Capitolo sessantadue
"Dove stai andando?" Era solo un sussurro, ma fu sufficiente a squarciare il silenzio della notte e a far trasalire Lienhe. L'hiry si voltò di scatto, anche se il movimento brusco gli diede la sensazione che una lancia di metallo rovente gli avesse trafitto la schiena.
Sapeva che l'udito di Gakaen era acuto quanto il suo, e che i propri passi erano diventati più pesanti da quando erano diventati l'unico modo che aveva di spostarsi, ma non aveva creduto di avere fatto abbastanza rumore da svegliare l'umano. L'altro era seduto e aveva il viso ancora segnato dal sonno, ma lui non dubitava che fosse abbastanza vigile da riconoscerlo.
"Lasciami in pace" quasi ringhiò, ma se ne pentì immediatamente quando scorse la smorfia che attraversò il viso pallido del suo interlocutore. "Scusami" aggiunse più gentilmente. "Ho solo bisogno di un attimo di solitudine."
Gakaen non gli rispose e non si alzò, rannicchiando le braccia al petto, ma rimase voltato nella sua direzione. Nonostante fosse consapevole che non poteva essere così, a Lienhe parve quasi che lo stesse fissando.
Con un sospiro, si voltò e proseguì nel cammino. Il suono di foglie schiacciate gli confermò che le sue parole non erano bastate a far desistere il suo compagno. Si gettò un'occhiata alle spalle in tempo per vedere Gakaen alzarsi con un movimento fluido, il viso ancora rivolto verso di lui, anche se si immobilizzò presto in attesa di un indizio che gli permettesse di muovere il passo successivo.
Lienhe strinse le labbra ed espirò, trattenendosi dall'esprimere i propri pensieri. Era chiaro che il suo compagno non avrebbe esaudito la sua richiesta. Urlargli contro non avrebbe fatto altro che farlo sentire peggio, e avrebbe rischiato di svegliare gli altri.
Raggiunse Gakaen e lo prese per un braccio, attirandolo a sé con tutta la delicatezza che riuscì a trovare in sé. "Sto bene" gli sussurrò a denti stretti. "Non ho intenzione di scappare..." Evitò di dire ad alta voce ciò che sapevano entrambi. Non sarebbe potuto fuggire neanche volendolo. Il massimo che avrebbe potuto fare sarebbe stato perdersi nella foresta e farsi divorare dalle sue radici sempre più intricate, o tentare di uscirne per gettarsi tra le braccia di coloro che ancora davano loro la caccia. "O di farmi ammazzare" aggiunse a malincuore.
L'espressione dell'umano non cambiò. "Voglio solo assicurarmene" replicò a voce altrettanto bassa. "Lo so che per te e Nizkam è... particolarmente difficile accettare quello che è successo, e non voglio..."
Lienhe non voleva ascoltare oltre. Lasciò andare la presa sul ragazzo come se si fosse scottato, allontanandosi di un passo. Il dolore che attraversò i suoi muscoli non fece nulla per placarli. "Cosa ne sai?" sibilò. "Non hai idea di cosa significhi..."
Si fermò prima di poter finire la frase. Gakaen non poteva vederlo, ma i suoi occhi rimasero puntati su di lui come a trafiggerlo. La smorfia che gli aveva attraversato il viso fu più eloquente di qualunque risposta avesse potuto dare.
Lienhe affondò i denti nel labbro inferiore fino a quando la sua mente non registrò il dolore. Avrebbe dovuto imparare a controllarsi. Nizkam si era a malapena lamentato dall'inizio della loro fuga, anche se aveva perso la sua casa e l'uomo che aveva chiamato fratello insieme alle gambe.
Gakaen fece a sua volta un passo indietro. "Stai male. Lo so" replicò, e la sua voce non condivideva la calma forzata che era tornata sul suo viso. "Ma pensi che non sappia cosa significhi avere un corpo che non funziona come dovrebbe? Pensi che non sappia come ci si senta a essere considerati inutili anche dalla propria mente?"
