Capitolo due

In un solo istante, cinquecento bende furono sciolte e novecentonovantotto occhi chiari – e due scuri – furono scoperti al sole accecante. Cinquecento coltelli scattarono e quattrocentonovantanove chiome bianche – e una nera – caddero a terra.

Kael respirava a fatica, guardandosi ciecamente intorno. I suoi polmoni non si erano ancora abituati alla superficie ed erano passati troppi anni dall'ultima volta che aveva osato sentire e vedere la luce del sole. Era troppo caldo. Aveva la sensazione di bruciare, o di avvizzire come un'alga lasciata troppo a lungo sulla spiaggia.

Cercò con lo sguardo suo fratello, ma non vedeva nulla. Pensò di essere diventato cieco.

Riusciva a udire delle voci. Troppe, tutte sconosciute, e troppo squillanti e compiaciute. Riusciva a comprendere solo alcune delle parole.

Anche così, sapeva benissimo cosa gli stessero facendo.

Da quel momento, avrebbe perduto la sua libertà. E la stessa sorte sarebbe toccata a tutti gli altri.

Dove sarebbe stato portato ora? Nessuno sapeva cosa gli uomini facessero ai mape quando li catturavano. Pochissimi erano riusciti a tornare in qualche modo, e nessuno aveva voluto raccontare cosa fosse successo. Le madri, per impedire ai figli di nuotare troppo vicini alla superficie o alla costa, raccontavano loro di sofferenze indescrivibili, ma lui non dubitava che la realtà potesse essere anche peggiore.

La sua vita sarebbe diventata proprietà di qualcun altro. Pregò che almeno non fosse qualcuno di particolarmente crudele.

Non poteva evitare il suo destino. Anche se avesse tentato di fuggire, non poteva ignorare le conseguenze. Si era imposto di accettarlo, non poteva tornare indietro.

I patti erano stati chiari. Nessuna guerra, nessun altro rapimento o violenza. Soltanto un ultimo tributo.

Soltanto cinquecento nuovi schiavi tra i dodici e ventuno anni, nessuno dei quali già sposato, in cambio della pace perpetua.

E lui aveva scelto di offrirsi. Era la cosa giusta da fare. Sapeva fin troppo bene quale fosse l'alternativa. Erano giunte testimonianze dalle città attaccate. Macchine in grado di sbrindellare la roccia e il corallo come se fossero stati fragile sabbia e fuoco capace di continuare a bruciare anche sotto il mare.

Non voleva quel destino per i suoi genitori.

Ma in quel momento avrebbe solo voluto che Skitnal non avesse deciso di imitarlo.

Non era riuscito a persuaderlo. Non avrebbe potuto costringerlo a nulla in ogni caso. Suo fratello si era rifiutato di lasciarlo andare da solo. Avrebbe potuto scegliere di restare e salvarsi. Non lo aveva fatto.

Non aveva capito che avrebbe condannato anche se stesso.

Gli occhi di Kael si erano abituati alla luce, e finalmente poté tornare a vedere. Riconosceva solo pochi tra i mape che lo circondavano, ma Skitnal era inconfondibile.

Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ignorando gli uomini che davanti a lui discutevano come se lui non fosse stato presente.

Kael aveva imparato solo poche parole del linguaggio degli umani di quella zona, ma poté riconoscere almeno una tra quelle che loro stavano pronunciando.

Impuro.

I suoi genitori si erano assicurati fin da subito che imparassero bene quello che significava. Era così che alcuni dei terreni chiamavano quelli come Skitnal.

Alcuni di loro nascevano più simili ai keryn che li avevano generati che alle sirene che li avevano concepiti. Potevano quasi sembrare umani. L'unica cosa che provava la loro vera natura erano le branchie e i segni bluastri sulla pelle.

Kael aveva sentito troppo spesso la madre implorare suo fratello di stare sempre lontano dalla superficie. Se lo avessero preso, era probabile che l'avrebbero ucciso subito.

E ora Skitnal era lì, completamente impotente e circondato, e lui non poteva aiutarlo. Solo ascoltare e cercare di capire, pregando di essersi sbagliato.

"Inutile."

Quello che aveva udito fu sufficiente a togliergli il fiato. Cercò di liberarsi, di raggiungere suo fratello mentre veniva trascinato via. "Skitnal!"

