il loro interlocutore strinse le labbra e aggrottò la fronte. Il mezzosangue abbassò lo sguardo, traducendo la sua risposta. "Non possiamo concederla" iniziò. A Kael parve che la sua voce si stesse incrinando, anche se quasi impercettibilmente. "Ma nessuno di loro sarà più in grado di nuocere."

Non era abbastanza.

Kael strinse i denti fino a quando la mascella non iniziò a dolergli. Uccidere la sua padrona non era bastato a placarlo, a salvare la sua anima. Nessuno dei suoi compagni prigionieri sarebbe stato in pace fino a quando i loro torturatori non fossero stati tutti morti. Solo così il suo popolo avrebbe avuto certezza di essere al sicuro, e solo così i torti che aveva fatto sarebbero stati ripagati.

I sacerdoti si scambiarono un'occhiata, ma Kael non vide sulle loro labbra la protesta che rimaneva intrappolata nella loro mente. Dovevano avere discusso quella possibilità, abbastanza a lungo da potervi acconsentire. Abbastanza a lungo da ritenere accettabile lasciare la loro gente senza la vendetta che era loro dovuta. "Va bene" rispose finalmente il più anziano. "A patto che teniate fede alle vostre promesse. In caso contrario, saremo pronti a esigere di più."

L'umano annuì. Qualche uomo tra le sue file lo imitò. Kael si domandò quanti di loro fossero sollevati di fronte alla loro clemenza.

Non voleva credere alle parole che aveva udito. I sacerdoti non avrebbero mai dovuto permettere un singolo affronto, non avrebbero dovuto sputare in quel modo sulla memoria di Skitnal, o di tutti gli altri che erano stati uccisi o avevano subito un destino peggiore.

Inghiottì la risposta che avrebbe voluto dare loro, concentrandosi sulla pietra liscia sotto i propri piedi e respirando a fondo. Doveva rimanere calmo. Il loro rifiuto non cambiava nulla.

Se nessuno avesse voluto dargli la giustizia per cui aveva lottato tanto a lungo, se la sarebbe presa da solo.

La traiettoria era sgombra. Avrebbe preferito essere in grado di avvicinarsi, ma avrebbe attirato troppa attenzione, e non sarebbe più riuscito ad agire. Ma dopo tutte le battaglie a cui aveva preso parte, era diventato abile nel colpire a distanza.

Smise di pensare e scagliò la lancia.

La punta acuminata attraversò senza difficoltà il petto esposto del comandante umano. L'uomo crollò al suolo senza emettere un lamento, morto prima ancora di toccare terra. Il suo sangue venò di scarlatto la roccia, lambendo i piedi di coloro che lo avevano circondato.

Il tempo parve essersi fermato. Per un momento, nessuno parlò o si mosse, ma Kael sentiva tutti gli occhi puntati su di sé, come quel giorno mai abbastanza lontano al mercato degli schiavi. Eppure, anche se non udiva altro suono che quello del proprio respiro affannato, il battito del suo cuore era sempre più calmo.

Anche mentre le urla cominciavano a esplodere attorno lui, anche mentre si rendeva conto che le grida della sua gente non erano di gioia. Anche mentre mani robuste gli piegavano le braccia dietro la schiena e lo trascinavano via.

Le sue orecchie ignoravano il caos che era sbocciato, ma i suoi occhi, prima che venisse sospinto verso il mare, colsero il riflesso cremisi del sangue sotto la luna, e, anche se non sapeva cosa stesse per succedere, le sue labbra si incurvarono inesorabilmente in un sorriso.

Sarebbe scorso altro sangue, e forse altri mape avrebbero dovuto dare la vita – ma la terraferma avrebbe pianto i propri figli. E tra la gente del mare, coloro che non fossero morti sarebbero stati salvi, per sempre al riparo dalla vergogna e dalla schiavitù. La prossima vittoria che avessero celebrato sarebbe stata definitiva, e lui l'avrebbe percepita e ne avrebbe gioito, anche se forse non ci sarebbe stato per vederla.

Gli altri potevano anche essersi arresi, ma lui aveva compiuto il proprio dovere, e non poteva pentirsene.

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