L'hiry non riuscì a guardarlo oltre. Avrebbe dovuto ricordare le condizioni in cui aveva trovato l'umano al momento del loro primo incontro. Avrebbe dovuto rimembrare la casa che aveva perso e la famiglia che lo aveva abbandonato.
A lui e Nizkam non era successo lo stesso. I loro compagni non se li erano lasciati alle spalle, nonostante le loro ferite. E al contrario dell'altro, lui poteva ancora camminare e correre, anche se sarebbe rimasto per sempre lontano dal mondo a cui era stato destinato fin dalla nascita.
Gakaen non attese la sua risposta, limitandosi a un respiro profondo fino a quando il suo viso latteo non tornò quasi inespressivo. "Posso capire che sia difficile abituarsi" riprese, abbassando ulteriormente la voce. "Non so cosa voglia dire possedere la vista, quindi non posso sapere cosa significhi perderla. Posso capire che tu ti senta in lutto."
Lienhe fu grato che l'umano non potesse vedere le lacrime che erano affiorate ai suoi occhi nell'udire le sue parole. Non gli sarebbe mancato il cielo, se la sensazione dell'aria tra le piume non fosse venuta a infestare i suoi sogni, se la brezza che riusciva a penetrare tra gli alberi non lo avesse spinto troppo spesso a spalancare le ali solo per rendersi conto che una delle due non rispondeva ai comandi della sua mente.
Si sentiva come si era sentito nei mesi in cui era stato schiavo, ma questa volta non avrebbe avuto abbastanza fortuna da trovare una via di fuga.
"La persona che più amavo al mondo aveva perso entrambe le ali" fu tutto ciò che riuscì a sussurrare come risposta. "Pensavo che vi fosse abituato, e che mi sarei abituato anch'io. Ma..." La sua voce tremò contro il suo controllo. Il desiderio di scoppiare in pianto era abbastanza forte da fargli dolere il petto. "Continuo a sentirmi come se fossi già morto."
Non avrebbe dovuto ammetterlo. Sarebbe sopravvissuto. Lo aveva promesso a Kirthum. Ma non riusciva a immaginare di poter continuare a vivere sapendo che il cielo era ancora sopra di lui, e che non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo.
Al suo posto, il suo amico – il suo unico amore – era stato abbastanza forte da tollerarlo, da ricostruire la propria vita. Ma lui non avrebbe mai avuto la stessa forza.
Gakaen gli passò un braccio intorno alle spalle, facendolo sussultare. Per un momento, a Lienhe parve che sostenendo lui piuttosto che se stesso. Il calore che emanava dalla pelle dell'umano parve portare via il gelo della notte, penetrare in lui. "Lo so" si limitò a mormorare. "Imparerai a conviverci, perché non puoi fare altro, ma... ci vorrà tempo. Lo capisco."
L'hiry si sforzò di non fare rumore, anche se respirare stava diventando sempre più difficile. Chinò la testa e lasciò che ogni cosa svanisse, fuorché il tocco gentile dell'altro.
Lui non era stato altrettanto dolce quando si erano incontrati. Per un breve momento, aveva anche considerato di uccidere l'umano nonostante la sua innocenza – solo per dare a Kirthum una vendetta che sarebbe stata vana in ogni caso.
E ora sentiva ancora di non poter immaginare del tutto come si fosse sentito Gakaen mentre moriva lentamente, solo tra la terra e le foglie, consapevole che la sua gente non lo aveva considerato degno di seguirli...
"Sei stato al mio fianco quando tutti gli altri mi avevano abbandonato" sussurrò ancora l'altro. "Lascia che io stia con te adesso."
Lienhe non era sicuro di meritarlo, ma non si era reso conto di quanto avesse bisogno di qualcuno che lo toccasse fino a quel momento. Tutti gli altri avevano continuato a evitarlo, a guardarlo come se temessero che si sarebbe rotto solo a sfiorarlo. Ma ora Gakaen lo stava stringendo, e lui non stava andando in pezzi.