Non poteva lasciare che gli facessero del male. Ma erano entrambi troppo deboli, fuori dall'acqua. Neanche il corpo forte e robusto di Skitnal poteva aiutarlo in quel momento. Non potevano fare nulla per impedire alle loro strade di dividersi per l'eternità.

Qualcosa lo colpì alla nuca e Kael perse definitivamente l'equilibrio. Lottò per restare sveglio e rialzarsi. I suoi occhi chiari incrociarono quelli scuri di Skitnal prima di vederlo sparire definitivamente.

Per la prima volta da quando aveva scelto di offrirsi, versò una lacrima.

Fino a quel momento, aveva pregato che almeno non li separassero, che li lasciassero stare insieme ovunque fosse stata la loro destinazione. Aveva creduto che almeno sarebbero sopravvissuti entrambi.

Non poteva restare a guardare. Skitnal era sempre stato con lui. Lo aveva guidato e protetto fin dall'inizio. I loro giochi erano il suo primo ricordo.

Doveva combattere per lui, anche a costo della vita. Non poteva e non voleva continuare a vivere sapendo di averlo lasciato morire.

Ma il suo stesso corpo si rifiutava di obbedirgli.

Non sentì nulla quando mani violente lo rimisero in piedi a forza. Non reagì agli sguardi che si posavano su di lui, ai tocchi rudi sulla sua pelle e alle conversazioni che si svolgevano di fronte a lui. Anche il calore del sole gli sembrava quasi sparito.

Voleva convincersi che quello fosse un incubo e che dovesse solo attendere di svegliarsi.

                                                                                     ...

Lienhe si irrigidì, cercando di capire la provenienza del suono e sperando di averlo solo immaginato. Forse era lontano. Forse lo sparo era stato diretto a un animale.

Ma quando tornò a guardare Hapnyan, vide che era sbiancato. Kirthum aveva stretto Irgyvie a sé con più forza e guardava nella direzione da cui era venuto il rumore. Aveva le pupille dilatate e il suo respiro si era fatto troppo rapido.

Hapnyan non distolse lo sguardo dall'orizzonte, anche mentre parlava alla sorella. "Irgyvie, vai ad avvertire gli altri. Ordina loro di prepararsi... e fai attenzione." La donna annuì e spalancò le ali, ma lui la fermò con un gesto della mano. "E non volare finché non te lo dico io."

Lienhe la guardò allontanarsi e si sollevò in aria prima che Hapnyan gliene desse il permesso. Doveva vedere quanto fosse lontano il pericolo.

Volò abbastanza in alto da rendersi appena visibile a eventuali occhi umani, scrutando la terra con la propria vita acuta. Il suo cuore batteva molto più forte di quando si innalzava sopra la foresta per cacciare. Adesso non doveva più cercare una preda, ma predatori che la sua specie non era ancora in grado di affrontare.

Finalmente li vide. Si sentì invadere dal freddo e per un attimo credette che sarebbe caduto.

Erano umani, come aveva sospettato, ed evidentemente cacciatori. Anche da quella distanza, poteva vedere i loro fucili brillare sotto gli ultimi raggi di luce. Ne poteva distinguere una ventina, ma era possibile che fossero molti di più.

E si stavano dirigendo verso di loro.

Scese in picchiata prima che potessero notarlo. "Stanno venendo qui. Sono troppi per noi!" Si accorse che alle sue parole anche Kirthum era impallidito e il suo sguardo si era fissato nel vuoto. Non poté trattenersi dall'avvicinarsi a lui, sfiorandogli gentilmente una spalla finché non riuscì a farlo tornare alla realtà. Non aveva mai avuto o desiderato figli e non poteva immaginare cosa stesse provando in quel momento.

Hapnyan raddrizzò la schiena e aprì le ali ampie e forti. "Prima o poi avrebbero attaccato anche qui." replicò, con voce ferma e priva di emozione. "Dobbiamo fermarli prima che arrivino. Lienhe, vai a parlare con gli altri. Abbiamo bisogno di tutti quelli capaci di volare e di combattere. Mia sorella sa cosa deve fare."