Avrebbe voluto ringraziarlo, ma tutto quello che riuscì a fare fu scoppiare in lacrime. Provò a trattenersi, a non fare rumore, come aveva fatto già per troppi giorni, ma questa volta la sensazione del calore che lo circondava glielo impedì. Non sarebbe riuscito a fermarsi neanche se lo avesse voluto.
Gakaen lo tenne stretto fino a quando il pianto non si placò.
...
Il villaggio era ancora un'ombra azzurrina in lontananza, ma si stava avvicinando sempre di più. Dhnir smise di forzarsi a camminare, fermandosi a osservarlo.
Forse avrebbe dovuto proseguire, passargli accanto e svanire nella nebbia che sorgeva dall'orizzonte.
Dopo che Thadrez se n'era andata, aveva proseguito per tre giorni, anche se a ogni suo passo gli era parso di affondare sempre di più in un sogno. Aveva lasciato che la traccia, sempre più vivida, dell'odore della sua gente lo conducesse a casa, ma la sua mente era rimasta immersa nel torpore. Non voleva sapere cosa avrebbe sentito se si fosse svegliato.
A volte, quando si decideva a fermarsi per dormire – solo perché troppo sfinito per continuare a muoversi – credeva di vederla ancora al proprio fianco, di rivedere il suo sorriso. In altri momenti, quasi si convinceva che lei non fosse mai stata reale.
In altri, iniziava a credere di essere ancora a Erui, e c'erano istanti in cui neanche il pensiero di svegliarsi ancora prigioniero bastava a sciogliere il gelo che pareva essersi impadronito del suo cuore.
Eppure, ora stava per raggiungere l'obiettivo che aveva inseguito per anni. Avrebbe dovuto gioirne.
Rimase a fissare la sagoma del suo villaggio, senza sapere se stesse temendo o sperando che svanisse. Il vento gelido, sfrecciando al suo fianco, pareva urlargli di andarsene.
I muscoli del suo braccio ebbero uno spasmo, gonfiandosi sotto la sua pelle. Li fissò con scarso interesse, aspettando di vedere se avessero intenzione di rilassarsi o se intendessero mutare di nuovo. Il suo corpo era passato da una forma all'altra più volte di quante fosse in grado di ricordare in quei giorni, trasformando l'orso in uomo e viceversa quasi senza che lui se ne accorgesse.
Aveva smesso di curarsene. Non era riuscito a trattenersi nel momento giusto. Non avrebbe fatto alcuna differenza se ora lo avesse fatto o meno.
Almeno, da quando aveva smesso di opporre resistenza, la trasformazione non era più dolorosa. Non per il suo corpo.
Il vento soffiò nella sua direzione, costringendolo a schermarsi il viso. L'odore della sua gente gli giunse ancora più vivido. Si chiese se lui stesso lo portasse ancora su di sé. Forse i suoi compagni non lo avrebbero riconosciuto, e lo avrebbero scacciato, consegnandolo alla bufera perché vagasse fino a impazzire e morisse da solo nella neve.
Sarebbe stato così diverso dal fato che meritava?
Un altro brivido incontrollato lo attraversò. Sentì il viso cambiare forma, ma la sua pelliccia non tornò ad apparire. Prese un respiro profondo, sperando che la sua forza di volontà bastasse a far progredire la mutazione, ma tutto ciò che ottenne fu la sensazione del suo cranio che tornava ad assumere una forma completamente umana.
Avrebbe preferito l'orso. La sua mente ferina tendeva a formulare meno pensieri, ad aggrapparsi a meno ricordi.
Era arrivato troppo lontano per fermarsi. Aveva rischiato di morire e messo in pericolo tutte le belve per una possibilità di fuggire da Erui, seguendo le parole di un sogno. Sacrificare Shera era stato necessario per giungere fino a lì. Sacrificare Thadrez non sarebbe dovuto essere diverso.