"Vengo anch'io!" lo interruppe Kirthum. Gli tremava ancora la voce, ma stava guardando Hapnyan negli occhi. "Ti prego. Sono ancora utile. So combattere, posso aiutarvi. Per favore, non voglio..." L'altro lo fermò con un gesto e annuì.

Lienhe iniziò a correre verso il villaggio poco distante. Gettò un'occhiata verso di sé e vide la schiena nuda di Kirthum rilassarsi visibilmente. Si chiese se entrambi sarebbero sopravvissuti fino alla fine di quel giorno.

Si erano preparati per tutta la vita all'eventualità che succedesse qualcosa di simile, ma era probabile che nessuno di loro sapesse come affrontare quel momento. Lui, almeno, era certo di non essere pronto.

Non poteva tirarsi indietro. Quello non era il momento di avere paura.

Trovò Irgyvie impegnata a parlare con la madre vicino al fiume che scorreva al centro del villaggio. Le afferrò una mano, costringendola a voltarsi verso di lui. "Dobbiamo combattere." iniziò, prima che lei potesse fargli domande. "Hapnyan mi ha detto di riferirtelo."

Lei ammutolì e portò istintivamente le mani al grembo. Sua madre le afferrò le spalle per sorreggerla.

Lienhe attese la sua risposta per qualche secondo, osservando il suo viso turbato. "Va bene." rispose lei alla fine. "Porterò al rifugio chi ne ha bisogno. Dovrebbero essere tutti pronti." Si allontanò e la madre si affrettò a seguirla.

Lui provò a concentrarsi sulle sue parole. Il rifugio che lei stessa aveva scelto in caso di attacco non era che una piccola grotta poco lontana, grande a sufficienza da poter essere un riparo sicuro per tutti. Se l'avessero raggiunta in tempo, gli indifesi sarebbero stati salvi.

La maggior parte degli uomini e delle donne stavano fissando lui, gli archi in pugno. Lienhe strinse il proprio con più forza, riconoscendo nei loro volti gli stessi sentimenti che stava provando lui.

Non doveva farsi prendere dal panico. Tra i suoi compagni molti erano più anziani di lui e avevano probabilmente già affrontato una situazione simile. Doveva credere che sarebbe sopravvissuto.

Doveva ricordare quale fosse il suo dovere.

Un altro sparo risuonò ancora più vicino. Il suo fragore era tale che Lienhe pensò che gli avrebbe spaccato le tempie.

Qualcosa cadde, poco lontano. Lui non si voltò a guardare. Riconobbe lo scricchiolio delle ossa infrante, il suono di gocce di sangue che toccavano il terreno roccioso. Non voleva vedere. Non voleva sapere chi fosse caduto.

Anche se avesse tentato di farlo, non poteva muoversi. La sua mente gli ripeteva di andarsene prima che anche lui potesse fare la stessa fine, il suo corpo era bloccato.

Sono entrati, riuscì solo a pensare, mentre si sforzava di distogliere lo sguardo dal vuoto di fronte a sé e contrattaccare. Sono entrati.

Prima di allora c'era stata qualche speranza di evitare un massacro. Ora non più. Anziani e bambini erano troppo fragili per sostenere un attacco diretto.

E forse, a quel punto, la morte sarebbe stato un destino migliore di quello che li avrebbe attesi se fossero stati catturati.

Non osò nemmeno pensare a cosa potesse essere successo a Hapnyan e Kirthum. Non sarebbe mai riuscito a liberarsi dalla paralisi che aveva avvolto i suoi muscoli e a muoversi se ci si fosse soffermato troppo a lungo.

Un altro sparo esplose, troppo vicino. Questa volta il suo corpo reagì. Aprì le ali e volò più rapidamente di quanto avesse mai fatto, raggiungendo la maggior parte dei suoi compagni.

Non si sarebbero salvati neanche lassù, e lo sapeva bene. Avrebbero potuto anche cercare riparo al di sopra delle nubi. Prima o poi sarebbero stati comunque costretti a scendere, e i loro nemici erano capaci di aspettare anche ore. Ma nessuno di loro era disposto a nascondersi.

Se erano lì, era solo per combattere.

Lienhe inspirò, lasciando che l'aria fredda e rarefatta eliminasse ogni esitazione. Incoccò una freccia e prese la mira.

Una pioggia di dardi cadde sui cacciatori. Diversi colpirono il bersaglio. Le imprecazioni e le urla di dolore furono abbastanza forti da raggiungere chiaramente il cielo.

Durò poco. Gli spari ricominciarono presto, implacabili e precisi, diretti agli hiryn che stavano volando più in basso, e i corpi iniziarono a cadere.

Lienhe non riuscì a evitare di guardare la terra. Solo tre di loro erano stati colpiti, per ora. Erano ancora tutti vivi. La caduta non era stata sufficiente a ucciderli. Ma le loro ali erano ferite, e loro si guardavano attorno confusi, incapaci di rialzarsi e lottare.

Era come aveva sospettato. Quegli uomini non volevano eliminarli. Volevano impadronirsi di loro.

L'arciere scosse la testa, battendo le ali per salire leggermente. Avrebbe preferito morire lì piuttosto che farsi prendere e torturare. Per un momento pensò di continuare a volare, a costo di raggiungere il limite del cielo e soffocare, piuttosto che lasciare che gli sparassero.

Vide chiaramente uno dei cacciatori alzare il fucile verso Irgyvie prima che l'arma gli sfuggisse di mano, risuonando con forza al suolo mentre Kirthum gli trapassava la schiena con una freccia.

Era vivo.

L'attenzione dei cacciatori si spostò su di lui, ma lui scoprì i denti, estraendo il pugnale e gettandosi contro di loro. I suoi movimenti erano quasi troppo rapidi per essere facilmente distinguibili, ed era troppo vicino agli avversari perché potessero ferirlo.

Le frecce ricominciarono a cadere sugli umani che erano ancora abbastanza lontani da lui, mentre erano ancora distratti. Lienhe iniziò presto a sentire le braccia pesanti e doloranti come non gli era mai accaduto, ma non poteva smettere di attaccare.

Kirthum sarebbe morto se loro non avessero fatto qualcosa per aiutarlo.

Irgyvie gridò quando una delle sue ali fu colpita. Lienhe la guardò con orrore mentre precipitava, ma la sua caduta quando la sua schiena sbatté contro il tetto di una casa.

Kirthum si bloccò nel vedere la moglie ferita. Emise un grido selvaggio e iniziò a colpire alla cieca, tracciando nell'aria archi di sangue con il pugnale mentre tentava di farsi strada verso di lei.

Lienhe tese l'arco ancora una volta, accorgendosi che le sue frecce stavano cominciando a finire. Non fece in tempo a tirare. Il dolore esplose nella sua ala destra mentre il proiettile si faceva strada tra le piume, presto inondate da uno spruzzo di sangue, e lacerava i muscoli.

In un primo momento non si accorse di cadere.

Era troppo in alto. Non sarebbe stato in grado di sopravvivere all'impatto. E anche se non si fosse ridotto a un impasto informe di carne e sangue, non sarebbe riuscito a lottare.

Ma non si scontrò con il terreno. Il gelo che lo avvolse non era quello della morte. Mentre riprendeva a respirare, ringraziò chiunque stesse vegliando su di lui di averlo fatto affondare nel fiume. Almeno la sua fine non sarebbe arrivata subito.

Cercò di restare cosciente, di resistere al dolore, alla corrente e al freddo, e vide la testa di Kirthum voltarsi bruscamente nella sua direzione.

"Lienhe!"

Lui sollevò lo sguardo per vedere l'amico liberarsi dei nemici che lo stavano attaccando e cercare di raggiungerlo.

Non venire!, cercò di gridargli. Non poteva permettere che si rendesse vulnerabile cercando di aiutarlo. Ma non riusciva a parlare. Aveva a malapena le forze di restare a galla.

Sentì un altro sparo da qualche parte alla propria sinistra.

Il tempo parve fermarsi quando il proiettile esplose sul petto di Kirthum.

E Lienhe guardò. Guardò la piuma che gli aveva donato inzupparsi di sangue. Guardò un lampo di dolore attraversare gli occhi di Kirthum e il suo corpo che crollava all'indietro.

Guardò e non riuscì a crederci.

Solo il pianto di Irgyvie gli diede la certezza che tutto quello era reale. Voleva smettere di fissare il cadavere di Kirthum e cercare lei, assicurarsi che fosse ancora viva e che non le stessero facendo nulla. Voleva trovare la forza di raggiungere la riva e vendicarlo.