Non poteva vanificare tutte le perdite che aveva dovuto accettare. Avrebbe dovuto convivere con ciò che aveva fatto in ogni caso. Forse sarebbe riuscito a tollerarlo meglio, se fosse stato tra la sua gente – se avesse raggiunto il suo obiettivo. Forse ogni lacrima che aveva versato sarebbe stata ripagata, se ci avesse creduto davvero.
Strinse i pugni e si costrinse a continuare a camminare. Doveva raggiungere il villaggio prima di cambiare idea. Non doveva lasciarsi trascinare giù dai ricordi di ciò che era successo negli ultimi due anni, non poteva permettere loro di annegarlo.
Una volta che fosse tornato a casa, avrebbero smesso di tormentarlo con tanta determinazione.
A ogni passo affondava un po' di più nella neve. Considerò di lasciare che la coltre candida ai suoi piedi lo imprigionasse, prima di scuotere la testa e tornare a concentrarsi sull'orizzonte. Mantenne lo sguardo fisso sull'orizzonte. Non doveva esitare. Non così vicino alla meta.
Non seppe quanto tempo ci volle prima che potesse iniziare a distinguere bene le abitazioni, la neve cosparsa sui piatti tetti rotondi e la palizzata d'abete che le circondava. Si chiese se la sua casa fosse ancora in piedi, se fosse stata abbattuta o se qualcun altro vi si fosse insediato. Sperava che ci fosse ancora un posto per lui.
Se non ci fosse stato, avrebbe sempre potuto attendere di essere spazzato via dalla prima tempesta che fosse venuta.
Avanzò ancora, a fatica, fino a scorgere le figure umanoidi che sorvegliavano la cinta. Loro dovettero essere in grado di vederlo a loro volta, perché uno di loro portò una mano alla fronte e si voltò a parlare con il compagno prima di tornare a rivolgere lo sguardo nella sua direzione. "Chiunque tu sia, allontanati!" gridò, abbastanza forte da sovrastare l'urlo del vento. "O saremo costretti a reagire!"
Nonostante le parole, la sua voce suonò giovane e insicura alle orecchie di Dhnir. L'uomo non lo aveva ancora identificato, e doveva temerlo più di quanto lo temesse lui. Forse pensava che fosse solo il primo di un esercito, venuto finalmente a radere al suolo il villaggio con nuove armi contro cui la loro seconda forma non avrebbe potuto nulla. Al suo posto, lui avrebbe provato la stessa paura.
Ma saperlo non placò l'orso. La bestia eruppe di nuovo dall'interno della sua anima, ricoprendo il suo corpo con la propria forma massiccia e implacabile, pronta ad annientare qualunque minaccia. Confinata in un angolo della sua mente, la sua parte umana gli urlò di fermarsi, di non attaccare ancora.
Non doveva fare alla sua gente ciò che aveva fatto a Thadrez.
La sua ragione non riuscì a prendere il controllo abbastanza da invertire la trasformazione, ma l'allarme che lanciò fu sufficiente a bloccare le enormi zampe, costringendole a proseguire con calma, senza lanciarsi nella carica con cui avrebbe potuto distruggere le proprie prede.
L'uomo di guardia si rilassò visibilmente e disse qualcos'altro alla seconda sentinella, e quest'ultima tornò quasi subito a rivolgersi a Dhnir. "Identificati" lo chiamò, in tono più amichevole rispetto all'altro, "e sarai il benvenuto. Non lasceremo nessuno dei nostri fratelli in balia della tempesta."
Una parte di lui si chiese se le parole fossero sincere. Un'altra si convinse che lo fossero, e si fece abbastanza forte da ammansire l'orso per fare spazio all'uomo. Le sue zampe mutarono nuovamente in gambe, facendogli perdere l'equilibrio. Prima di potersi fermare Dhnir si trovò accoccolato nella neve, a osservare il proprio respiro che si condensava.
Si chiese se non dovesse restare lì. Ma non poteva. Non ora che era così vicino.
Sentì la neve scricchiolare sotto i passi rapidi di una delle guardie. L'ombra scura dell'uomo lo coprì. Non riuscì a distinguere bene il suo viso in controluce, o forse era solo la stanchezza a confondere i suoi lineamenti, ma riconobbe la voce. Non era la stessa che gli aveva parlato pochi minuti prima, ma parve emergere vivida dai suoi ricordi. "Dhnir? Sei davvero tu?"
Batté le palpebre, sperando che la vista gli confermasse ciò che l'udito gli aveva mostrato. Il viso che la sua mente associava alla voce gli era parso nebuloso per tutti i mesi che aveva passato lontano dal suo villaggio, ma ora lo rimembrava chiaramente. "Seralin?" chiamò. Lo vide trasalire.
La mano forte dell'uomo gli strinse una spalla e lo aiutò a rimettersi seduto. Finalmente riuscì a distinguere il suo viso. Non si era sbagliato. Si stupiva più del fatto che Seralin lo avesse riconosciuto. "Credevo fossi già morto" disse l'altro, e un fremito gli attraversò la voce.
La vista di Dhnir trovò a farsi annebbiata, ma lui sorrise comunque, anche se il petto aveva iniziato a fargli male. "Sono a casa" rispose.
E sperava di potersi fermare, finalmente.
...
Nell'istante in cui oltrepassò la palizzata, Dhnir si sentì assalire dalle vertigini. Le sue gambe tremarono, come se i muscoli non sapessero se continuare a sostenerlo o mutare di nuovo forma. Barcollò, aspettandosi di cadere di nuovo nella neve, ma Seralin lo sostenne.
"Stai bene?" gli sussurrò gentilmente. "Non ho neanche controllato se fossi ferito..." Dhnir scosse la testa e si sforzò di sorridere. "Non mi aspettavo che gli odori fossero così intensi" si scusò. "Non vi sono più abituato..."
Era stato circondato da keryn a Erui, ma erano tutti stranieri, e la maggior parte di loro non era vissuta abbastanza a lungo perché imparasse ad associare il loro odore a quello di una nuova famiglia. Per molto tempo non aveva conosciuto qualcuno che gli desse la stessa sensazione che mettere nuovamente piede nel suo villaggio gli stava portando.
Tranne Cirhen e Shera, per un breve periodo. E Thadrez...
Seralin annuì come se avesse detto un'ovvietà. Non aspettò che avessero varcato il confine per porgli la domanda che aveva tanto temuto. "Cosa è successo agli altri? Non... non è tornato nessuno?"
Dhnir si limitò a non rispondergli. Non aveva bisogno di rievocare i ricordi del passato in quel momento. Avrebbe rischiato di perdere di nuovo il controllo. Quella notte, forse, quando avesse dormito da solo, si sarebbe permesso di piangere Hjkyan.
Seralin lesse la sua espressione e abbassò lo sguardo con una smorfia. "Mi dispiace. Non avrei dovuto chiederlo." Lo lasciò gentilmente andare, ma a Dhnir non sfuggì la rapidità con cui gli diede le spalle.
Si affrettò a raggiungerlo, e udì dietro di sé i passi della seconda guardia. Si voltò a guardarlo, ma ancora non riuscì a riconoscere il suo viso o la sua voce. Lo aveva dimenticato, o non lo aveva mai visto? Quanto era cambiata la sua casa, da quando se ne era andato?
Percepiva gli occhi dello sconosciuto trafiggergli la nuca, e si chiese se in qualche modo potesse vedere tutto ciò che aveva fatto in quegli anni. Gettò un'occhiata fugace alle proprie mani, per assicurarsi che non si fossero trasformate di nuovo in artigli e che non fossero sporche di sangue.