Tutto quello che fu capace di fare fu arrendersi e lasciarsi affondare.

Vide la superficie allontanarsi gradualmente, ma non tentò di raggiungerla. Anche se avesse provato, era troppo stanco per riuscirci.

Se fosse riemerso, avrebbe dovuto vedere di nuovo quello che era successo.

Ma un paio di mani lo afferrarono per i polsi, strappandolo alla crisalide delle acque. Quando riaprì gli occhi, Lienhe riuscì a vedere uno dei cacciatori che lo fissava gelido.

Non gli sarebbe stato concesso nemmeno il conforto della morte.

Il suo corpo fu scaraventato sulla riva, e anche se era appena in grado di respirare, tentò di rialzarsi. Doveva ucciderli. Doveva punirli per quello che avevano fatto.

Prima di perdere definitivamente i sensi si ritrovò a fissare il corpo di Kirthum.

                                                                                    ...

Presto sarebbe arrivata l'alba. La sottile striscia di cielo che si poteva vedere attraverso la finestra si stava schiarendo sempre di più e un lieve tepore cominciava a farsi strada nella notte.

Dhnir chiuse gli occhi, provando ancora una volta a dormire anche se sapeva che era troppo tardi.

L'estate stava finendo, ma faceva ancora troppo caldo lì, e lui non vi si era ancora abituato, nonostante dalla sua cattura fossero passati già due anni. Erano poche le notti in cui riusciva a riposare in quella stagione.

Anche quando il clima gli permetteva di addormentarsi, pensavano i suoi incubi a svegliarlo.

Rinunciando del tutto quando i primi raggi di sole iniziarono a brillare, si mise seduto. Anche gli altri presto si sarebbero alzati.

Si voltò e scorse gli occhi dorati di Shera che lo fissavano nella penombra. Anche lui doveva non avere dormito.

Rabbrividì, chiedendosi quanto a lungo lo avesse osservato.

Quel kamry aveva sempre avuto la capacità di farlo sentire vulnerabile. Sapeva a malapena il suo nome e non gli aveva mai rivolto la parola, ma aveva visto l'agilità e la rapidità dei suoi movimenti. Non aveva mai avuto il coraggio di contare le sue vittorie, ma dovevano essere molte.

E la sua espressione era sempre indecifrabile.

A differenza di altri, Dhnir si era ritenuto abbastanza saggio da non sfidarlo. Sospettava che, anche se avesse assunto la sua forma di orso, non l'avrebbe battuto.

Pensò per un momento di dirgli qualcosa perché smettesse di fissarlo, ma non ce ne fu bisogno. Shera si mise in ginocchio e gli voltò le spalle, restando in silenzio.

Il kery si accorse di avere trattenuto il respiro e si guardò intorno mentre le altre belve emergevano dal loro sonno leggero. In fondo non erano loro quelli che doveva temere.

Doveva continuare a fare tutto il possibile per non inimicarseli. Gli sarebbero stati utili, quando fosse riuscito a fuggire.

Mantenere in vita quell'unica speranza, per quanto vana, era l'unica cosa che potesse ancora salvarlo.

Non voleva credere che sarebbe rimasto lì per tutta la vita. Per quanti mesi fossero passati, si ripeteva ogni giorno che tutto quello che doveva fare fosse aspettare la giusta occasione. Poi sarebbe stato salvo e sarebbe tornato a casa.

Forse allora i sogni che lo tormentavano sarebbero scomparsi.

Sarebbe stato più facile morire lì. Ma non poteva permettere che il suo corpo già venduto e umiliato fosse sacrificato al divertimento di esseri che lo consideravano una bestia. Non dopo tutto quello che era successo...

Ricacciò il pensiero nel profondo del proprio essere e cercò di concentrarsi su altro. Doveva stare attento a ogni occasione e prepararsi a ritrovare la libertà – immaginare come sarebbe stato essere di nuovo tra la neve e le luci, come se non fosse mai successo nulla, come se le cicatrici che segnavano il suo corpo fossero scomparse.

Quelle fantasie erano l'unica cosa che lo confortasse nel buio e che gli impedisse di lasciarsi morire.

E lui sapeva di doverle custodire ancora per un giorno.

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