Sembrava tutto normale. Forse era il suo odore a essere cambiato, a svelare tutte le sue azioni?
Si avvicinò all'altro quanto bastava perché potesse udire il suo sussurro. "Sono stati in molti a trasferirsi qui?" domandò. "E... in quanti se ne sono andati?" In quanti sono stati portati via, avrebbe dovuto chiedere, ma non ne ebbe il coraggio.
Seralin deglutì ed esitò prima di rispondergli, ancora senza guardarlo. "Laruk e Miarni sono morti l'anno scorso" gli sussurrò di rimando. "E Jarina è morta di parto qualche mese fa insieme alla figlia. Yerna si è sposato e si è trasferito nel villaggio di sua moglie, e Galarn..." Si interruppe per lanciarsi un'occhiata alle spalle. "È arrivato qui due anni fa, quando ha sposato Lalzin. La ricordi? La sorella di Lami." Dhnir annuì distrattamente, lasciandolo proseguire. "È l'unico nuovo arrivato. Gli altri si ricorderanno di te."
L'altro si domandò se fosse vero, e si chiese se lui stesso fosse ancora in grado di ricordare tutti coloro che un tempo erano stati i suoi compagni, la sua famiglia. Smise di pensarci quando Seralin si decise finalmente a confessargli ciò che gli aveva tenuto nascosto. "Quando arriverai, sulla pietra delle preghiere troverai anche i nomi dei quindici che sono stati... portati via dopo la tua scomparsa" disse, troppo piano, come se non volesse farsi sentire. "Almeno adesso potremo cancellare il tuo."
Un altro capogiro assalì Dhnir, anche se questa volta riuscì a mantenere il controllo del proprio colpo. Quindici erano troppi...
Di solito, i cacciatori di schiavi non li attaccavano quando erano in gruppo. Insieme a lui erano stati catturati altri venti membri del suo villaggio, ma era stata un'eccezione, e aveva sperato che non ce ne fossero altre. Forse avrebbe dovuto considerare una fortuna che solo quindici fossero stati rapiti nell'arco di due anni, ma restava una perdita troppo grande. Se ce ne fossero state altre, presto della sua gente non sarebbe rimasto più nulla.
E nessuno di quei quindici era giunto a Erui. Dovevano essere stati portati in città minori, o erano stati uccisi o erano morti di stenti lungo il cammino. Certamente, nessuno di loro era tornato, e lui dubitava che potessero farlo in futuro.
Era il solo a cui fosse stato concesso un simile privilegio.
Continuò a seguire Seralin, nonostante le vertigini e la sensazione di camminare in un sogno. Dapprima furono solo due figure ad avvicinarsi, attratte dal rumore o forse pronti a dare il cambio alle due sentinelle. Batté le palpebre e le riconobbe – Ermzin e Keland. Anche loro si arrestarono quando videro il suo volto. "Dhnir?" domandò Ermzin esitante.
Lui recuperò il sorriso, sperando che coloro che lo stavano guardando non potessero scorgere i pensieri che vi si trovavano sotto. "Sono tornato." Pareva ancora una menzogna.
I kery che si erano trovati all'aperto rivolsero la propria attenzione a lui, e anche coloro che si erano trovati all'interno delle proprie case si sporsero cautamente dall'uscio per vedere cosa fosse successo. I loro visi familiari fluttuarono nella sua mente come fantasmi.
Fu Lami la prima tra loro ad avvicinarsi. I suoi passi erano leggeri come un tempo, e Dhnir avrebbe potuto credere che il tempo non fosse mai trascorso, se non fosse stato per il bambino di pochi mesi che reggeva tra le braccia. Keland si fece da parte per permetterle di raggiungerlo, e lei si fermò solo quando fu giunta abbastanza vicina da poterlo toccare.
"Ti credevo morto" mormorò alla fine. "Sono felice di essermi sbagliata."
Lui avrebbe voluto rispondere, ma non fece in tempo. La folla si sciolse in mormorii confusi e si accalcò intorno a lui, tentando di capire se la sua presenza fosse illusione o realtà.
Alcuni lo fissavano come se non fosse reale, avvicinandosi per toccarlo. Altri addirittura sorridevano. Qualcuno chiamò il suo nome, ma non avrebbe saputo dire chi. Avrebbe voluto rispondere, ma il suo primo istinto fu di indietreggiare, e resistette all'impulso di voltarsi e fuggire solo perché faticava a muoversi.
Avrebbe dovuto gioire. Era di nuovo con la sua gente, come se quegli anni fossero stati solo un incubo. Ma tutto ciò che provava era una sensazione crescente di soffocamento.
Mosse un altro passo indietro, tendendo le mani per allontanare la folla e crearsi uno spazio in cui respirare liberamente. Avrebbe voluto implorare loro di andarsene e di non guardarlo, dire loro che non era ancora pronto a rivederli, ma la sua lingua si rifiutava di formare le parole, rimanendo contro il suo palato, secca e insensibile. Per quanto tentasse di allontanarsi, l'odore della sua casa lo investì con ancora più violenza di quanto avesse fatto prima, dandogli la sensazione che il suo cuore stesse per esplodere.
Lo riconosceva. Lo aveva desiderato e sognato. Ma non era più il suo.
E non era più l'odore dell'orso che emerse squarciando la sua pelle umana, snudando le zanne e gli artigli contro coloro che aveva desiderato riabbracciare.
Per un momento, almeno, funzionò. Qualcuno urlò, e lui scorse la folla ritrarsi, e riconobbe vagamente Lami allontanarsi, ancora stringendo il bambino tra le braccia, prima che i suoi lunghi, spessi artigli potessero sfiorarla.
Gettò un bramito e cercò una via di fuga, ma l'unico modo di crearsela sarebbe stata fare a pezzi i corpi che lo ostacolavano. Qualcun altro che non fu in grado di riconoscere si trasformò, pronto a contrastarlo con le sue stesse armi. Percepiva la propria parte umana piangere disperata dentro di sé, troppo lontana perché potesse raggiungerla e ascoltarla davvero.
La minaccia non se n'era andata. Sollevò una zampa e si preparò a colpire. La sua coscienza intrappolata lanciò un grido, ma la sua parte ferina pregustò il calore del sangue, il modo in cui avrebbe macchiato la neve.
Stava per colpire, e non riconobbe il viso di quella che sarebbe stata la sua prossima vittima, ma prima di calare gli artigli si rese conto di chi fossero gli occhi che lo fissavano terrorizzati.
Thadrez.
Il nome riemerse dalla sua coscienza, facendosi strada in quella del mostro. Le sue zampe si fermarono a metà del colpo, prima di poter versare sangue.
La rapidità con cui cambiò forma gli tolse il fiato. Annaspò e perse l'equilibrio, rannicchiandosi su se stesso, in attesa dell'attacco che lo avrebbe punito per il suo tradimento, ponendo fine alla sua esistenza.
Era ciò che meritava. Era stato uno stolto a credere che la sua maledizione non avrebbe travolto anche quel poco che gli era rimasto. Avrebbe fatto meglio a lasciarsi morire di fame nella neve, piuttosto che profanare la propria casa con ciò che era diventato.
Si sforzò di girarsi sulla schiena, esponendosi a coloro che aveva rischiato di ucciderli. Forse non erano solo la luce e le lacrime ad annebbiargli la vista, ma scorse comunque le sagome – uomini e orsi – che gli si avvicinavano, stavolta lente e caute, pronte ad abbattere la bestia che si era insinuata tra loro.
Si chiese se potesse rivedere suo fratello, o se la sua punizione fosse essere destinato a essere separato da lui anche nella morte. Prese un respiro strozzato, e si chiese perché non fosse ancora l'ultimo. "Fermatelo" disse.
L'ultima cosa che udì fu Seralin che gridava il suo nome.
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